antica
TITUS MACCIUS PLAUTUS
VITA E FORTUNA DEL MISTERIOSO
COMMEDIOGRAFO ROMANO
di Luigi De Palo
Della vita di Plauto sappiamo ben poco,
le scarse informazioni ci arrivano
soprattutto da Cicerone e Gellio.
Cicerone ci dice che Plauto morì sotto
il consolato di Publio Claudio e Lucio
Porcio e quindi intorno al 184 a.C. (è
probabile che nel 186 a.C. fosse ancora
in vita, in quanto nell’opera Casina
pare ci sia un’allusione alla
repressione dello scandalo dei
baccanali) e che durante la senectus
(vecchiaia) compose le commedie
Pseudolus e Truculentus.
Considerando che la senectus
cominciava per i romani a sessant’anni e
che la prima dello Pseudolus fu
nel 191 a.C., Plauto probabilmente
nacque tra il 255 e il 251 a.C.
Gellio invece spiega che Plauto lavorò
come autore di teatro e acquistò una
certa fama nello stesso periodo di
Catone il Vecchio, quindi alla fine
della II Guerra Punica. Altre fonti sono
quelle del poeta Gerolamo che ci indica
Sarsina come luogo di nascita di Plauto.
Il fatto che Plauto non sia romano è
alquanto singolare, poiché il poeta
utilizza nelle sue opere un latino
perfetto, con rarissimi grecismi e senza
termini popolari o dialettali.
Misterioso è anche il nome di Plauto: in
riferimento infatti ai tria nomina
tipici dei romani, inizialmente si
pensava che il suo nome fosse Marcus
Accius Plautus, mentre con la scoperta
del Palinsesto Ambrosiano – rinvenuto a
inizio Ottocento dal cardinale Angelo
Mai –, si scoprì che il vero nome era
Titus Maccius Plautus, ma essendo Plauto
umbro, probabilmente non aveva la
cittadinanza romana e quindi
teoricamente non doveva avere i tria
nomina. Se analizziamo però il nome,
notiamo che Maccus è l’appellativo di
una maschera dell’Atellana, ossia un
genere di teatro popolaresco tipico
della città di Atella (oggi Aversa). È
dunque ipotizzabile che prima di
diventare autore di teatro fu un attore
di Atellana recitando appunto la parte
di Maccus. Anche il cognome Plautus è
particolare, forse originario di una
caratteristica fisica dell’autore
stesso: gli umbri di Sarsina chiamavano
ad esempio “ploti” coloro che
avevano i piedi piatti; oppure potrebbe
indicare anche le orecchie lunghe (“plauti”
era il nome dato ai cani con le orecchie
pendenti).
Abbiamo visto dunque quanto sia
misteriosa la vita di Plauto e quanto
poco sappiamo sul suo conto. Sappiamo
però che lavorava nel mondo del teatro
romano, un teatro che rimandava
chiaramente alla tradizione greca, ma
anche degli etruschi, che ispirati
anch’essi dalla cultura greca erano
soliti organizzare spettacoli pubblici.
Plauto stesso nei suoi prologhi ci fa
sovente il nome dell’autore greco e del
titolo originale. Quello che il poeta
faceva era una sorta di traduzione
artistica dell’opera greca, con
l’obiettivo di rendere credibile, e
soprattutto godibile, la commedia per il
pubblico romano (basti pensare alle
numerose parti cantate o comunque con
sottofondo musicale introdotte
dall’autore e non presenti negli
originali). La traduzione diventa quindi
un’opera letteraria a tutti gli effetti,
con l’inserimento di nuove parole (poi
magari non più riscontrate in nessuna
opera), allusioni o giochi di parole
comprensibili ai soli romani. Persino
Cicerone non ebbe problemi a giudicare
in alcuni casi la versione latina
migliore dell’originale greca.
Tipica era anche la pratica della
contaminatio, ossia l’uso di
inserire in un testo originale battute
provenienti da altre opere greche (e non
per forza dello stesso autore). Gli
stessi Plauto e Terenzio hanno sostenuto
di averne ampiamente usufruito. Terenzio
ad esempio nel prologo dell’Andria.
Questa pratica sarà molto criticata
nell’Ottocento dagli studiosi tedeschi,
che ritenevano la contaminatio la prova
della scarsa originalità dei romani. In
realtà la contaminatio si
prestava bene alla rappresentazione
teatrale della commedia, come vedremo
infatti a breve con il significato delle
maschere; era semplice per qualunque
autore latino introdurre nuove scene in
quanto i personaggi e il loro agire era
fondamentalmente il medesimo.
Ma chi erano i tipici spettatori delle
commedie di Plauto? Essendo
rappresentazioni poco impegnative,
queste raramente richiamavano un
pubblico “importante” ed è proprio
Plauto a dircelo nei suoi prologhi:
schiavi, liberti e in generale i
popolani, sono queste le persone a cui
si rivolge Plauto. Bisogna però
puntualizzare che l’assenza di
riferimenti all’élite non significa che
questi non venivano a vedere le commedie
plautine, anzi probabilmente avevano
riservati posti d’onore, ma per rispetto
non venivano citati nei prologhi di
Plauto.
Infatti qualsiasi spettacolo romano era
fortemente legato alla politica: le
tragedie erano chiaramente strumenti di
propaganda, mentre le commedie dovevano
essere innocue dal punto di vista
politico. Pare che Nevio (poeta e
drammaturgo romano) fu incarcerato
proprio per questo motivo e in effetti
in Plauto non ci sono assolutamente
episodi di satira o attacchi
all’autorità.
Messaggio politico o meno, la forza
della rappresentazione teatrale era
dovuta al fatto che chiunque potesse
seguire la vicenda, anche i più
distratti e chiassosi; l’utilizzo
infatti di maschere fisse rendeva chiaro
chi era un personaggio e quale sarebbe
stato il suo ruolo, così come i nomi dei
personaggi stessi. D’altra parte Plauto
non è mai stato interessato a indagini
psicologiche, interiori ecc. – come sarà
poi Terenzio – e questo gli ha permesso
di attingere senza problemi alle
maschere e ai loro significati,
adattandoli alle sue opere. Anche la
scena era molto semplice: alcune case (o
anche un tempio) e una via, per il resto
lo spettatore doveva lavorare di
fantasia.
Ma cosa accadde con la fine della
cultura antica? Come abbiamo visto
Plauto fu un autore di grande successo
in vita, tant’è che le sue opere, dopo
la sua morte, furono raccolte in un solo
corpus. Tale corpus
conteneva anche commedie dubbie e spurie
e già dal II secolo a.C. numerosi
eruditi si dedicarono all’attività di
capire che cosa fosse realmente di
Plauto. Tra questi il più importante fu
Varrone che attribuì a Plauto ventuno
commedie – che sono quelle giunte fino a
noi – e altre che lo studioso attribuì a
Plauto per motivi stilistici (forse
diciannove, ma non sappiamo nulla di
queste opere).
Se Plauto venne poi osannato da Cicerone
per la purezza di linguaggio, Orazio in
età augustea sembrò non amare nulla
delle sue commedie e in generale della
cultura arcaica, che verrà ripresa solo
nel I secolo d.C. grazie al grammatico
Valerio Probo, così Plauto, Terenzio e
altri tornarono a essere autori
ricercati, letti dalle persone colte ma
non più rappresentati sulla scena.
Nel basso medioevo Plauto e Terenzio
restarono gli unici autori di età
arcaica sopravvissuti. In questo periodo
delle commedie di Plauto rimasero solo
le ventuno selezionate da Varrone ed è
proprio nel IV e V secolo che furono
redatte le prime edizioni. Da queste
edizioni derivò il già citato Palinsesto
scoperto dal cardinale Mai,
probabilmente la copia di un codice più
antico. Conosciamo ben poco delle
origini del codice, ma sappiamo che nel
VII secolo entrò in possesso dei monaci
di Bobbio, che scrissero sulla pergamena
parte dell’Antico Testamento, non per
sfregio alla cultura pagana, ma a causa
dei costi elevati della pergamena.
Inoltre probabilmente il codice era già
in cattive condizioni e quindi ritenuto
“sacrificabile”. Nel 1603 il codice alla
Biblioteca Ambrosiana fu quindi scoperto
dal Mai, che si accorse che c’era
qualcos’altro oltre al testo biblico.
Ma il Palinsesto ambrosiano non fu
l’unico codice. Nella seconda metà del
IV secolo infatti ne fu redatto un altro
contenente sempre le ventuno commedie,
ma in edizione diversa rispetto al
Palinsesto (testimoniato ad esempio
dall’assenza di didascalie). Non fu
utilizzato per altri scopi e venne
ritrovato probabilmente in Francia nel
IX secolo. Il codice fu ricopiato e
l’originale andò perso, così come la
copia francese, ma esistono ancora oggi
codici derivanti da quest’ultimo, tra
cui i più importanti sono i tre scritti
in Germania nel X-XI secolo: il Palatino
Lat. 1615, il Vaticano Lat. 3870 e il
Palatino Heidelberg Lat. 1613
Nel Quattrocento agli umanisti erano
giunte solo otto commedie, ma erano
consapevoli dell’esistenza delle ventuno
in totale. Le ricerche furono quindi
lunghe ed estenuanti, finché non fu
ritrovato il già citato codice Vaticano
Lat. 3870 a Colonia. Il codice conteneva
quattro delle commedie già conosciute,
ma soprattutto le dodici che erano
andate perdute. La notizia fece grande
scalpore e il codice giunse a Roma
tramite il cardinale Giordano Orsini. Da
questo codice furono poi realizzate
diverse copie, alcune giunte fino a noi.
Sappiamo inoltre che a fine Quattrocento
i testi di Plauto – insieme a quelli di
Terenzio – vennero ripresi per la scena
e non più per la semplice lettura;
abbiamo infatti testimonianza di
rappresentazioni teatrali, da parte
dell’Accademia Pomponiana, proprio delle
commedie di Plauto. Le prime
rappresentazioni – con testi originali
in latino – furono realizzate a Roma
intorno al 1480, con una messa in scena
dell’Asinaria in un teatro di
legno eretto provvisoriamente sul colle
del Quirinale.
Successivamente le rappresentazioni
furono presentate con traduzioni in
italiano, ad esempio testi classici
tradotti furono messi in scena alla
corte di Ludovico il Moro e alla corte
degli Estensi. Dalle traduzioni diversi
autori passarono poi a libere
interpretazioni e a testi nuovi sempre
ispirati ai classici; una situazione del
tutto analoga a quello che successe con
i romani e il modello greco.
Dall’inizio del Cinquecento Plauto
divenne, sempre insieme a Terenzio, il
padre del teatro comico europeo. Le
commedie cominciarono sempre di più a
rifarsi al modello plautino, come ad
esempio con la figura del servo: il
servo in Plauto è colui che consente al
padrone di raggiungere il suo obiettivo
(spesso la conquista della donna amata).
La figura del servo plautino la
ritroveremo nel Barbiere di Siviglia
di Rossini, con Figaro che permette ad
Almaviva di sposare Rosina prigioniera
del suo tutore; oppure in Goethe, dove
Mefistofele aiuta Faust a conquistare la
donna amata.
A questa fortuna nel teatro europeo non
corrispose però lo stesso successo in
campo letterario. I contributi furono
tanti anche nei secoli successivi, ma
Plauto rimase un tabù nelle scuole per
questioni moralistiche legate
soprattutto alla religione. A Plauto si
preferiva Terenzio, i cui testi erano
considerati anche più semplici rispetto
a quelli plautini.
È solo nel Settecento che, grazie alla
scuola tedesca, Plauto tornò a essere
preso in considerazione in ambito
letterario, non solo teatrale, ma
soprattutto è nell’Ottocento che la già
citata scoperta del Mai suscitò fervore
presso gli studiosi tedeschi come Reiz e
Ritschl. Fino al Novecento in Germania
Plauto fu uno degli autori più studiati
e i contributi più importanti per la
comprensione delle sue commedie li
dobbiamo proprio alla filologia tedesca.
Ovviamente anche fuori dalla Germania
Plauto fu letto e studiato avidamente:
citiamo studiosi come Lindsay
(anglosassone, autore di un’edizione
critica delle commedie); Duckworth e
Beare. Pure in Italia non ci siamo
dimenticati del poeta di Sarsina:
ripresi gli studi da Pasquali, i suoi
allievi hanno poi dedicato ricerche
importanti alle sue commedie e in
generale alla letteratura arcaica
latina. Citiamo ad esempio Ronconi e
Mariotti. Merito della filologia
italiana è quella di essersi concentrata
molto sulla figura di Plauto in quanto
persona, mettendone in risalto la vita e
i suoi status, ecc. Al contrario
della filologia straniera che ha
preferito focalizzarsi sulle opere del
poeta latino.
Oltre alla scuola del Pasquali, ve ne
furono in Italia anche altre con
esponenti come Barchiesi e Traina, che
resero il nostro paese assolutamente
all’avanguardia nel campo degli studi
plautini. Citiamo come esempio la
cooperazione tra l’Università di Urbino
“Carlo Bo” e la Città di Sarsina, grazie
alla quale nel 1996 presso l’Ateneo
urbinate è stato creato un Centro
Internazionale di Studi Plautini, a cui
è strettamente collegato il PLAVTVS
(Centro di Ricerche Plautine
Sarsina-Urbino), nato nel 1997. |