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N. 144 - Dicembre 2019 (CLXXV)

l'epistola di pio ii a maometto ii

quella volta in cui il pontefice scrisse al sultano

di Francesco Biscardi

 

«Ci accingiamo a scriverti alcune cose per la tua salvezza e gloria e anche per la comune pace e consolazione di molti popoli; e ti preghiamo anzitutto di porgere ascolto a quel che diciamo con animo ben disposto e di non condannarlo prima di averlo giudicato, né giudicarlo prima di averlo attentamente inteso punto per punto».

 

Così si apre l’Epistola di papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, al sultano/califfo Maometto II “il Conquistatore”, scritta nell’ottobre 1461, poco dopo la conquista ottomana di Sinope e Trebisonda in Anatolia, ultimi avamposti di quel che restava del “vecchio” regno dei Comneni bizantini.

 

Questo avvenimento rappresenta un unicum nella storia delle complesse relazioni che hanno caratterizzato i due mondi, cristiano e islamico: del resto, un papa che invita il signore turco a convertirsi e ad assumere la corona imperiale è un’iniziativa che potrebbe apparire surreale anche in tempi ben più vicini a noi, figuriamoci nella seconda metà del XV secolo, periodo dominato dal timor Turcorum e da quell’ardore crociato cui lo stesso Pio II non era rimasto e non rimarrà estraneo.

 

Per cercare di capire quali furono le ragioni e quali i possibili scopi del pontefice è bene fare un piccolo passo indietro.

 

Enea Silvio era salito al soglio di San Pietro nell’Anno Domini 1458, cinque anni dopo la conquista maomettana di Costantinopoli (maggio 1453). Questi, prima di essere eletto papa, era un colto umanista, di una cultura profondamente laica, un poeta e un intellettuale amante delle lettere e delle arti ben più dei precetti evangelici. Tuttavia, negli anni Cinquanta del Quattrocento iniziò a cambiare politica e, divenuto pontefice, prenderà molto sul serio il suo ruolo.

 

Infatti, dopo esser asceso al soglio papale, proclamò che il negotium crucis, la crociata, sarebbe stato il principale scopo del suo pontificato. Emise così una bolla con cui invitava tutti i principi cristiani alla lotta contro l’“infedele” islamico. La Dieta che doveva occuparsi del pericolo turco venne convocata nella città di Mantova, dove lo stesso Enea Silvio giunse con la sua corte nel mese di maggio 1459.

 

Tuttavia, le magnificenti aspettative di Pio II erano destinate a restare deluse, vista la scarsa affluenza e la generale indifferenza dei signori cristiani: l’Inghilterra era dilaniata dalla Guerra delle Due Rose (1455-1485), la Francia, per quanto uscita vittoriosa dalla Guerra dei Cent’anni (1337-1453), era in rapporti tesi con la Santa Sede per le pretese sul Regno di Napoli e per la Prammatica Sanzione del 1438, i Regni iberici erano travagliati da problemi interni, mentre gli Stati italiani, intimoriti dalla conquista turca di Costantinopoli e affrettatisi pacificare le armi a Lodi (1454), restarono, nel complesso, in disparte guardinghi, essendosi limitati a inviare delegati di basso profilo, esattamente come l’imperatore Federico III, nella cui presenza il papa confidava ciecamente.

 

Fu probabilmente a causa della delusione e del rancore per la condotta dei principi cristiani che Pio II redigette quel documento sconcertante di cui ora parleremo: l’Epistola ad Mahometem.

 

Diciamo preventivamente che nel XV secolo in Europa si possono scorgere retrospettivamente tre diversi atteggiamenti, più o meno diffusi e manifesti, verso l’Islam: una prima posizione, magisteriale, propria della Chiesa, che rimaneva fedele all’ideologia crociata, una seconda, irenista, che riteneva possibile la conversione pacifica dell’infedele, e una terza, pragmatica, che era disposta ad accettare l’Islam come una “legge” positiva, simile al cristianesimo, e propensa a comprenderla, in ottica statuale, come instrumentum regni.

 

L’Epistola è una meravigliosa opera in grado di racchiudere questi diversi atteggiamenti: mostra, in primis, un pontefice fiducioso nella possibile conversione del suo interlocutore, ma è anche un tentativo di confutazione magisteriale dell’islamismo, ed è, inoltre, una sorta di summa delle posizioni ireniche espresse nel seno della Cristianità in quegli stessi anni da teologi come Nicola Cusano e Giovanni da Segovia (è in particolar modo evidente l’ispirazione di Pio II alla Cribratio Alchorani, “Vagliatura del Corano”, di Cusano).

 

In particolare la tentata persuasione alla conversione si trova nella prima parte dell’Epistola dove Enea Silvio, dopo aver dichiarato i suoi intenti nelle prime righe (riportate all’inizio), invita Maometto II a riflettere sull’inutilità della continuazione dello stato di conflittualità, deleterio per ambo le confessioni:

 

«Si è sparso molto sangue. Si sono distrutte molte città, bruciate molte chiese, portate via molte vergini, stuprate molte spose, devastati molti campi. Sono stati commessi tutti i delitti immaginabili, mentre i Turchi e i Cristiani si contendevano l’impero con la spada».

 

Inoltre, ribadisce il papa, lo stato di perenne bellicosità non era destinato ad approdare ad alcun risultato concreto, soprattutto per i turchi, il cui ipotetico sogno di conquistare Roma (la “Mela Rossa” come gli ottomani amavano chiamarla nelle loro storie) era destinato a restare un’utopica chimera, perché un suo tentativo di aggressione avrebbe causato la fine di ogni discordia fra i principi cristiani che, invocati dal proprio pontefice in soccorso della loro Chiesa, avrebbero trovato la tanto agognata unione.

 

Allo scopo, il papa rammenta le imprese dei grandi condottieri e imperatori antichi, da Cesare a Giustiniano, delle storiche conversioni, come quelle di Clodoveo e di Agilulfo, e del pronto e provvidenziale soccorso al papato di Carlomagno. Tuttavia, per il prelato non c’è ragione di sfidare l’intera Cristianità. Roma è pronta a tendere la mano al sultano, purché, quale novello Costantino, si converta:

 

«Una cosa da niente può trasformarti nel più grande, più potente, più illustre di tutti gli uomini che ora sono in vita. Mi chiedi cosa? […] Un pochino d’acqua per battezzarti e adottare i riti cristiani e credere al Vangelo. Se lo farai non ci sarà principe in terra che possa superarti in gloria e eguagliarti in potenza.[…] Tutti i cristiani ti saranno devoti.[…] La Santa Sede avrà nei tuoi confronti lo stesso affetto che nutre per gli altri re, anzi, tanto maggiore quanto la tua autorità sarà maggiore alla loro».

 

Sposando la fede cristiana avrebbe inaugurato una nuova pax augustea, una pace universale impossibile, ammonisce il pontefice, da realizzarsi sotto bandiera islamica giacché troppe terre e troppi popoli avrebbero ancora dovuto essere soggiogati dal sultano. Invece, abbracciando il Credo cristiano, si sarebbe assicurato la lealtà dell’intera Societas Christiana e lui, unico grande signore, non avrebbe trovato grandi difficoltà a sanare le ambizioni, le dispute e le rivalità dilanianti la Cristianità.

 

Dopo queste eloquenti esortazioni, il pontefice riassume e spiega le vicende e le verità delle Sacre Scritture, cita i Padri della Chiesa, e condanna gli “errori” del profeta Maometto. Disquisendo sull’islamismo e dipingendolo come una religione inferiore al cristianesimo, il papa invita ripetutamente il sultano a credere nell’unico “vero” Dio, onnipotente e misericordioso.

 

Infine, verso la conclusione dell’Epistola, Pio II rivolge un ultimo accorato appello:

 

«Nobile principe che non sei senza ragione né di ingegno ottuso, sintetizza quello che abbiamo detto e conservalo nella tua mente, provvedi a te e al tuo popolo, e non voler essere incredulo, bensì fedele. Lascia le tenebre e segui la luce».

 

Sulla natura e sulle motivazioni di questo scritto si è discusso a lungo: espressione privata di una disperata indignazione, oppure libello destinato a una ristretta circolazione e atto a far riflettere i signori della Cristianità, dilaniati dalle rivalità interne e indegni difensori del loro Credo, o, ancora, messaggio fatto circolare solo in Curia e tra le corti e ufficiosamente destinato allo steso sultano.

 

Non sappiamo (nonostante le ripetute risposte, quasi certamente apocrife, che furono indirizzate alla Santa Sede) se l’Epistola sia mai giunta alla corte del sultano e se questi l’abbia letta. Non è da escludersi che gli sia stata recapitata, viste anche le numerose edizioni a stampa che se ne fecero dal 1469 (Pio II frattanto era comunque morto); in tal caso, se è difficile immaginare quanto Maometto II possa essere rimasto colpito dalle parole del pontefice, possiamo però farci un’idea di quanto possa aver sorriso dinnanzi al cumulo di imprecisioni, di calunnie e di errori a proposito della religione, della società e della storia islamica presenti nello scritto.

 

Forse l’Epistola era proprio una sorta di vulgata pensata dal pontefice più per far leva sul “buon senso” dei principi cristiani che auspicante davvero la conversione del sultano e attestante la disponibilità papale a consacrarlo imperatore (utopiche sono, del resto, le vantate fedeltà a Roma di tutti i principi cristiani).

 

Sulle ragioni e sui seguiti della lettera non si può asserire nulla di certo ma solo avanzare congetture, mentre quel che è storia è che le guerre fra cristiani e islamici continuarono. Lo stesso Pio II riuscì, nel settembre 1463, a radunare a Roma un congresso delle potenze italiane dove potette annunciare la sua decisione, inaspettata quasi quanto la stesura dell’Epistola, di mettersi egli stesso alla testa della crociata. Una impresa che, accolta in Occidente con la consueta freddezza, venne bandita per l’anno successivo, ma destinata a non avere un buon esito.

 

Enea Silvio non riuscì a prendervi parte: la morte lo colse il 15 agosto 1464 ad Ancona mentre era in trepidante attesa, seppur gravemente malato, dell’arrivo delle navi alleate. Si spegneva così una delle più controverse figure dell’Umanesimo italiano e, con lui, anche quel flebile tentativo, sia stato reale o no, di convincere il sultano ad abbracciare la fede in Cristo e a innalzarsi a nuovo Costantino d’Occidente e d’Oriente.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Barbero A., Il divano di Istanbul, Sellerio Editore, Palermo 2015.

Cardini F., Musarra A., Il grande racconto delle crociate, Il Mulino, Bologna 2019.

D’Ascia L., Il Corano e la tiara. L’epistola a Maometto II di Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II). Introduzione ed edizione, Pendragon, Bologna 2001.

Platania G., Mamma li Turchi! La politica pontificia e l’idea di crociata in età moderna, Sette Città, Viterbo 2009.

Zattoni P., Le ultime crociate. L’Europa di fronte al pericolo turco (1369-1464), Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 2009.



 

 

 

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