[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

162 / GIUGNO 2021 (CXCIII)


antica

TITUS MACCIUS PLAUTUS

VITA E FORTUNA DEL MISTERIOSO COMMEDIOGRAFO ROMANO

di Luigi De Palo

 

Della vita di Plauto sappiamo ben poco, le scarse informazioni ci arrivano soprattutto da Cicerone e Gellio. Cicerone ci dice che Plauto morì sotto il consolato di Publio Claudio e Lucio Porcio e quindi intorno al 184 a.C. (è probabile che nel 186 a.C. fosse ancora in vita, in quanto nell’opera Casina pare ci sia un’allusione alla repressione dello scandalo dei baccanali) e che durante la senectus (vecchiaia) compose le commedie Pseudolus e Truculentus. Considerando che la senectus cominciava per i romani a sessant’anni e che la prima dello Pseudolus fu nel 191 a.C., Plauto probabilmente nacque tra il 255 e il 251 a.C.

 

Gellio invece spiega che Plauto lavorò come autore di teatro e acquistò una certa fama nello stesso periodo di Catone il Vecchio, quindi alla fine della II Guerra Punica. Altre fonti sono quelle del poeta Gerolamo che ci indica Sarsina come luogo di nascita di Plauto. Il fatto che Plauto non sia romano è alquanto singolare, poiché il poeta utilizza nelle sue opere un latino perfetto, con rarissimi grecismi e senza termini popolari o dialettali.

 

Misterioso è anche il nome di Plauto: in riferimento infatti ai tria nomina tipici dei romani, inizialmente si pensava che il suo nome fosse Marcus Accius Plautus, mentre con la scoperta del Palinsesto Ambrosiano – rinvenuto a inizio Ottocento dal cardinale Angelo Mai –, si scoprì che il vero nome era Titus Maccius Plautus, ma essendo Plauto umbro, probabilmente non aveva la cittadinanza romana e quindi teoricamente non doveva avere i tria nomina. Se analizziamo però il nome, notiamo che Maccus è l’appellativo di una maschera dell’Atellana, ossia un genere di teatro popolaresco tipico della città di Atella (oggi Aversa). È dunque ipotizzabile che prima di diventare autore di teatro fu un attore di Atellana recitando appunto la parte di Maccus. Anche il cognome Plautus è particolare, forse originario di una caratteristica fisica dell’autore stesso: gli umbri di Sarsina chiamavano ad esempio “ploti” coloro che avevano i piedi piatti; oppure potrebbe indicare anche le orecchie lunghe (“plauti” era il nome dato ai cani con le orecchie pendenti).

 

Abbiamo visto dunque quanto sia misteriosa la vita di Plauto e quanto poco sappiamo sul suo conto. Sappiamo però che lavorava nel mondo del teatro romano, un teatro che rimandava chiaramente alla tradizione greca, ma anche degli etruschi, che ispirati anch’essi dalla cultura greca erano soliti organizzare spettacoli pubblici.

 

Plauto stesso nei suoi prologhi ci fa sovente il nome dell’autore greco e del titolo originale. Quello che il poeta faceva era una sorta di traduzione artistica dell’opera greca, con l’obiettivo di rendere credibile, e soprattutto godibile, la commedia per il pubblico romano (basti pensare alle numerose parti cantate o comunque con sottofondo musicale introdotte dall’autore e non presenti negli originali). La traduzione diventa quindi un’opera letteraria a tutti gli effetti, con l’inserimento di nuove parole (poi magari non più riscontrate in nessuna opera), allusioni o giochi di parole comprensibili ai soli romani. Persino Cicerone non ebbe problemi a giudicare in alcuni casi la versione latina migliore dell’originale greca.

 

Tipica era anche la pratica della contaminatio, ossia l’uso di inserire in un testo originale battute provenienti da altre opere greche (e non per forza dello stesso autore). Gli stessi Plauto e Terenzio hanno sostenuto di averne ampiamente usufruito. Terenzio ad esempio nel prologo dell’Andria. Questa pratica sarà molto criticata nell’Ottocento dagli studiosi tedeschi, che ritenevano la contaminatio la prova della scarsa originalità dei romani. In realtà la contaminatio si prestava bene alla rappresentazione teatrale della commedia, come vedremo infatti a breve con il significato delle maschere; era semplice per qualunque autore latino introdurre nuove scene in quanto i personaggi e il loro agire era fondamentalmente il medesimo.

 

Ma chi erano i tipici spettatori delle commedie di Plauto? Essendo rappresentazioni poco impegnative, queste raramente richiamavano un pubblico “importante” ed è proprio Plauto a dircelo nei suoi prologhi: schiavi, liberti e in generale i popolani, sono queste le persone a cui si rivolge Plauto. Bisogna però puntualizzare che l’assenza di riferimenti all’élite non significa che questi non venivano a vedere le commedie plautine, anzi probabilmente avevano riservati posti d’onore, ma per rispetto non venivano citati nei prologhi di Plauto.

 

Infatti qualsiasi spettacolo romano era fortemente legato alla politica: le tragedie erano chiaramente strumenti di propaganda, mentre le commedie dovevano essere innocue dal punto di vista politico. Pare che Nevio (poeta e drammaturgo romano) fu incarcerato proprio per questo motivo e in effetti in Plauto non ci sono assolutamente episodi di satira o attacchi all’autorità.

 

Messaggio politico o meno, la forza della rappresentazione teatrale era dovuta al fatto che chiunque potesse seguire la vicenda, anche i più distratti e chiassosi; l’utilizzo infatti di maschere fisse rendeva chiaro chi era un personaggio e quale sarebbe stato il suo ruolo, così come i nomi dei personaggi stessi. D’altra parte Plauto non è mai stato interessato a indagini psicologiche, interiori ecc. – come sarà poi Terenzio – e questo gli ha permesso di attingere senza problemi alle maschere e ai loro significati, adattandoli alle sue opere. Anche la scena era molto semplice: alcune case (o anche un tempio) e una via, per il resto lo spettatore doveva lavorare di fantasia.

 

Ma cosa accadde con la fine della cultura antica? Come abbiamo visto Plauto fu un autore di grande successo in vita, tant’è che le sue opere, dopo la sua morte, furono raccolte in un solo corpus. Tale corpus conteneva anche commedie dubbie e spurie e già dal II secolo a.C. numerosi eruditi si dedicarono all’attività di capire che cosa fosse realmente di Plauto. Tra questi il più importante fu Varrone che attribuì a Plauto ventuno commedie – che sono quelle giunte fino a noi – e altre che lo studioso attribuì a Plauto per motivi stilistici (forse diciannove, ma non sappiamo nulla di queste opere).

 

Se Plauto venne poi osannato da Cicerone per la purezza di linguaggio, Orazio in età augustea sembrò non amare nulla delle sue commedie e in generale della cultura arcaica, che verrà ripresa solo nel I secolo d.C. grazie al grammatico Valerio Probo, così Plauto, Terenzio e altri tornarono a essere autori ricercati, letti dalle persone colte ma non più rappresentati sulla scena.

 

Nel basso medioevo Plauto e Terenzio restarono gli unici autori di età arcaica sopravvissuti. In questo periodo delle commedie di Plauto rimasero solo le ventuno selezionate da Varrone ed è proprio nel IV e V secolo che furono redatte le prime edizioni. Da queste edizioni derivò il già citato Palinsesto scoperto dal cardinale Mai, probabilmente la copia di un codice più antico. Conosciamo ben poco delle origini del codice, ma sappiamo che nel VII secolo entrò in possesso dei monaci di Bobbio, che scrissero sulla pergamena parte dell’Antico Testamento, non per sfregio alla cultura pagana, ma a causa dei costi elevati della pergamena. Inoltre probabilmente il codice era già in cattive condizioni e quindi ritenuto “sacrificabile”. Nel 1603 il codice alla Biblioteca Ambrosiana fu quindi scoperto dal Mai, che si accorse che c’era qualcos’altro oltre al testo biblico.

 

Ma il Palinsesto ambrosiano non fu l’unico codice. Nella seconda metà del IV secolo infatti ne fu redatto un altro contenente sempre le ventuno commedie, ma in edizione diversa rispetto al Palinsesto (testimoniato ad esempio dall’assenza di didascalie). Non fu utilizzato per altri scopi e venne ritrovato probabilmente in Francia nel IX secolo. Il codice fu ricopiato e l’originale andò perso, così come la copia francese, ma esistono ancora oggi codici derivanti da quest’ultimo, tra cui i più importanti sono i tre scritti in Germania nel X-XI secolo: il Palatino Lat. 1615, il Vaticano Lat. 3870 e il Palatino Heidelberg Lat. 1613

 

Nel Quattrocento agli umanisti erano giunte solo otto commedie, ma erano consapevoli dell’esistenza delle ventuno in totale. Le ricerche furono quindi lunghe ed estenuanti, finché non fu ritrovato il già citato codice Vaticano Lat. 3870 a Colonia. Il codice conteneva quattro delle commedie già conosciute, ma soprattutto le dodici che erano andate perdute. La notizia fece grande scalpore e il codice giunse a Roma tramite il cardinale Giordano Orsini. Da questo codice furono poi realizzate diverse copie, alcune giunte fino a noi.

 

Sappiamo inoltre che a fine Quattrocento i testi di Plauto – insieme a quelli di Terenzio – vennero ripresi per la scena e non più per la semplice lettura; abbiamo infatti testimonianza di rappresentazioni teatrali, da parte dell’Accademia Pomponiana, proprio delle commedie di Plauto. Le prime rappresentazioni – con testi originali in latino – furono realizzate a Roma intorno al 1480, con una messa in scena dell’Asinaria in un teatro di legno eretto provvisoriamente sul colle del Quirinale.

 

Successivamente le rappresentazioni furono presentate con traduzioni in italiano, ad esempio testi classici tradotti furono messi in scena alla corte di Ludovico il Moro e alla corte degli Estensi. Dalle traduzioni diversi autori passarono poi a libere interpretazioni e a testi nuovi sempre ispirati ai classici; una situazione del tutto analoga a quello che successe con i romani e il modello greco.

 

Dall’inizio del Cinquecento Plauto divenne, sempre insieme a Terenzio, il padre del teatro comico europeo. Le commedie cominciarono sempre di più a rifarsi al modello plautino, come ad esempio con la figura del servo: il servo in Plauto è colui che consente al padrone di raggiungere il suo obiettivo (spesso la conquista della donna amata). La figura del servo plautino la ritroveremo nel Barbiere di Siviglia di Rossini, con Figaro che permette ad Almaviva di sposare Rosina prigioniera del suo tutore; oppure in Goethe, dove Mefistofele aiuta Faust a conquistare la donna amata.

 

A questa fortuna nel teatro europeo non corrispose però lo stesso successo in campo letterario. I contributi furono tanti anche nei secoli successivi, ma Plauto rimase un tabù nelle scuole per questioni moralistiche legate soprattutto alla religione. A Plauto si preferiva Terenzio, i cui testi erano considerati anche più semplici rispetto a quelli plautini.

 

È solo nel Settecento che, grazie alla scuola tedesca, Plauto tornò a essere preso in considerazione in ambito letterario, non solo teatrale, ma soprattutto è nell’Ottocento che la già citata scoperta del Mai suscitò fervore presso gli studiosi tedeschi come Reiz e Ritschl. Fino al Novecento in Germania Plauto fu uno degli autori più studiati e i contributi più importanti per la comprensione delle sue commedie li dobbiamo proprio alla filologia tedesca.

 

Ovviamente anche fuori dalla Germania Plauto fu letto e studiato avidamente: citiamo studiosi come Lindsay (anglosassone, autore di un’edizione critica delle commedie); Duckworth e Beare. Pure in Italia non ci siamo dimenticati del poeta di Sarsina: ripresi gli studi da Pasquali, i suoi allievi hanno poi dedicato ricerche importanti alle sue commedie e in generale alla letteratura arcaica latina. Citiamo ad esempio Ronconi e Mariotti. Merito della filologia italiana è quella di essersi concentrata molto sulla figura di Plauto in quanto persona, mettendone in risalto la vita e i suoi status, ecc. Al contrario della filologia straniera che ha preferito focalizzarsi sulle opere del poeta latino.

 

Oltre alla scuola del Pasquali, ve ne furono in Italia anche altre con esponenti come Barchiesi e Traina, che resero il nostro paese assolutamente all’avanguardia nel campo degli studi plautini. Citiamo come esempio la cooperazione tra l’Università di Urbino “Carlo Bo” e la Città di Sarsina, grazie alla quale nel 1996 presso l’Ateneo urbinate è stato creato un Centro Internazionale di Studi Plautini, a cui è strettamente collegato il PLAVTVS (Centro di Ricerche Plautine Sarsina-Urbino), nato nel 1997. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]