N. 137 - Maggio 2019
(CLXVIII)
Pietro de Pretio
Un’apologia sveva contro Carlo I d’Angiò
di Costanza Marana
“Molto
fu
largo
e
cortese
e di
buon
aire”
viene
definito
così
Manfredi
di
Svevia
nella
Cronaca
di
Giovanni
Villani.
L’autore
fa
mostra
dell’habitus
cortese
del
sovrano
svevo,
uno
dei
figli
naturali
di
Federico
II;
alla
morte
dello
stupor
mundi
prende
la
reggenza
(1250)
del
regno
di
Sicilia
e di
Puglia.
Manfredi
incentiva
una
dislocazione
di
poteri
e
funzioni
tra
contee
e
baroni,
creando
un
vero
e
proprio
apparato
clientelare,
legato
al
suo
entourage
familiare
e
collaborativo.
Questo
assetto
accentratore
e
“nepotistico”
viene
suffragato
da
una
politica
volta
a
costituire
una
rete
di
alleanze
a
matrice
ghibellina.
Ciò
provoca
un
regime
di
inaffidabilità
e
corruzione
dilaganti
in
ambito
amministrativo
che
verrà
riassestato
in
un’ottica
maggiormente
istituzionalizzata
da
Carlo
I d’
Angiò,
sebbene
quest’ultimo
serbasse
un’impronta
“oligarchico
feudale”.
Ad
esempio,
nel
caso
dell’Officium
Marescalliae,
Manfredi
concede
tale
carica
a
Galvano
Lancia
con
l’intento
di
assicurarsi
il
monopolio
dal
punto
di
vista
del
controllo,
come
valore
assoluto.
In
seguito,
il
comparto
angioino
vi
aggiungerà
funzioni
riguardanti
l’apparato
logistico
militare,
la
supervisione
e
direzione
delle
carceri
e
scuderie
regie,
agglomerandovi
la
figura
del
Conestabile
dell’epoca
normanna.
Dell’eredità
della
famiglia
Lancia
(suddetta),
privilegiata
dall’establishment
svevo,
Carlo
I
avrebbe
fatto
una
riserva
di
proprietà
concesse,
tramite
titoli
feudali,
ai
suoi
fedeli
collaboratori.
Costui
forma
un
vasto
patrimonio
terriero,
nutrito
dalla
confisca
a
grandi
famiglie
nobili
e
borghesi,
corrompendo
la
precedente
struttura
gerarchico-feudale
su
base
normanna.
Nello
specifico,
l’area
dell’Agrigentino
viene
addensata
di
seguaci
dell’Angioino
con
tali
concessioni
feudali,
come
il
caso
dell’avignonese
Jean
Roux
che
diventa
proprietario
nel
1270-72
del
casale
di
Molotta,
confiscato
a
Nicolò
de
Aspello
e
Guglielmo
di
Fazarabia.
Il
fratello
Corrado
IV
(Duca
di
Svevia
e re
di
Germania)
si
rivela
il
legittimo
erede
al
trono.
Morto
costui
nel
1254,
Manfredi
persegue
la
sua
ambizione
di
potere
rivolta
al
trono
di
Sicilia
e
Puglia,
tentando
di
far
riconoscere,
mediante
il
salvacondotto
papale,
il
nipote
Corradino
quale
successore,
poiché
la
sua
intenzione
era
di
beneficiarne
lui
stesso.
Papa
Innocenzo
IV
si
manifesta
ostile
alle
manovre
manfrediane,
pertanto
il
nobile
svevo
si
rifugia
in
Puglia
e
medita
una
rappresaglia
che
punterà
alla
riconquista
del
regno
versus
lo
stato
pontificio.
Diffusa
la
mendace
notizia
della
morte
del
piccolo
Corradino
e
valente
del
possesso
del
territorio,
Manfredi
si
fa
incoronare
re a
Palermo
nel
1258.
Scomunicato,
all’apice
della
gloria,
in
seguito
anche
alla
vittoria
sui
guelfi
a
Montaperti,
inizia
il
declino
e
l’epilogo
drammatico
del
sovrano
svevo.
Clemente
IV a
difesa
dei
suoi
interessi,
spodestati,
avoca
a sé
dalla
Francia
Carlo
I
d’Angiò.
Durante
la
battaglia
di
Benevento,
Manfredi
viene
ucciso
e la
“Götterdämmerung”
della
casata
non
si
arresta.
Corradino
discende
in
Italia
per
riappropriarsi
del
suo
regno,
ma i
francesi
nei
pressi
della
conca
del
Fucino
arrestano
l’avanzata.
L’erede
svevo
fugge,
ma
il
signore
di
Astura,
Giovanni
Frangipane,
lo
trattiene
e
consegna
a
Carlo
I
d’Angiò.
Il
29
ottobre
1268
Corradino
di
Svevia
viene
decapitato
innanzi
alla
folla
nell’attuale
piazza
del
mercato
di
Napoli.
La
gogna,
il
gesto
plateale,
la
crudezza
della
scenografia
colpiscono
la
sensibilità
comune.
Uno
scenario
denso
di
pathos
che
muove
l’animo
del
dictator
Pietro
de
Pretio
e il
suo
credo
nella
casata
sveva.
Pietro
de
Pretio
(Pietro
da
Prezza)
nasce
tra
la
prima
e la
seconda
decade
della
prima
metà
del
XIII
secolo
e si
configura
quale
notaio
e
dictator.
Quest’ultima
qualifica
lo
identifica
quale
incaricato
ufficiale
di
scrivere
epistole
per
la
casata
sveva.
Costui
proviene
o
dal
suolo
abruzzese
(Prezza)
o,
in
base
ad
alcune
deduzioni
da
documenti
del
tempo,
dalla
città
di
Parma,
ma
non
vi è
certezza
in
queste
attribuzioni.
Pietro,
proclive
alla
scrittura,
sente
di
suffragare
il
suo
animo
e la
causa
del
suo
signore
stendendo
un’invettiva
contro
gli
Angiò,
ad
esortazione
del
Vicecancelliere
di
Corrado
IV,
Enrico
Langravio
della
Turingia,
marchese
della
Misnia.
Un
bardo
di
conforto
per
la
morte
di
Corradino
di
Svevia,
nipote
di
Federico
II.
Ispirato
dalla
virtù
celeste
si
foggia
dell’investitura
dall’alto
per
accingersi
a
decantare
le
lodi
della
stirpe
sveva.
« (…) sacro ceppo per l’avvenire
germoglieranno
innumerevoli
cesari
e
re,
affinché
con
così
numerosi
successi
sia
più
felice
il
proseguimento
e a
me
si
offra
da
scrivere
un
argomento
più
ricco».
Il
languore
nell’animo
di
Pietro,
innanzi
alla
tragedia
di
Corradino,
lo
porta
a
recare
testimonianza
dell’accaduto,
non
lasciandone
lettera
muta
ai
posteri.
«L’amaro stimolo di un dolore spietato
non
sente
vergogna,
non
ha
paura,
non
decide,
non
consulta
la
ragione
(…)
confido
nelle
mie
forze
e
non
temo
di
rivolgere
al
cielo
la
bocca
muta».
L’autore
descrive
le
nefandezze
compiute
dagli
angioini,
rendendo
manifesta
la
loro
prolungata
e
ben
radicata
crudeltà.
«Senza dubbio questo nostro Carlo
non
discende
dall’antico
Carlo
Magno
più
di
quanto
il
cuculo
discenda
dall’aquila».
Qui
narra
della
vicenda
dell’usurpazione
del
potere
da
parte
di
Ugo
Capeto,
duca
dei
Franchi,
nei
confronti
di
Lotario,
re
di
Francia,
alla
cui
morte,
con
l’aiuto
dell’Arcivescovo
di
Reims,
si
impossessa
della
corte,
eliminando
anche
l’ultimo
concorrente
carolingio
Carlo,
duca
della
Bassa
Lorena.
«Prendendo con la mano grondante di
sangue
lo
scettro
del
potere
e
la
spada
del
governo.
(…) Lupi rapaci, che avendo divorato la
stirpe
degli
eccellenti
leoni,
hanno
occupato
il
loro
posto
e
rivendicato
il
diritto
di
per
sé
di
comandare
sulla
plebe
delle
fiere».
Una
stirpe
contaminata
dall’inganno,
l’ipocrisia
e la
crudeltà
versus
l’aura
nobile
della
casata
sveva.
Il
ritratto
di
Carlo
I
d’Angiò
come
peccatore,
senza
scrupoli,
iracondo,
mentitore.
Trucidò
Corradino
in
modo
vergognoso,
tra
le
beffe,
“contro
Dio,
contro
la
parola
datagli
più
volte
relativa
alla
sua
salvezza,
contro
la
consuetudine,
sancita
da
alcune
usanze,
le
quali
stabilivano
saggiamente
che
nessun
re
qualora
fosse
stato
fatto
prigioniero
dovesse
essere
privato
della
vita”.
Conclude
esortando
il
marchese
della
Misnia
alla
vendetta
del
vilipendio
del
re
svevo
da
parte
degli
angioini.
«Lascerai che sia invendicato il
sangue
di
tuo
fratello
versato
con
disprezzo
e
viltà?
Va’
contro
questa
bestia
feroce
e
pessima
bestia
che
divora
il
genere
umano!
E
beve
il
sangue
dei
cristiani.
Contrapponi
le
tue
spade
e le
tue
lance!
Opponi
il
tuo
scudo
a
difesa!
Vieni,
o
signore,
non
tardare!
Tuttavia
vieni
con
mano
forte!».
Riferimenti
bibliografici:
U.
Caperna
(a
cura
di),
Invettiva
contro
Carlo
d’Angiò
per
l’uccisione
di
Corradino
di
Svevia,
Pietro
de
Pretio,
,
Francesco
Ciolfi
Editore,
Cassino
2010;
L.
Catalioto,
Terre,
baroni
e
città
di
Sicilia
nell’età
di
Carlo
I
d’Angiò,
Intilla
editore,
Messina
1995;
G.L.
Borghese,
Carlo
I
d’Angiò
e il
mediterraneo.
Politica,
diplomazia
e
commercio
internazionale
prima
dei
vespri,
École
Française
de
Rome,
Roma
2008.