N. 147 - Marzo 2020
(CLXXVIII)
Pino
Pascali
L’idea
del
gioco
e il
ricordo
dell’infanzia
di
Ludovica
Cozza
Caposavi
L’idea
del
gioco
ha
sempre
caratterizzato
la
ricerca
artistica
di
Pino
Pascali,
seppur
in
ogni
serie
di
opere
sia
stata
espressa
in
maniera
differente:
in
alcuni
casi
più
evidente,
in
altri
quasi
del
tutto
nascosta.
Secondo
Pascali
il
gioco
non
è
solamente
un
semplice
appannaggio
dei
bambini,
ma è
proprio
di
coloro
che
nella
vita
intraprendono
il
lavoro
che
vogliono,
che
gli
piace
e al
quale
si
dedicano
completamente,
come,
nel
suo
caso,
il
mestiere
dello
scultore.
L’artista
non
intende
il
gioco
come
“puro
divertimento”,
ma
come
un’attività
normale
facente
parte
della
vita
dell’uomo
che,
partendo
dall’infanzia,
rappresenta
la
modalità
principale
attraverso
la
quale
il
bambino
conosce
il
mondo
e
riesce
a
scoprire,
sperimentare
e
affrontare
le
cose
che
lo
circondano.
Nonostante
abbia
riscontrato
una
componente
ludica
in
quasi
tutti
i
cicli
scultorei
dell’artista,
ho
scelto
di
analizzare
quelli
che
più
mi
hanno
colpito.
Mi
focalizzerò
anche
sulle
fotografie
che
ritraggono
Pascali
in
atteggiamenti
ludici
o
ironici
insieme
ai
suoi
lavori,
poiché
a
mio
avviso
dimostrano
essere
“manifestazioni”
emblematiche
nel
trattare
questo
argomento.
La
produzione
artistica
di
Pascali
è
costituita
da
vari
cicli
di
opere,
ognuno
dei
quali
formato
da
un
insieme
di
lavori
legati
tra
loro
da
una
comune
ideologia.
Le
opere
che
costituiscono
ciascun
ciclo
vengono
realizzate
contemporaneamente
o a
breve
distanza
le
une
dalle
altre,
e
poi
esposte.
Annoiato
da
una
serie,
l’artista
decide
dunque
di
terminarla
per
dedicarsi
a
un’altra
completamente
differente,
interrompendo
questa
sorta
di
“catena”
e
iniziandone
una
nuova.
Nonostante
questo,
nella
sua
ricerca
creativa
è
riscontrabile
una
certa
continuità,
infatti
egli,
a
prescindere
dal
tema
trattato,
estrapola
sempre
gli
elementi
dal
mondo
reale
e
quotidiano,
per
poi
trasformarli,
traendo
ispirazione
dal
mondo
selvaggio
e
mitico.
Il
passare
da
una
serie
a
un’altra
di
opere
è
espresso
giocosamente
ed
esplicitamente,
nel
ritornello
di
una
poesia
scritta
da
Pascali
stesso:
“Io
son
come
un
serpente
/
ogni
anno
cambio
pelle.
/ La
mia
pelle
non
la
butto
/ma
con
essa
faccio
tutto.
/
Quel
che
ho
fatto
di
recente
/
già
da
tempo
mi
repelle”.
Ritengo
opportuno
compiere
un
passo
indietro,
poiché
questa
poesia
fu
composta
dall’artista
per
introdurre
la
sua
mostra
Nuove
Sculture,
che
si
tenne
alla
galleria
L’Attico
di
Fabio
Sargentini
e
rappresentò
l’inizio
di
una
proficua
collaborazione
e di
una
profonda
amicizia
tra
Pascali
e il
gallerista
romano.
Prima
di
questa
vicenda,
nel
1965,
Pascali
diede
vita
al
ciclo
delle
Armi,
una
produzione
molto
celebre
che
provocò
la
rottura
di
tutti
i
rapporti
con
De
Martiis,
dovuta
a
delle
inconciliabili
divergenze
con
il
gallerista
de
La
Tartaruga
che
si
oppose
al
volere
dell’artista
pugliese
di
esporre
questa
nuova
serie
presso
i
suoi
spazi
espositivi,
ritenendola
troppo
audace
ed
esageratamente
rivoluzionaria
rispetto
alle
ricerche
artistiche
contemporanee.
Il
gallerista
Gian
Enzo
Sperone
invece
si
dimostrò
entusiasta
di
queste
creazioni
di
Pascali
e fu
così
che
nel
gennaio
1966
presso
la
torinese
galleria
Sperone
si
tenne
la
mostra
personale
dell’artista
dove
furono
esposte
le
Armi.
Si
tratta
di
sculture
che
hanno
le
sembianze
di
armi,
realizzate
assemblando
materiali
di
scarto
meccanici,
tubi
idraulici,
carburatori
Fiat
non
più
utilizzabili,
rottami,
ferrivecchi
e
manopole.
L’artista
plasma
cannoni,
bombe,
mitragliatrici
quasi
a
grandezza
naturale,
spaventosi
solo
all’apparenza
poiché
nonostante
siano
così
realistici
lo
sono
solo
nell’aspetto
e
non
nella
funzione.
Una
volta
costruite,
tinteggiava
queste
armi
giocattolo
con
la
vernice
militare
verde-grigiastra
che
caratterizza
i
prototipi
originali
in
modo
da
coprire
le
imperfezioni
e le
pecche
dei
materiali
di
scarto
utilizzati
e
aumentare
la
verosimiglianza
con
le
vere
armi.
In
questa
produzione
si
avverte
un
velato
richiamo
alle
sue
opere
precedenti
incentrate
sulle
parti
del
corpo
femminile
e
sui
ruderi
della
Roma
antica,
poiché
il
criterio
con
il
quale
decise
di
trattare
un
tema
ostico
come
quello
della
guerra
è
simile
a
quello
in
cui
scelse
di
trattare
il
sesso,
altro
tema
“tabù”,
privilegiando
il
lato
infantile,
giocoso
e
ironico,
a
tratti
beffandosi
dello
spettatore
che
si
sentiva
minacciato
o
intimidito
di
fronte
alle
sue
opere.
Ci
sono
varie
opinioni
in
merito
a
cosa
avesse
portato
Pascali
a
dedicarsi
a
una
ricerca
artistica
incentrata
sulle
armi
militari,
ma
nessuna
di
queste
è
confermata
o
declinata
dall’artista.
Innanzitutto
è
fondamentale
dire,
che
egli
era
nato
nel
1935
e
quindi
la
sua
infanzia
era
stata
scandita
dagli
avvenimenti
della
Seconda
Guerra
Mondiale.
Il
padre
di
Pascali
raccontò
che
negli
anni
in
cui
vissero
a
Tirana
tra
il
1940
e il
1941,
dove
si
erano
trasferiti
poiché
egli
era
stato
arruolato
come
funzionario
di
polizia
del
Regime,
addetto
all’Ufficio
Emigrazioni,
il
piccolo
Pino
si
divertiva
a
uscire
dai
rifugi
durante
i
bombardamenti
aerei
per
incitare,
brandendo
le
sue
armi
giocattolo,
le
truppe
italiane.
Il
critico
Alberto
Boatto
percepì
nelle
Armi
un
profondo
trauma
dell’artista
derivato
dai
ricordi
della
guerra,
supponendo
che
fosse
questa
la
causa
principale
del
rifiuto
di
crescita
compiuto
da
Pascali,
rimasto
ancorato
a
un’idea
infantile
della
realtà
che
lo
portava
a
sostituirla
con
un
suo
mondo
immaginario,
estrapolando
elementi
dall’immaginario
collettivo
e
facendo
subire
loro
una
metamorfosi
o
ricostruendoli
da
capo,
in
modo
che
mantenessero
solamente
una
fittizia
somiglianza
con
gli
originali.
Maurizio
Calvesi
invece
ha
scorto
nell’insieme
delle
opere
esposte
da
Sperone
un
richiamo
all’apparato
scenografico
dello
spettacolo,
infatti
Pascali
studiò
scenografia
all’Accademia
di
Belle
Arti
e in
seguito
lavorò
per
la
casa
di
produzione
pubblicitaria
Lodolo
Film
di
Sandro
Lodolo,
e
come
aiuto-scenografo
alla
Rai.
Dopo
aver
visitato
la
mostra
delle
Armi,
Calvesi
scrisse:
“(…)
È
una
recitazione
esibitiva,
un
comizio
pacifista,
un
pomeriggio
di
giuochi,
una
brutta
avventura
della
fantasia;
è un
happening
affidato
ai
soli
oggetti,
uno
spettacolo
a
scena
pieno-vuota”.
Esistono
delle
foto
che
vedono
protagonista
Pascali
con
le
sue
Armi,
scattate
dal
fotografo
Claudio
Abate
nello
studio
dell’artista
pugliese.
In
questi
scatti
Pascali
si
fa
ritrarre
con
indosso
un’uniforme
militare
vera
e
propria,
in
alcune
fotografie
si è
infilato
in
testa
anche
un
elmetto,
per
rendere
ancora
più
credibile
il
personaggio
che
sta
recitando
o
per
rendere
ancora
più
ironico
il
suo
comportamento,
infatti
egli
si
approccia
a
questa
serie
di
lavori
come
se
si
trattassero
di
veri
e
propri
giocattoloni.
Guardando
queste
foto,
mi
domando
se
l’artista
volesse
che
anche
i
visitatori
della
mostra
alla
galleria
Sperone
si
scatenassero
come
lui
a
giocare
con
le
opere
esposte.
Ci
sono
varie
fotografie
in
cui
l’artista
è a
cavallo
del
Missile
Colomba
della
pace,
e in
tutte,
nonostante
assuma
pose
differenti,
si
mostra
divertito
mentre
con
tutte
le
sue
forze
si
tiene
saldamente
al
razzo,
dando
l’idea
che
questo
stia
per
sfrecciare
veloce
in
aria.
Ovviamente
anche
in
questo
caso
si
tratta
di
pura
finzione,
il
missile,
essendo
un’opera
d’arte,
non
si
muove,
è
Pascali
che
impersonando
il
“ruolo”
del
militare
gioca
davanti
all’obiettivo
di
Abate
e
dissimula
un
irrealistico
volo.
.
.
Pino
Pascali,
Colomba
della
Pace
(missile),
1965.
Fotografie
di
Claudio
Abate.
Un’altra
particolarità
di
quest’opera
è il
titolo
Colomba
della
pace,
che
poco
le
si
addice,
poiché
il
suo
aspetto
riproduce
in
tutto
e
per
tutto
quello
dei
missili
che
usavano
lanciare
i
bombardieri
durante
la
Seconda
Guerra
Mondiale,
essendo
quindi
l’opposto
di
un
simbolo
di
pace.
“Che
bello
mettere
un
cannone
in
un
posto
degli
scultori,
riuscire
a
metterlo
veramente
in
quel
mondo
così
sacro,
così
finto!”.
Questa
affermazione
è
tratta
da
uno
scritto
di
Pascali
del
1965,
contemporaneo
alla
produzione
delle
Armi,
infatti
l’artista
attribuiva
molto
rilievo
al
fatto
che
delle
finte
armi,
quindi
delle
finte
sculture
occupassero
lo
spazio
definito
“artefatto”,
dallo
stesso
Pascali,
della
galleria.
Egli
riteneva
che
le
opere
stessero
all’interno
dello
spazio
espositivo
come
delle
tombe
in
un
cimitero,
come
dei
simulacri
su
un
altare;
per
questa
ragione
l’artista
decise
di
controbattere
a
questa
falsità
con
una,
se
possibile,
ancora
più
grande:
la
creazione
delle
finte
sculture.
Come
già
accennato,
nell’ottobre
del
1966
Pascali
allestì
la
sua
prima
mostra
da
Sargentini
intitolata
Nuove
Sculture.
In
questa
occasione
egli
scelse
di
esporre
il
ciclo
di
opere
chiamate
“finte
sculture”,
cioè
parti
di
animali
e di
elementi
naturali
realizzati
con
la
tela
bianca
tesa
su
strutture
di
legno,
materiali
che
permettevano
a
questi
lavori
di
assomigliare
a un
primo
sguardo
alle
candide
statue
classiche
realizzate
in
pietra
o in
marmo.
La
mostra
fu
divisa
in
due
fasi,
nella
prima
presentò
le
parti
di
animali,
mentre
nella
seconda
mostrò
il
Mare
con
i
relitti
del
suo
paesaggio:
La
scogliera,
Barca
che
affonda,
Due
balene.
Il
Mare
del
1966,
è
un’installazione
costituita
da
25
elementi
realizzati
con
tela
bianca
su
centine
di
legno
che
raffigurano
il
moto
e le
increspature
delle
onde.
La
calma
della
bianca
tela
è
interrotta
da
un
fulmine
nero
che
la
trafigge
dall’alto.
La
gigantesca
scultura
fu
pensata
per
occupare
un’intera
sala
de
L’Attico,
mettendo
in
atto
l’intenzione
di
trasporre
un
elemento
naturale
intangibile
e
incontenibile,
come
il
mare,
in
uno
spazio
limitato
e
astratto
come
gli
spazi
espositivi
di
una
galleria
d’arte.
A
Pascali
piaceva
il
mare
– ne
parlò
anche
nell’atipica
intervista
di
Carla
Lonzi
su
Marcatrè
del
1967,
atipica
poiché
furono
pubblicate
solamente
le
risposte
date
dall’artista
e
cancellate
le
domande
poste
da
Lonzi
–
gli
ricordava
la
sua
infanzia
e i
suoi
giochi
da
bambino,
infatti
egli
era
nato
a
Bari
e
cresciuto
a
Polignano
a
Mare:
i
suoi
ricordi
erano
dunque
intrisi
d’acqua
e
salsedine.
Il
tema
del
mare
non
fu
abbandonato
da
Pascali
dopo
la
grande
scultura
esposta
da
Sargentini,
ma
fu
riutilizzato
e
reinventato
l’anno
successivo
nell’opera
32
mq
di
mare
circa.
Si
tratta
di
una
grande
installazione
composta
da
30
vasche
di
alluminio
zincato,
alte
6
cm,
di
forma
quadrata,
riempite
di
acqua
colorata
all’anilina.
Quest’opera
è
l’emblema
dell’utilizzo
di
nuove
tecnologie
per
rappresentare
la
natura,
poiché
i
colori
sintetici
furono
usati
da
Pascali
per
colorare
l’acqua
di
differenti
tonalità,
determinate
della
quantità
di
prodotto
versato
all’interno
delle
vasche
per
riprodurre
le
sfumature
d’azzurro
del
mare,
che
mutano
a
seconda
della
lontananza
dalla
riva.
Anche
in
questo
caso,
l’artista
si
beffa
dello
spettatore,
che
potrebbe
scambiare,
al
primo
sguardo,
le
vasche
colme
d’acqua
all’anilina
con
lastre
di
vetro
di
molteplici
toni
di
celeste,
poiché
l’effetto
del
colore
disciolto
nell’acqua
la
fa
sembrare
solida,
dura
e
metallizzata.
Nella
disposizione
i
recipienti
sono
posti
uno
accanto
all’altro
formando
un
quadrato
di
grandi
dimensioni,
ma
c’è
un’eccezione
nella
parte
finale
dove
Pascali
ha
scelto
di
porre
alcune
vasche
leggermente
separate,
creando
una
frattura
a
zig
zag
che
taglia
la
superficie
dell’acqua
e
nella
quale
si
può
intravedere
una
porzione
del
pavimento
sottostante.
Il
titolo
di
quest’opera
comprende
un’unità
di
misura,
così
come
nei
nomi
dei
lavori
presentati
alla
mostra
Fuoco,
immagine,
acqua,
terra,
tenutasi
a
L’Attico
nel
1967,
dove
espose
9mq
di
pozzanghere,
1mc
di
terra
e
2mc
di
terra.
Installazioni
basate
sulla
natura,
ma
fondate
sull’artificio:
la
similarità
con
gli
elementi
realmente
esistenti
è
possibile
solo
grazie
a
materiali
di
origine
artificiale.
Combinare
l’informità
della
materia
organica
con
la
componibilità
del
modulo
divenne
una
delle
cifre
stilistiche
che
caratterizzarono
i
lavori
di
Pascali.
Infatti
l’artista
stesso
nell’intervista
di
Carla
Lonzi
dichiarò:
“Il
mondo
è
fatto
come
un
grande
meccano
dove
uno
ha
tanti
pezzi...
tutti
uguali
ma
tutti
differenti
e
proprio
incastrandoli
l’uno
nell’altro
si
crea
una
possibilità
oppure
la
si
scarta”.
Abate
ritrasse
Pascali
insieme
all’installazione
32
mq
di
mare
circa,
mentre
si
muove
nel
piccolo
spazio
vuoto
tra
le
vaschette;
l’artista
in
questa
fotografia
sembra
stia
attraversando
il
suo
“mare”,
effettuando
attentamente
dei
piccoli
salti,
con
lo
sguardo
fisso
e un
braccio
alzato
per
cercare
di
rimare
in
equilibrio
e
non
cadere
nell’acqua.
.
Pino
Pascali,
32
mq
di
mare
circa,
1967.
30
vasche
di
alluminio
zincato
con
acqua
colorata
all’anilina.
Fotografia
di
Claudio
Abate.
Le
opere
di
questo
periodo
hanno
tutte
la
particolarità
di
essere
componibili,
cioè
formate
da
vari
pezzi
uguali
o
molto
simili
che
possono
essere
sottratti
o
aggiunti
per
adattare
le
sculture
a un
determinato
spazio.
Mi
chiedo,
guardando
32
mq
di
mare
circa,
se
la
scelta
di
lasciare
una
fessura
di
pavimento
tra
i
quadrati
fosse
stata
concepita
per
permettere
ai
visitatori
della
mostra
di
entrare
all’interno
della
grande
installazione
e
saltellare
come
Pascali
o
per
creare
un’imperfezione
in
un’opera
così
omogenea.
Osservando
lo
scatto
sopra
citato,
nelle
vasche
più
vicine
all’obiettivo
di
Abate
si
scorge
l’ombra
dell’artista,
che
riflettendosi
nell’acqua
delle
vasche
rimanda
la
sua
figura
capovolta,
come
in
un
illusionistico
specchio.
Pascali
amava
vedere
la
sua
immagine
riflessa,
ricca
di
sfaccettature
e in
grado
di
compiere
i
più
disparati
mutamenti
futuri,
così
come
la
sua
arte.
Pascali
interpreta
a
suo
modo
la
figura
del
bricoleur,
l’immagine-metafora
delineata
da
Lévi-Strauss
nel
primo
capitolo
del
Pensiero
Selvaggio:
“Il bricoleur è
capace
di
eseguire
un
gran
numero
di
compiti
differenziati
ma,
a
differenza
dell’ingegnere,
egli
non
li
subordina
al
possesso
di
materie
prime
o di
arnesi,
concepiti
e
procurati
espressamente
per
la
realizzazione
del
suo
progetto:
il
suo
universo
strumentale
è
chiuso
e,
per lui,
la
regola
del
gioco
consiste
nell’adattarsi
sempre
all’equipaggiamento
di
cui
dispone,
cioè
ad
un
insieme
via,
via
“finito”
di
arnesi
e
materiali,
peraltro
eterocliti,
dato
che
la
composizione
di
questo
insieme
non
è in
rapporto
col
progetto
del
momento,
né
d’altronde
con
nessun
progetto
particolare,
ma è
il
risultato
contingente
di
tutte
le
occasioni
che
si
sono
presentate
di
rinnovare
o di
arricchire
lo
stock
o di
conservarlo
con
i
residui
di
costruzioni
o di
distruzioni
precedenti.
[…]
Il
suo
modo
pratico
di
procedere
è
inizialmente
retrospettivo:
egli
deve
rivolgersi
verso
un
insieme
già costituito
di
utensili
e di
materiali,
farne
o
rifarne
l’inventario,
e
infine,
soprattutto
impegnare
con
esso
una
sorta
di
dialogo
per
inventariare,
prima
di
sceglierne
una,
tutte
le
risposte
che
l’insieme
può
offrire
al
problema
che
gli
vien
posto”.
Questo
suo
aspetto
si
può
riscontrare
nel
ciclo
di
opere
Ricostruzioni
della
natura,
ideate
nel
1968
ed
esposte
durante
lo
stesso
anno
in
due
mostre
presso
la
galleria
L’Attico
di
Roma.
Di
questa
produzione
fanno
parte
i
Bachi
da
setola
(tutti
di
colori
differenti:
verde
acqua,
verde
mela,
rosso
granata,
rosso
arancio,
rosa
chiaro),
presentati
per
la
prima
volta
alla
galleria
Jolas
di
Parigi
e
successivamente
nella
prima
delle
due
personali
che
si
tennero
da
Sargentini.
In
questi
lavori
si
può
immediatamente
percepire
una
forte
componente
ludica,
già
partendo
dal
titolo
scelto
da
Pascali
che
gioca,
sostituendo
la
parola
“seta”,
facente
parte
del
nome
degli
animali
rappresentati,
con
“setola”,
per
sottolineare
il
materiale
di
cui
sono
composte
le
sculture.
Infatti
si
tratta
di
una
serie
di
installazioni
raffiguranti
bachi
da
seta
realizzati
utilizzando
come
unico
materiale
l’acrilico
colorato
con
cui
sono
fabbricate
le
setole
industriali
e le
scope
di
comune
uso
domestico.
Le
opere
hanno
l’aspetto
di
giganteschi
bruchi
colorati,
anche
la
loro
grandezza
ha
un’accezione
ironica
poiché
non
esistono
in
natura
bachi
di
queste
dimensioni.
La
loro
creazione
è
stata
per
Pascali
estremamente
semplice,
l’unica
difficoltà
riscontrabile
è
nella
fabbricazione
della
struttura
di
supporto
delle
sculture,
per
la
quale
impiega
delle
guide
in
ferro
dolce
nelle
quali
possono
inserirsi
gli
anelli
di
cui
sono
fornite
le
setole
poiché
abitualmente
è in
questo
modo
che
vengono
montate
ai
manici
delle
scope.
In
questi
lavori
l’artista
riesce
a
giocare
con
i
materiali
che
ha a
disposizione
per
creare
qualcosa
di
totalmente
distante
dalla
loro
funzione
originaria,
riuscendo
a
compiere
una
manipolazione
istantanea
della
realtà
tramite
l’arte:
egli
non
modifica
la
materia
usata,
le
dà
solamente
una
nuova
fruizione,
estrapolandola
dal
suo
utilizzo
comune,
in
questo
caso
solamente
incastrando
gli
anelli
di
nylon
tra
loro
invece
di
agganciarli
ad
altri
supporti.
Giulio
Carlo
Argan
scrisse,
nel
catalogo
della
mostra
di
Pascali
che
si
tenne
nel
1968
alla
galleria
Jolas
di
Parigi:
“La
spazzola
di
plastica
colorata
non
è
esibita
né
utilizzata
come
spazzola,
né
scelta
per
un
meccanismo
inconscio
di
memorie,
di
cesure,
di
attribuzioni
simboliche.
L’assume
come
forma
o
struttura,
sapendo
che
la
struttura
in
definitiva,
non
è
altro
che
una
intuizione
di
spazio
e di
tempo
che
gli
uomini
necessariamente
immettono
nelle
cose
che
fanno.
Accetta
dunque
e
mette
in
evidenza
la
spazialità
intrinseca
nell’oggetto:
nel
caso
della
spazzola,
il
cercine
formato
dalle
setole
artificiali
irradiate,
il
punteggiato
luministico
dei
vertici
trasparenti,
la
profondità
colorata
che
si
addentra
nel
folto,
l’elasticità
e la
possibilità
di
movimento
dei
segmenti
di
materia
traslucida.
È
una
spazialità
minima
ma
espansiva.
L’oggetto
si
da
come
luogo
conservando
la
sua
natura
di
oggetto”.
Esiste
una
fotografia,
scelta
come
copertina
del
catalogo
della
mostra
de
L’Attico
sopracitata,
intitolata
Bachi
da
setola
e
altri
lavori
in
corso,
nella
quale
Pascali
è
ritratto
sdraiato
su
un
prato
in
discesa
con
al
suo
fianco
uno
dei
Bachi
da
setola;
differentemente
dagli
altri
scatti
l’artista
non
si
trova
negli
spazi
di
una
galleria
o
nel
suo
studio
ma
all’aperto,
nella
natura,
luogo
nel
quale
vivono
i
soggetti
che
ha
rappresentato,
i
bachi.
.
Pino
Pascali,
Copertina
del
catalogo
della
mostra
Bachi
da
setola
e
altri
lavori
in
corso,
Roma,
Galleria
L’Attico,
Marzo
1968.
C’è
una
sottile
ironia
in
questa
immagine
poiché
l’animale
disteso
accanto
a
lui
è in
realtà
prodotto
con
materiali
artificiali.
Si
nota
subito
la
grandezza
del
Baco
da
setola,
di
gran
lunga
superiore
a
quella
del
corpo
di
Pascali
che,
adagiato
sull’erba,
sembra
rilassarsi
prendendo
il
sole
con
a
fianco
questo
enorme
bruco,
come
se
fosse
una
sua
usanza
abituale.
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marzo
1968.
Mostra
di
Pino
Pascali,
catalogo
della
mostra
(Roma,
Galleria
Nazionale
d’Arte
Moderna,
31
maggio
- 27
giugno
1969),
presentazione
a
cura
di
P.
Bucarelli,
De
Luca,
Roma
1969.
Nascita
di
una
nazione:
Guttuso,
Fontana
e
Schifano,
catalogo
della
mostra
(Firenze,
Palazzo
Strozzi,
16
marzo
- 22
luglio
2018),
a
cura
di
L.M.
Barbera,
Marsilio,
Venezia
2018.
P.
Pascali,
Lo
spettatore,
poesia
scritta
in
occasione
della
mostra
alla
Galleria
L’Attico
di
Roma
nel
1966,
Roma
1966.
P.
Pascali,
Intervista
di
Carla
Lonzi,
in
Marcatrè,
luglio
1967.
Pascali,
catalogo
della
mostra
(Milano,
Galleria
Arte
92,
18
novembre1993
– 26
febbraio
1994),
a
cura
di
Luciano
Caramel,
Mazzotta,
Milano
1993.
Pascali,
il
mare
ecc.,
catalogo
della
mostra
(Roma,
Galleria
Nazionale
d’Arte
Moderna,
15
ottobre
– 27
novembre
2005),
a
cura
di
M.V.
Marini
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L.
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Milano
2005.
Pino
Pascali
1935-1968,
catalogo
della
mostra
(Milano,
Padiglione
d’arte
contemporanea,
15
dicembre
1987
– 31
gennaio
1988),
De
Luca,
Roma
1987;
Mondadori,
Milano
1987.
Pino
Pascali,
catalogo
della
mostra
(Castelnuovo
di
Porto,
Galleria
Fuoricentro
13
giugno
– 31
luglio
1998),
a
cura
di
E.
Crispolti
e D.
Falasca,
Fuoricentro
Edizioni,
Castelnuovo
di
Porto
(RM)
1998.
Pino
Pascali:
bachi
da
setola
ed
altri
lavori
in
corso,
catalogo
della
mostra
(Milano,
Fondazione
Carriero,
24
marzo
- 24
giugno
2017),
a
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di
F.
Stocchi,
Fondazione
Carriero,
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F.
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Arte
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F.
Poli,
La
scultura
nel
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Forme
Plastiche,
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ambientali,
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Roma
anni
’60:
al
di
là
della
pittura,
catalogo
della
mostra
(Roma,
Palazzo
delle
Esposizioni,
20
dicembre
1990
- 15
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a
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italiana
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Macerata
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M.
Tonelli,
Pino
Pascali:
il
libero
gioco
della
scultura,
Johan
&
Levi,
Milano
2010.
M.
Tonelli,
Pascali:
catalogo
generale
delle
sculture
1964-1968,
comitato
scientifico:
V.
Brandi
Rubiu,
F.
Sargentini,
De
Luca,
Roma
2011.