N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
PATRIOTTISMO ITALIANO O MISSIONE UNIVERSALE?
Pio IX e il Risorgimento
di Ivano Abbadessa
I
giudizi
sull’operato
politico
di
Pio
IX
durante
il
suo
lungo
pontificato
riflettevano
per
lo
più
quelle
che
erano
le
diverse
tendenze
di
pensiero
politico
all’interno
del
Risorgimento
Italiano.
Le
correnti
conservatrici
e
clericali
vedevano
in
Mastai
il
papa
buono
“che
si
era
prodigato
per
il
bene
dei
suoi
figli,
ricevendone
in
ricompensa
ingratitudine,
oltraggi,
persecuzioni,
esilio,
e
superando
tutto
con
la
sua
santità
e
con
l’aiuto
soprannaturale”.
Diversa
fu
l’opinione
democratica,
radicale
e
mazziniana,
che
vedeva
nel
papa
un
traditore
e un
voltagabbana
che
ha
prima
incoraggiato
e
poi
rinnegato
la
causa
nazionale.
La
tesi
del
papa
vittima
dei
suoi
errori
politici
fu
invece
la
valutazione
sostenuta
dalla
maggioranza
dei
moderati
e in
particolare
da
uno
dei
suoi
esponenti
più
illustri,
Luigi
Carlo
Farini,
che
si
soffermava
sulla
“ispirazione
prettamente
religiosa
di
tutta
la
politica
del
papa,
convinto
di
dover
conservare
il
potere
temporale
come
presidio
di
indipendenza
per
la
Chiesa,
[…],
e di
non
recare
danno
alla
religione
col
venire
incontro
alle
aspirazioni
dell’epoca”.
Negli
anni
successivi
alla
Seconda
Guerra
mondiale
grazie
all’accesso
ad
ampie
fonti
prima
riservate,
e
grazie
anche
alla
maturazione
di
un
distacco
“emotivo”
dagli
eventi,
la
storiografia
ha
potuto
elaborare
un
giudizio
più
ponderato
sul
pontificato
di
Pio
IX.
Come
è
noto,
all’interno
del
movimento
nazionale
italiano,
furono
sostanzialmente
due
le
correnti
di
pensiero
e di
azione
politica
che
immaginarono
e
perseguirono
strade
differenti
per
giungere
all’unità
d’Italia:
una
era
quella
seguita
da
Giuseppe
Mazzini
e
dai
democratici;
l’altra
quella
seguita
dai
moderati.
Le
rivoluzioni
del
’30
e
’31
segnarono
la
fine
delle
società
segrete
che
nell’atto
pratico
non
furono
in
grado
di
realizzare
larghe
intese
e di
cambiare
le
cose.
Da
queste
esperienze
maturò
la
figura
di
Mazzini
che
si
rese
conto
dell’insufficienza
del
movimento
carbonaro,
elaborando
una
nuova
strategia
e
divenendo
così
uno
dei
grandi
artefici
del
movimento
nazionale
italiano.
Secondo
Mazzini,
infatti,
se
l’Italia
voleva
essere
nazione
(una
e
repubblicana),
non
poteva
fare
affidamento
sulle
sette
segrete
ma
era
piuttosto
necessario
che
il
movimento
nazionale
prendesse
atto
della
propria
forza
e
dei
propri
obiettivi.
La
sua
strategia
era
incentrata
sull’associazionismo
e
poggiava
su
una
base
etico-religiosa.
Credeva
che
Dio
avesse
affidato
a
ciascun
popolo
una
missione
di
civiltà
e
ciascuno
dovesse
portarla
avanti.
Ogni
popolo
doveva
poter
aspirare
all’indipendenza
politica
e,
nel
caso
in
cui
subisse
pressioni
esterne,
doveva
lottare
e
fare
il
possibile
per
ottenere
l’indipendenza.
Per
fare
questo
bisognava
unire
le
forze,
propagandare
le
idee
e
dichiarare
apertamente
gli
obiettivi.
Mazzini
individuò
i
maggiori
ostacoli
all’unità
italiana
nell’Austria
e
nello
Stato
pontificio.
Riteneva
quest’ultimo
anacronistico
e
auspicava
la
scomparsa
della
Chiesa
cattolica
in
nome
di
una
religiosità
laica.
Mazzini
era
un
autentico
rivoluzionario,
avverso
però
a
tutte
le
dottrine
socialiste;
puntò
molto
sulla
stampa
come
mezzo
per
esporre
le
sue
idee
alla
massa,
scontrandosi
tuttavia
con
il
forte
analfabetismo
che
caratterizzava
l’Italia
dell’Ottocento.
Accanto
alla
via
mazziniana
troviamo
numerose
correnti
di
pensiero
che
aspirano
all’unificazione
italiana.
C’è
l’idea
federalista
democratica
di
Cattaneo
e
Ferrari;
quella
di
Balbo
e di
D’Azeglio
che
vogliono
federare
la
Penisola
sotto
la
guida
del
Piemonte;
quella
neoguelfa
del
torinese
Vincenzo
Gioberti
che
vede
un’Italia
federata
sotto
l’autorevole
guida
del
papa.
L’opera
di
quest’ultimo
influenzò
molto
il
movimento
nazionale
italiano.
Gioberti
fa
infatti
riferimento
al
primato
morale
e
civile
degli
italiani
che
egli
ricerca
nelle
arti,
nella
letteratura,
nella
gloria
dei
comuni
e
soprattutto
nella
religione
cattolica,
nella
quale
vede
la
componente
fondamentale
della
nazione
italiana.
Gioberti,
che
aveva
abbracciato
la
vita
sacerdotale,
fu
costretto
all’esilio
nel
1833
perché
sospettato
dal
governo
sabaudo
di
avere
inclinazioni
liberali.
Fu
proprio
in
esilio
che
egli
elaborò
il
suo
pensiero
filosofico
nella
convinzione
che
la
Chiesa
cattolica
potesse
riprendere
il
ruolo
di
guida
dei
popoli,
trovando
un
punto
d’incontro
con
i
principi
della
civiltà
moderna.
A
suo
avviso,
l’autorità
morale
del
papa
e il
rafforzamento
etico-culturale
della
Chiesa
dovevano
coincidere
con
il
risorgimento
politico
dell’Italia,
centro
del
cattolicesimo,
destinata
a
sostituirsi
alla
Francia
nell’indicazione
delle
vie
del
progresso
civile.
Queste
idee
furono
elaborate
nell’opera
Del
primato
morale
e
civile
degli
italiani,
pubblicata
nel
maggio
del
1843
a
Bruxelles.
Gioberti
non
crede
che
sia
possibile
fare
la
rivoluzione
contro
i
rispettivi
sovrani
e
formare
uno
stato
unico,
ne
che
l’unità
italiana
possa
essere
fatta
dalla
forza
dello
straniero.
L’unità
d’Italia,
egli
sosteneva,
doveva
fondarsi
sul
principio
federale
che
doveva
trovare
il
collante
nella
religione
cattolica
e il
capo
naturale
dei
sovrani,
che
sarebbero
entrati
a
far
parte
della
federazione,
sarbbe
dovuto
essere
il
papa.
Anche
se
questo
suo
disegno
dell’unità
nazionale
sembrava
insufficiente
a
molti,
per
Gioberti
era
l’unico
attuabile.
Dopo
gli
avvenimenti
del
’48-’49
fallisce
l’idea
mazziniana
e
prende
sempre
più
forma
e
respiro
il
movimento
moderato
composto
da
uomini
di
diversi
Stati:
piemontesi,
toscani,
meridionali.
Essi
sostenevano
che
un
movimento
rivoluzionario
in
Italia
non
avrebbe
avuto
sbocco:
da
una
parte
perché
nelle
masse
era
forte
l’attaccamento
alla
fede
cattolica
e ai
sovrani;
dall’altra,
perché
le
classi
della
media
e
alta
borghesia
avevano
interessi
conservatori,
difficilmente
conciliabili
con
le
dottrine
sovversive
della
Giovine
Italia
di
Mazzini.
Per
alcuni
moderati
la
via
dell’indipendenza
passava
per
il
progresso
economico
e,
in
particolare,
con
la
costruzione
di
linee
ferroviarie
che
all’epoca
si
andavano
espandendo
in
tutti
i
più
industrializzati
paesi
europei.
La
strada
ferrata
avrebbe
fatto
uscire
dal
loro
isolamento
e
protezionismo
economico
gli
Stati
italiani
e,
allo
stesso
tempo,
avrebbe
inevitabilmente
portato
ad
una
crisi
del
sistema
politico
della
Penisola
a
causa
della
disomogeneità
delle
politiche
fiscali
e
tariffarie.
È
per
questo
che
il
grosso
dei
moderati
comincia
a
pensare
ad
una
federazione
o
confederazione
degli
Stati
italiani.
Uno
dei
maggiori
problemi
all’unità
della
Penisola
era
rappresentato
dalla
presenza
dello
Stato
pontificio,
l’unico
regno
teocratico
d’occidente.
Parlare
in
questo
tipo
di
stato
di
riforme
fiscali,
doganali,
di
diritto
familiare,
di
valori
o
ancor
di
più
di
costituzione
comportava
necessariamente
maggiori
problemi.
Vi
era
tuttavia
una
corrente
di
cattolici
liberali
che
ritenevano
possibile
conciliare
l’azione
papale
con
quella
del
pensiero
moderno.
Per
molti
lo
stesso
cardinale
Mastai
apparteneva
a
questa
corrente,
tanto
da
identificarlo
con
il
papa
idealizzato
nel
Primato
di
Gioberti.
Dopo
la
morte
di
Gregorio
XVI,
forse
uno
dei
papi
più
reazionari
dell’Ottocento,
il
Sacro
Collegio
era
composto
da
cinquantaquattro
italiani
e
otto
stranieri,
dei
quali
però
nessuno
riuscì
ad
arrivare
in
tempo
per
partecipare
al
conclave
che
si
riunì
il
15
giugno
e si
concluse
l’indomani
dopo
soli
quattro
scrutini.
La
rapidità
con
cui
si
svolse
l’elezione
non
deve
indurre
a
pensare
che
questa
sia
stata
immune
da
pressioni
politiche.
Invero,
i
liberali
avevano
simpatie
per
il
cardinal
Gizzi
che
venne
anche
soprannominato
per
l’occasione
“il
papa
di
D’Azeglio”;
l’ala
più
conservatrice
premeva
per
l’elezione
del
cardinal
Lambruschini
già
segretario
di
Stato
con
Gregorio
XVI.
Il
nuovo
papa
sarebbe
dovuto
essere,
dunque,
una
figura
di
moderato
in
grado
di
poter
conciliare
le
differenti
posizioni.
Questo
identikit
sembrava
corrispondere
proprio
a
quello
dell’arcivescovo
di
Imola:
il
cardinal
Giovanni
Maria
Mastai
Ferretti,
che
venne
eletto
nella
tarda
mattinata
del
17
giugno
1846.
Il
nuovo
Pontefice,
un
mese
esatto
dopo
la
sua
elezione,
fece
un’ampia
amnistia,
concesse
la
libertà
di
stampa,
istituì
una
commissione
cardinalizia
che
studiasse
dei
miglioramenti
da
apportare
allo
Stato
pontificio
e
approvò
una
serie
di
riforme
costituzionali
che
entusiasmarono
la
popolazione
e
fecero
sperare
nel
mito
del
“papa
liberale”.
In
realtà
secondo
lo
storico
Roger
Aubert:
“il
suo
preteso
liberalismo
si
riduceva,
da
una
parte,
a
una
bontà
d’animo,
che
lo
portava
a
ritenere
preferibile
disarmare
lo
spirito
rivoluzionario
con
la
dolcezza
piuttosto
che
tentare
di
domarlo
con
la
forza,
soprattutto
quando
il
sovrano
riveste
il
carattere
sacerdotale;
e,
d’altra
parte,
a un
sincero
desiderio
di
affrontare
gli
abusi
dell’amministrazione
pontificia
e
d’introdurre
certe
riforme,
purché,
si
capisce,
esse
non
servissero
di
pretesto
per
dare
al
popolo
una
parte
effettiva
di
governo,
cosa
che
gli
pareva
inconciliabile
con
il
carattere
religioso
di
questo”.
Così,
anche
a
causa
dell’azione
dei
rivoluzionari,
dei
mancati
investimenti
nelle
infrastrutture,
nelle
ferrovie,
nei
telegrafi
e
anche
per
la
situazione
del
quadro
internazionale,
il
fervore
del
popolo
cominciò
a
raffreddarsi.
Anche
l’apertura
del
governo
ai
laici,
sotto
la
presidenza
del
cardinal
Antonelli,
non
produsse
visibili
effetti
e
cosi
il
14
marzo
1848,
dopo
la
caduta
di
Luigi
Filippo
in
Francia,
e
sull’esempio
di
altri
sovrani
italiani,
papa
Mastai
promulgò
la
nuova
legge
fondamentale
dello
Stato
reclamata
da
mesi
e
che,
per
quanto
possibile,
cercava
di
separare
il
vertice
politico-civile
da
quello
canonico
della
Santa
Sede.
Costituzioni
furono
concesse
anche
da
Carlo
Alberto
(con
il
ben
noto
“Statuto
Albertino”,
Legge
Fondamentale
del
futuro
Regno
d’Italia),
dal
granduca
di
Toscana
e
prima
ancora
da
Ferdinando
II
di
Napoli.
Ad
eccezione
del
Lombardo-Veneto
e
dei
ducati
di
Parma
e di
Modena,
nel
febbraio-marzo
del
’48
tutti
gli
stati
italiani
ricevettero
ordinamenti
costituzionali.
La
creazione
della
repubblica
in
Francia
ebbe
immediate
ripercussioni
nell’Europa
centrale
con
manifestazioni
popolari
nei
domini
asburgici:
Vienna,
Ungheria,
Boemia
e
nei
territori
croati
e
polacchi.
Saputo
ciò
che
accadeva
a
Vienna,
prima
Venezia
e
poi
Milano
insorsero
liberandosi
dal
giogo
straniero.
Carlo
Alberto
intenzionato
a
dominare
l’Alta
Italia,
fatto
che
lo
avrebbe
inevitabilmente
portato
alla
leadership
della
Penisola,
entra
in
guerra
contro
l’Austria
il
23
marzo:
è la
Prima
Guerra
d’Indipendenza.
Anche
il
papa
cedendo
alle
pressioni
popolari
inviò
un
contingente
comandato
dal
generale
Giacomo
Durando,
con
più
di
dodicimila
uomini.
Pio
IX
si
trovò
così
di
fronte
ad
un
cruciale
dilemma:
patriottismo
italiano
o
missione
universale
della
Chiesa?
Nella
famosa
allocuzione
Non
semel,
del
29
aprile
1848,
il
papa
scelse
per
la
missione
religiosa,
dichiarando
che
come
rappresentante
in
terra
di
un
Dio
di
pace
non
poteva
prendere
parte
a
guerre
contro
nessun
popolo.
Alla
base
di
questa
decisione
pesarono
sicuramente
anche
i
forti
allarmi
che
arrivavano
dell’Austria
dove
venivano
distribuiti
opuscoli
antiromani
e si
minacciava
uno
scisma.
Cadeva
cosi
anche
l’ipotesi
neoguelfa
di
soluzione
del
problema
italiano
nei
termini
del
confederativismo
giobertiano
e il
mito
di
un
Pio
IX
liberale
e
patriota
si
trasformò
presto
nel
papa
traditore
e
voltafaccia.
La
situazione
nello
Stato
pontificio
si
faceva
sempre
più
incandescente.
Dopo
molte
incertezze
il
papa
decise
di
affidare
il
governo
al
saggio
ed
energico
conte
Pellegrino
Rossi
che
fu
assassinato
dopo
pochi
giorni.
I
rivoluzionari
assediarono
il
palazzo
del
Quirinale
e
non
sentendosi
più
al
sicuro
il
papa,
travestito
da
povero
abatino,
con
l’aiuto
dell’ambasciatore
bavarese
Karl
von
Spauer
e di
una
perfetta
macchina
organizzativa,
decise
di
fuggire
recandosi
a
Gaeta
dove
vi
rimase
per
diciassette
mesi.
A
Roma,
il 9
febbraio
1849,
venne
proclamata
la
Repubblica
Romana
all’interno
della
quale
Giuseppe
Mazzini,
Aurelio
Saffi
e
Carlo
Armellini
vennero
eletti
“Triumviri
della
Repubblica”,
adottando
provvedimenti
in
linea
con
le
idee
mazziniane.
Repubbliche
si
costituirono
anche
in
altri
stati
della
Penisola
come
Firenze,
dove
il
granduca
lasciò
il
suo
stato
nel
febbraio
’49.
Tuttavia
le
repubbliche
e le
rivendicazioni
di
autonomie
nazionali
ebbero
vita
breve
e
ben
presto
il
principio
di
autorità
e
legittimazione
fece
il
suo
ritorno
in
Italia
e in
Europa.
Già
tra
il
’48
e il
‘49
iniziarono
in
Europa
le
azioni
dei
sovrani
per
ristabilire
l’ordine
preesistente
all’avvento
delle
repubbliche
e
delle
sommosse.
Gli
Asburgo
domarono
con
l’esercito
le
rivolte
delle
varie
nazionalità;
in
Francia
Luigi
Bonaparte
(il
futuro
Napoleone
III)
venne
eletto
alla
presidenza
della
Repubblica;
l’ordine
venne
ristabilito
anche
in
Germania.
Negli
Stati
italiani
la
situazione
non
fu
diversa:
a
Firenze
Leopoldo
II
respinse
l’invito
a
rientrare
pacificamente
e si
fece
precedere
da
un
corpo
di
spedizione
austriaco;
a
Napoli
Ferdinando
II
ristabilì
l’assolutismo
sciogliendo
definitivamente
il
parlamento.
Fece
eccezione
solo
il
Piemonte
dove,
sconfitto
a
Novara
dall’esercito
asburgico,
Carlo
Alberto
decise
di
abdicare
in
favore
di
Vittorio
Emanuele
II
che
conservò
lo
Statuto.
Da
Gaeta,
il
segretario
di
Stato
cardinal
Antonelli,
radunava
gli
ambasciatori
delle
grandi
potenze
per
decidere
il
da
farsi.
Già
il
24
aprile
1849
un
corpo
di
spedizione
francese
approdò
a
Civitavecchia
marciando
verso
Roma,
gli
austriaci
occuparono
il
Nord
dello
Stato
pontificio,
mentre
le
forze
napoletane
avanzavano
da
sud
e
gli
spagnoli
sbarcavano
a
Fiumicino.
Nel
luglio
’49
il
papa
poté
far
ritorno
nella
Città
Eterna
mentre
Mazzini
e
Garibaldi
fuggivano
nonostante
la
coraggiosa
resistenza.
La
restaurazione
poté
avvenire
non
con
mano
pesantissima.
La
folla
accolse
il
papa
con
tripudi,
luminarie,
inni
di
ringraziamento,
anche
se
non
si
sentirono
gli
“Evviva
Pio
IX”
dei
suoi
primi
mesi
di
pontificato.
L’esperienza
del
’48
e la
successiva
restaurazione
avevano
messo
in
evidenza
la
crisi
delle
progettazioni
politiche
degli
anni
Quaranta.
Non
si
ebbe
solo
il
fallimento
delle
idee
democratico-rivoluzionarie
che
non
erano
riuscite
a
coinvolgere
le
classi
più
basse
e
che
da
questo
momento,
con
Mazzini
che
da
Londra
forma
una
nuova
formazione
politica
chiamata
“Associazione
Nazionale”,
tenteranno
di
organizzare
insurrezioni
che
tuttavia
falliranno
miseramente,
ma
veniva
vanificato
anche
il
mito
neoguelfo
di
Gioberti.
Gli
stessi
moderati
si
resero
conto
che
la
strada
del
progresso
economico
come
collante
dell’unità
non
rispondeva
più
alle
mutate
condizioni
di
una
Penisola
dominata
da
monarchie
conservatrici
e
reazionarie.
Si
resero
conto
che
senza
istituzioni
liberali
non
era
possibile
lo
sviluppo
civile.
Dunque
la
realizzazione
del
Risorgimento
d’Italia
con
i
suoi
ideali
di
Patriae
unitati
e
Civium
libertati
passava
necessariamente
per
il
Piemonte
liberale,
unico
stato
ad
aver
conservato
la
costituzione.
Grazie
al
suo
energico
primo
ministro,
il
conte
di
Cavour
Camillo
Benso,
lo
stato
sabaudo
si
era
messo
alla
testa
del
movimento
per
l’unità
nazionale
puntando
sulla
cacciata
degli
austriaci
dalla
Penisola.
Assunto
il
ruolo
di
paladino
dell’indipendenza
e
della
nazionalità
italiana
Cavour,
grazie
alla
sua
abile
attività
diplomatica,
partecipò
con
un
contingente
piemontese
alla
sanguinosa
guerra
di
Crimea
che
Francia
e
Inghilterra
stavano
combattendo
contro
la
Russia,
in
modo
così
da
entrare
a
pieno
diritto
nello
scenario
internazionale
e
affrontare
il
“caso
italiano”.
Al
tavolo
della
pace
di
Parigi,
l’8
aprile
1856,
venne
finalmente
sollevata
la
questione
italiana
e
Cavour
la
descrisse
come
una
situazione
di
subbuglio
a
causa
delle
reazionarie
corti
che
la
governano
(in
primis
quella
del
papa),
e
delle
attività
sovversive
dei
rivoluzionari
italiani.
Il
21
luglio
1858
Cavour
e
Napoleone
III
si
incontrano
nella
località
termale
di
Plombières
per
discutere
un
piano
segreto
sulla
possibilità
di
una
guerra
contro
l’Austria.
In
questa
circostanza
l’Imperatore
francese
si
impegnò
a
costituire
un
regno
del
Nord
che
comprendesse
Piemonte,
Liguria,
Sardegna,
Lombardia,
Veneto
e
Legazioni,
in
cambio
di
Nizza
e
della
Savoia.
Per
trovare
legittimazione
alla
guerra
era
necessario
che
fosse
l’Austria
ad
attaccare
e
Cavour,
da
abile
stratega
quale
era,
fece
muovere
gli
eserciti
al
confine,
arruolare
volontari
e
pronunciare
a
Vittorio
Emanuele
II,
il
10
gennaio
1859,
il
famoso
discorso
del
“grido
di
dolore”.
Il
19
aprile
l’Impero
Asburgico
consegna
un
ultimatum
al
Piemonte
che
ovviamente
rifiuta:
è la
Seconda
Guerra
d’Indipendenza.
Dal
carteggio
privato
di
Pio
IX
si
intuisce
come
egli
fosse
a
conoscenza
di
tutto
ciò
che
stava
per
accadere,
smentendo
la
tesi
secondo
cui
era
poco
avvezzo
alla
politica.
Il
papa
deplorò,
il
giorno
dopo
il
suo
inizio,
la
guerra
che
per
di
più
avveniva
fra
stati
cattolici.
Dopo
il
cambiamento
del
quadro
internazionale,
temendo
un’entrata
in
guerra
anche
della
Prussia,
Napoleone
firmò
l’armistizio
di
Villafranca
con
l’Austria.
Non
essendone
a
conoscenza
e
dopo
una
vivace
discussione
con
Vittorio
Emanuele
II,
Cavour
decise
di
rassegnare
le
dimissioni.
Nel
gennaio
1860,
però,
ritornò
al
governo
e
cedette
Nizza
e la
Savoia
all’Imperatore
di
Francia
in
cambio
dell’ottenimento
dell’annessione
dell’Italia
centrale.
Frattanto
il
papa,
resosi
conto
della
volontà
di
annessione
piemontese,
aveva
ingaggiato
ventimila
soldati
provenienti
da
Olanda,
Francia,
Polonia,
Irlanda,
Svizzera,
Belgio
e
anche
seimila
italiani
a
difesa
dello
Stato
pontificio.
Nel
maggio
1860
Garibaldi
iniziò
con
i
suoi
uomini
la
conquista
dell’Italia
meridionale;
Cavour
inviò
un
abilissimo
ultimatum
al
segretario
di
Stato
della
Santa
Sede,
cardinal
Antonelli
che,
come
facilmente
immaginabile,
rifiutò
per
“garantire
alla
Chiesa
quella
libertà
che
la
sottrae
alla
soggezione
di
qualsivoglia
potere
civile”(Pio
IX).
Nel
settembre
l’esercito
pontificio
venne
sconfitto
a
Castelfidardo.
Terminava
così
il
dominio
papale
in
Romagna,
nelle
Marche
e in
Umbria
che
furono
annesse
al
Piemonte
mediante
plebisciti,
riducendo
così
lo
Stato
della
Chiesa
al
solo
Lazio.
Da
questo
momento
la
resistenza
del
papa
sarà
sostanzialmente
solo
passiva.
Dopo
la
conquista
del
Regno
delle
Due
Sicilie
(febbraio
’61),
il
17
marzo
Vittorio
Emanuele
II
venne
proclamato
re
d’Italia.
I
governanti
del
nuovo
regno
volevano
però
che
fosse
Roma
la
capitale
d’Italia.
Tentarono
così
di
trattare
con
papa
Mastai
che,
insieme
al
cardinal
Antonelli,
non
intendeva
rinunziare
al
potere
temporale
non
fidandosi
delle
proposte
del
regno
d’Italia,
all’interno
del
quale
si
sosteneva
che
la
libertà
della
Chiesa
potesse
essere
assicurata
solo
da
un’effettiva
separazione
fra
Stato
e
Chiesa.
Pio
IX
tornò
a
condannare
il
liberalismo
e le
leggi
in
vigore
nel
nuovo
regno
che
certo
non
aiutavano
la
conciliazione.
In
effetti,
già
nel
1850,
prima
ancora
che
il
Piemonte
iniziasse
l’opera
di
annessione
dell’Italia,
il
ministro
della
Giustizia
del
governo
sabaudo,
Giuseppe
Siccardi,
redasse
una
legge,
che
sarà
poi
controfirmata
dal
re,
che
prevedeva
l’introduzione
del
matrimonio
civile,
l’abolizione
del
foro
ecclesiastico,
la
cancellazione
del
diritto
di
asilo
per
le
chiese
e i
conventi,
l’annullamento
di
molte
feste
religiose
e la
censura
sui
libri.
Nel
1854
fu
il
conte
di
Cavour
a
presentare
la
legge
per
la
soppressione
degli
ordini
religiosi
che
conteneva
anche
l’espropriazione
dei
beni
della
Chiesa.
Il
papa
denunciò
questa
legge
e lo
stesso
venne
fatto
a
Torino
da
don
Giovanni
Bosco
che
fece
arrivare
al
re
antichi
documenti
di
Casa
Savoia
dove
venivano
sconfessati
e
maledetti
tutti
i
loro
discendenti
che
avessero
agito
contro
la
Chiesa.
La
legge
continuò
il
suo
iter
e
venne
approvata
il 2
marzo
1855
portando
alla
soppressione
di
numerosissimi
ordini
religiosi
e
permettendo
allo
Stato
di
incamerare
una
rendita
di
oltre
due
milioni
dell’epoca.
Durante
quelle
settimane
Pio
IX
scrisse
lettere
di
profonda
vicinanza
al
re
gravemente
provato
da
un’inquietante
ondata
di
lutti
che
colpirono
la
famiglia
reale
in
quei
mesi,
ma
non
si
astenne
dall’ammonirlo
per
quella
legge
e
più
tardi
a
scomunicarlo
insieme
a
tutti
coloro
che
l’avevano
proposta,
approvata
e
sanzionata.
Naturalmente
queste
leggi
vennero
estese
a
tutti
i
territori
che
di
volta
in
volta
venivano
annessi
al
regno
dei
Savoia
entrando
a
far
parte
dell’ordinamento
giuridico
del
neonato
regno
d’Italia.
In
effetti,
oltre
a
sequestrare
i
beni
ecclesiastici,
il
nuovo
Regno
processò
e
confinò
sessantasei
vescovi
tra
i
quali
anche
i
cardinali
di
Napoli
e
Fermo.
Nel
1861
l’artefice
dell’Italia
unita,
liberale
e
moderna,
il
conte
di
Cavour,
muore.
I
suoi
successori
non
ebbero
la
sua
stessa
abilità
diplomatica
e
puntavano
ad
una
riforma
della
Chiesa
largamente
imposta
dallo
Stato,
che
la
Curia
romana,
come
facilmente
intuibile,
non
poteva
prendere
nemmeno
in
considerazione.
Anche
la
maggioranza
dell’episcopato,
infatti,
riteneva
il
potere
temporale,
un’istituzione
provvidenziale
indispensabile
al
bene
della
Chiesa,
senza
tuttavia
farne
una
verità
di
fede.
È in
questo
contesto
storico
che
si
ha
la
pubblicazione
maggiormente
discussa
e
criticata
del
pontificato
di
Pio
IX.
Si
tratta
dell’enciclica
Quanta
cura
promulgata
l’8
dicembre
1864,
con
il
cosiddetto
Sillabus
errorum,
contenente
ottanta
dichiarazioni
dei
“principali
errori
dell’epoca
nostra”,
riassuntiva
di
tesi
già
enunciate
in
encicliche,
lettere
e
allocuzioni
pastorali.
Il
documento
era
di
un’estrema
sintesi,
che
verteva
su
materie
vastissime,
dalla
storicità
dei
Vangeli
alla
libertà
di
coscienza,
dal
potere
temporale
alla
condanna
dell’affermazione
che
il
papa
può
e
deve
riconciliarsi
con
il
progresso,
il
liberalismo
e la
cultura
moderna
(illuminismo,
razionalismo,
socialismo,
comunismo,
positivismo,
ecc).
Pio
IX
forse,
credendo
di
individuare
nel
liberalismo
l’errore
del
secolo,
non
fu
più
in
grado
di
stabilire
la
radicale
differenza
che
passa
tra
il
liberalismo
cattolico
e il
liberalismo
tout
court.
Non
stupisce
quindi
come
all’epoca
la
pubblicazione
del
Sillabo
abbia
suscitato
molte
critiche
tanto
da
mettere
in
ombra
la
questione
romana
e
suscitare
nuove
discussioni
sui
rapporti
fra
Chiesa
e
mondo
moderno.
Molti
storici
dell’epoca,
vicini
alle
posizioni
del
pontefice,
come
Francesco
Panella,
Pietro
Balan,
il
gesuita
P.
Schrader
e
molti
altri,
tessero
l’elogio
del
Pastore
che
“sradica
le
erbe
cattive
e
allontana
il
gregge
dai
pascoli
avvelenati”,
collocando
Pio
IX
sulla
scia
dei
grandi
pontefici
campioni
dell’indipendenza
del
papato:
Gregorio
VII,
Innocenzo
III,
Pio
VII.
Al
contrario
i
liberali
si
scagliarono
contro
Pio
IX:
alcuni
lo
indicarono
come
un’ottima
persona,
tuttavia
limitata,
che
non
comprendeva
assolutamente
niente
dello
spirito
del
suo
tempo;
altre
posizioni
furono
più
violente.
La
critica
più
dura
è
probabilmente
quella
che
gli
rivolse
Mazzini,
sostenendo
che
“la
sua
fede
è
l’ira
abietta
dell’uomo
che
vorrebbe
vendicarsi
col
rogo
degli
assalitori
e
non
può”.
In
molti
paesi,
come
la
Francia
di
Napoleone
III,
venne
proibita
la
pubblicazione
dell’enciclica
e
simili
provvedimenti
vennero
presi
anche
dall’Italia.
Che
questo
documento
presentasse
dei
difetti
di
forma
è lo
stesso
Pio
IX a
riconoscerlo
disponendo
il
bisogno
di
ulteriori
interventi
esplicativi.
L’avvenimento
più
importante
nel
pontificato
di
Pio
IX
è,
però,
il
Concilio
Vaticano
I,
la
cui
convocazione
ebbe
luogo
il
29
giugno
1868.
Il
grande
giorno
dell’inaugurazione
dei
lavori
conciliari
fu
l’8
dicembre
1869.
I
vescovi
presenti
furono
settecentosettantaquattro
provenienti
da
molte
parti
del
mondo.
Nella
terza
seduta
pubblica
del
24
aprile
1870
venne
proclamata
la
costituzione
dogmatica
sulla
fede
cattolica.
Ma
il
Concilio
fu
caratterizzato
dalla
discussione
sul
dogma
dell’infallibilità
del
successore
di
Pietro.
Il 9
maggio
iniziarono
le
consultazioni
su
questo
argomento.
Ci
furono
centoquaranta
interventi
molto
energici
pro
e
contro
il
dogma.
Prevalsero
alla
fine
le
tesi
a
favore
del
dogma,
che
volevano
rafforzare
religiosamente
il
papa
proprio
mentre
la
sua
autorità
temporale
si
stava
dissolvendo.
La
decisione
fu
presa
a
larghissima
maggioranza
il
18
luglio
1870
dopo
che
i
vescovi
si
pronunciarono
con
451
Placet,
88
No
Placet
e 62
Placet
iuxta
modum
(cioè
con
modifiche).
La
definizione
approvata
dice
che
quando
il
papa
annuncia
una
dottrina
ex
cathedra,
cioè
“quando
in
qualità
di
pastore
e
dottore
di
tutti
i
cristiani,
in
virtù
della
sua
apostolica
autorità,
definisce
che
una
dottrina
riguardante
la
fede
e i
costumi
deve
ritenersi
vera
dalla
Chiesa”,
la
dottrina
diviene
“irreformabile
per
se
stessa
e
non
in
virtù
del
consenso
della
Chiesa”.
Anche
dopo
la
definizione
dell’infallibilità
del
Sommo
Pontefice
e
del
suo
primato
di
giurisdizione
su
tutta
la
Chiesa,
non
mancarono
critiche
e
plausi
alla
sua
decisione.
Molti
credevano
che
la
centralizzazione
rispondesse
ad
una
necessità
oggettiva,
e
che
nelle
nuove
circostanze
costituisse
il
mezzo
migliore
per
rafforzare
la
compagine
ecclesiale;
dall’altra
parte
non
mancarono
forti
attacchi
soprattutto
dalla
stampa
francese
contro
l’autorità
papale
e il
sistema
di
governo
della
Chiesa.
Ci
furono
attacchi
anche
d’incompetenza
teologica,
ambizione,
autoritarismo
e di
remissività
nei
confronti
dei
gesuiti,
che
però
furono
respinte
dalla
maggioranza
dei
fedeli
e
dell’episcopato.
Il
papa
ne
usciva
comunque
rafforzato
proprio
alla
vigilia
del
crollo
definitivo
del
potere
temporale.
Il
Concilio
venne
sospeso
sine
die
per
volontà
del
papa
il
giorno
dopo
lo
scoppio
della
guerra
franco-prussiana,
quando
erano
stati
approvati
appena
due
documenti.
Restava
ancora
molto
da
fare,
ma
di
li a
poco
la
storia
avrebbe
portato
notevoli
cambiamenti
e il
Concilio
lo
avrebbe
continuato
qualche
suo
successore.
Giovanni
XXIII,
che
provava
una
profonda
venerazione
per
Pio
IX,
considererà
il
Concilio
da
lui
indetto
come
una
prosecuzione
del
primo.
Nel
settembre
del
1864
i
governanti
italiani
conclusero
con
Napoleone
III
un
accordo,
la
cosiddetta
“Convenzione
di
settembre”,
che
prevedeva
il
rispetto
dei
confini
dello
Stato
pontificio
da
parte
dell’Italia
in
cambio
del
ritiro
delle
truppe
francesi
dal
Lazio.
I
francesi
rispettando
gli
accordi,
avevano
lasciato
Roma
alla
fine
del
1866,
assicurando
comunque
al
papa
il
sostegno
in
caso
di
necessità.
Il
contenzioso
tra
Corona
italiana
e
Triregno
verteva
soprattutto
sulla
situazione
della
Chiesa
in
Italia.
Molte
decine
di
vescovi
erano
stati
arrestati,
esiliati,
confinati
e
decine
di
diocesi
erano
senza
più
i
propri
pastori,
ai
quali
fu
proibito
di
prendere
il
possesso
delle
loro
cattedre.
Un
epistolario
tra
Vittorio
Emanuele
II
(che
nelle
sue
lettere
si
dichiarava
sempre
“devotissimo
ed
obbedientissimo”)
e
Pio
IX,
cercò
di
risolvere
la
situazione.
Cominciarono
una
serie
di
incontri
fra
i
rappresentanti
di
ambo
le
parti,
ma
le
richieste
dello
Stato
italiano
erano
considerate
troppo
alte
dalla
Santa
Sede
per
essere
accettate.
Alla
fine
si
raggiunse
un
accordo
che
prevedeva
la
possibilità
di
un
ritorno
graduale
solo
di
alcuni
vescovi
nelle
rispettive
sedi.
Il
1866
fu
un
anno
molto
importante
che
vide
la
guerra
fra
la
Prussia
del
cancelliere
Otto
von
Bismarck
e
l’Austria
di
Francesco
Giuseppe,
la
quale
per
evitare
un
attacco
dal
sud,
era
intenzionata
a
cedere
all’Italia,
mediante
la
mediazione
di
Napoleone
III,
il
Veneto.
L’Italia
non
accetterà
e
dichiarerà
guerra
all’Austria:
è la
Terza
Guerra
d’Indipendenza.
Nonostante
le
forti
sconfitte
per
terra
a
Custoza
e
per
mare
a
Lissa
l’Italia,
grazie
alla
mediazione
francese,
riuscirà
comunque
ad
ottenere
il
Veneto.
Anche
il
papa
sapeva
bene
che
all’“Italia
fatta”
mancava
ancora
un’importante
lembo
di
terra:
Roma.
La
“Convenzione
di
settembre”
non
prevedeva
missioni
di
aiuto
al
papa
in
caso
di
sommosse
interne
allo
Stato
pontificio.
Conoscendo
questo
aspetto,
il
primo
ministro
italiano
Urbano
Rattazzi,
che
verosimilmente
sperava
nel
ripetersi
di
quanto
accaduto
alcuni
anni
prima
nel
regno
di
Napoli,
lasciò
agire
i
rivoluzionari
di
Garibaldi
in
modo
da
intervenire
poi
con
l’esercito
regio
per
ristabilire
l’ordine.
Garibaldi
e i
suoi
volevano
provocare
la
sollevazione
di
Roma.
Vennero
messi
degli
esplosivi
che
fecero
saltare
in
aria
parte
della
caserma
Serristori,
abitata
dagli
zuavi
pontifici,
provocando
la
morte
di
venticinque
persone.
I
cospiratori
vennero
acciuffati
e
condannati
a
morte.
Garibaldi
con
i
suoi
uomini
si
avvicinò
alle
porte
di
Roma.
Pio
IX
pronunciò
parole
di
fuoco
contro
queste
sommosse
che
vedevano
l’appoggio
esterno
dell’esercito
italiano.
Napoleone
III
decise
di
intervenire
con
un
corpo
di
spedizione
che
sbarcò
a
Civitavecchia.
Insieme
a
duemila
uomini
dell’esercito
pontificio
l’esercito
francese,
il 3
novembre
1867,
inflisse
una
dura
sconfitta
nei
pressi
di
Mentana
agli
uomini
di
Garibaldi.
La
conquista
di
Roma
da
parte
del
Regno
d’Italia
era
solo
rimandata.
Come
già
detto,
il
papa
sospese
nell’estate
del
1870
il
Vaticano
I a
causa
dello
scoppio
della
guerra
franco-prussiana.
Napoleone
III
visto
l’evolversi
della
guerra
ritirò
le
sue
truppe
da
Roma,
senza
prima
però
aver
ottenuto
dal
ministro
degli
Esteri
italiano
l’assicurazione
del
rispetto
della
“Convenzione
di
settembre”.
Il 2
settembre
dello
stesso
anno
Napoleone
è
sconfitto
a
Sedan
dove,
due
giorni
dopo,
verrà
preso
prigioniero
portando
così
alla
costituzione
della
Repubblica
in
Francia.
Guglielmo
I e
il
suo
abilissimo
cancelliere
Bismarck
poterono
dichiarare
la
nascita
del
secondo
Reich.
Per
l’Italia
essendo
caduto
Napoleone,
non
sussistevano
più
i
vincoli
dell’accordo
del
’64.
L’Italia
mandò
degli
ambasciatori
per
trattare
con
il
governo
papalino.
Il
papa
sapeva
che
con
il
suo
piccolo
esercito
(circa
tredicimila
uomini)
non
poteva
certo
opporsi
all’avanzata
dell’esercito
sabaudo.
Pio
IX
si
rese
conto
che
la
situazione
era
diversa
da
quella
di
vent’anni
prima:
ora
Roma
non
sarebbe
stata
occupata
da
anarchici
e
rivoluzionari
come
nel
’49,
ma
da
un
esercito
di
un
sovrano
costituzionale
che
ne
avrebbe
fatta
la
capitale
d’Italia.
Pio
IX
scelse
di
rimanere,
ordinando
di
opporre
una
resistenza
soltanto
simbolica
all’esercito
italiano,
per
non
creare
inutili
vittime.
Il
20
settembre
1870
le
truppe
italiane,
comandate
dal
generale
Raffaele
Cadorna,
entrarono
a
Roma
grazie
alla
famosa
breccia
di
Porta
Pia
e,
mediante
plebiscito
(che
per
la
verità
vide
una
fortissima
astensione),
qualche
giorno
dopo
ne
venne
sancita
l’annessione
all’Italia.
Iniziava
così
la
“reclusione”
del
papa
in
Vaticano.
Pio
IX
non
fece
mai
mancare
la
protesta
nei
confronti
degli
“usurpatori”
per
la
spoliazione
dello
Stato
pontificio
e il
primo
novembre
con
l’enciclica
Respicientes
inflisse
la
scomunica
a
tutti
i
responsabili
della
presa
di
Roma.
Il
13
maggio
1871
a
Firenze,
per
il
momento
ancora
capitale
del
Regno,
venne
approvata
la
ben
nota
legge
delle
guarentigie,
dove
lo
Stato
italiano
garantiva
al
Papa
l’indipendenza
e
gli
concedeva
alcune
prerogative
tipiche
dei
reali.
Tra
le
altre
cose,
veniva
garantita
anche
una
rendita
annua
per
il
Pontefice,
necessaria
al
mantenimento
suo
e di
tutta
la
sua
corte,
la
possibilità
di
avere
una
propria
guardia
personale
e di
intrattenere
rapporti
diplomatici.
Come
poteva
essere
facile
immaginare
il
Sommo
Pontefice
rifiutò,
con
l’enciclica
Ubi
nos
del
maggio
’71.
Le
garanzie
italiane
di
fatto
facevano
dipendere
la
sua
posizione
da
una
legge
dello
Stato
che
sarebbe
potuta
essere
revocata
o
modificata
in
qualsiasi
momento.
Il
papa
auspicava
un
ristabilimento
del
potere
temporale
che
potesse
garantire
l’esercizio
indipendente
della
sua
missione.
La
Chiesa,
non
essendo
più
impegnata
nella
gestione
del
potere
temporale,
e
avendo
chiesto
a i
cattolici
con
il
non
expedit
l’astensione
dalla
partecipazione
alla
vita
politica
italiana,
si
dedica
molto
al
sociale,
con
la
creazione
di
numerose
opere
che
lavorano
soprattutto
nell’ambito
parrocchiale.
La
preoccupazione
del
Sommo
Pontefice
non
era
tanto
la
perdita
del
potere
temporale
quanto
le
conseguenze
sul
piano
religioso
della
nuova
situazione
creatasi
con
l’occupazione
di
Roma.
“Tutto
ciò
che
domando”,
diceva,
“è
un
angolo
di
terra
dove
essere
padrone”.
Da
qui
nascerà
quella
che
sarà
poi
la
soluzione
adottata
nel
1929
con
i
Patti
Lateranensi.
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