filosofia & religione
LA TOLLERANZA
NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA
PIERRE BAYLE / PARTE II
di Simonetta Satornino
Bayle non lo si può considerare scettico
in modo totalizzante, poiché per tutta
la sua esistenza, manifestò, d’essere
pieno di convinzione; non apparve
vittima del dubbio o preda delle
incertezze, ma ebbe la convinzione che
ogni uomo avesse bisogno di certezze
razionali, non di dogmi e che oltre il
reticolo dell’odio confessionale
esistesse una pace filosofica che era
fonte di tolleranza e di giustizia sia
in campo civile che religioso.
Il suo fu uno scetticismo produttivo,
interrogante e coinvolgente, che lo
indusse a sottolineare la funzione
apologetica dello stesso, quale rinuncia
alla ragione per accogliere una fede
nuda, incomprensibile e indimostrabile.
In concreto, egli presentò il dubbio
come un atteggiamento di cautela e di
controllo che deve costantemente
accompagnare la credenza, assegnandole
un grado di certezza solo probabile e
provvisorio, dunque sempre rimodulabile.
Il valore di verità o di realtà che gli
scettici attribuiscono a questa loro
persuasione non è identico a quello cui
si riferiscono i dogmatici: non deriva
cioè da un criterio infallibile, come
l’evidenza cartesiana, ma da una
necessità soggettiva e istintiva.
Anche in campo teologico, accanto al
fideismo estremo emerso in alcuni
momenti, trapela nei testi di Bayle una
forma di scepsi più moderata, in cui
egli attribuì alle credenze religiose lo
statuto di opinioni solo ipotetiche, la
cui funzione è di salvare o a dar
ragione dei fenomeni tanto naturali
quanto civili, con la conseguenza
esplicita, che tutti i sistemi teologici
appaiono altrettanto possibili, se
paragonati alla saggezza infinita che ha
mezzi infiniti per manifestarsi.
Lo scetticismo resta comunque nemico
dell’affermativo categorico. Dopotutto
la sospensione del giudizio è
impraticabile in vista delle scelte
esistenziali, poiché il dubbio è una
condizione provvisoria. Per contro Bayle
non ebbe tentennamenti su quale
confessione religiosa seguire, ma il suo
scetticismo riguardava più un aspetto
del pensiero che della fede.
I confini che Bayle traccia tra fede e
ragione furono impregnati di rigore: la
ragione non può pretendere di criticare
la fede, pena il precipitare essa stessa
nel pirronismo; ma la fede, dal canto
suo, non può strumentalizzare la
ragione, pena il cadere
nell’incredulità.
Possiamo affermare, dunque, che l’idea
di Dio non poteva essere fissata in un
contenuto di tipo dogmatico già
prefissato, ma andava colto nella sua
essenza pura legata alle facoltà
intellettive di ogni essere umano.
Emerge, infine, una chiara distinzione
tra fede e ragione; in cui i dogmi
appaiono da un lato incommensurabili e
dall’altro vanno vagliati criticamente
per mostrarne le possibili
contraddittorietà.
L’argomentazione di Pierre Bayle,
riguardo al tema della tolleranza, non
si struttura come un’analisi di testi
biblici, ma si fonda sulla centralità
accordata alla coscienza individuale,
sia in ambito morale che in ambito
teoretico.
Egli pose l’accento sull’aspetto formale
dell’agire morale, sottolineando il
valore assoluto dell’intenzione: colui
che agisce secondo coscienza pone a base
della sua azione la cosiddetta regola
d’oro, «quello per cui si deve agire
secondo coscienza e quello per cui non
si deve fare agli altri ciò che non
vorremmo ci fosse fatto» che deriva
da Dio stesso; disobbedendo ad essa
l’uomo si pone contro Dio e disprezza la
sua legge.
La riflessione di Bayle sulla tolleranza
poggia su due cardini: da un lato, la
ricerca storica, che mostra le infinite
fratture causate dal fanatismo
religioso; dall’altro, il rifiuto, su
base razionalistica, di accettare,
nell’ambito dei fenomeni che concernono
l’esperienza
umana, le imposizioni della rivelazione.
Lo scetticismo, che in campo teologico
era preambulum fidei, si era
affermato come rifiuto della sedicente
conoscenza razionale di Dio e della
Rivelazione, piuttosto che come vero e
proprio rifiuto del mondo dei fatti
umani. E la morale è per Bayle,
anch’essa, un fatto puramente umano.
In Pensieri diversi, Bayle aveva
osservato che il riferimento ai Vangeli
non aveva impedito ai governi e alle
chiese cristiane di macchiarsi dei più
deplorevoli delitti. È, quindi, evidente
che la morale non dipenda dalla
confessione religiosa, poiché gli
antichi stati pagani non furono
certamente peggiori degli stati
cristiani esistenti nella storia, e che
uno stato governato da atei non si
differenzierebbe da uno fondato su un
qualsiasi credo. Pertanto, possiamo dire
che il comportamento è influenzato, in
massima parte, dalle passioni e
dall’abitudine, ma non certamente dalla
confessione religiosa.
Secondo Bayle, non può esistere
l’obbligo di compiere crimini in nome di
un credo, dunque il senso letterale di “costringili
ad entrare” è contrario ai dettami
del Vangelo che invece è una regola
verificata sulla base delle idee più
rette della ragione. La tolleranza,
oltre che l’unico
mezzo per evitare gli orrori di cui si è
macchiata la storia, è vista anche come
un dovere morale. In Bayle emergeva la
necessità di rispondere con fiducia alla
propria coscienza, allontanandosi anche
dai propri corregionali, ma mai
abbandonando la fiducia in Dio e nella
sua Provvidenza.
Un vissuto che sovente s’incrociava con
il corso della storia, la condizione
disastrosa degli ugonotti francesi
oppressi da Luigi XIV si incrociava con
la vita familiare di Bayle. Fece della
lotta contro l’intolleranza una vera
ragione esistenziale, tanto da dedicare
ad essa la stesura del Commentario.
Lotta condotta su due fronti differenti:
in prima istanza contro le angherie dei
cattolici, operate nei confronti dei
riformati; e in seconda istanza contro i
teologi riformati che agirono con
atteggiamento fazioso; nonostante ciò
mantenne sempre un atteggiamento di
distacco e non avvalorando nessuna delle
correnti in voga in quel periodo.
La tesi della tolleranza prende spunto
dal versetto del Vangelo “costringili
ad entrare”, usate dalla chiesa
cristiana e dai sovrani a sostegno delle
persecuzioni, ma che Bayle nel suo
Commentario, attraverso «otto possibili
obiezioni contro la tolleranza, discusse
passo per passo ciò che aveva detto Sant’Agostino».
Argomento ripreso ed approfondito
successivamente anche nel Supplemento
al Commentario per sottolineare che
la sua non era battaglia affrontata in
difesa dei suoi corregionali, quanto
piuttosto in difesa di tutto il genere
umano al di là di ogni credenza
professata e per rivendicare la libertà
di pensiero. Con la convinzione radicata
che se ciascuno esercitasse la
tolleranza regnerebbe la concordia.
Ogni credo merita tolleranza, ma il
desiderio di tolleranza forse è un
progetto utopico, che tutt’oggi va
perseguito. Bayle parve avvalorare la
tesi dello scetticismo, ma nella realtà
voleva semplicemente collocare la verità
in una prospettiva di autenticità
dettata dalla coscienza umana.
Dall’ambito dell’autenticità erano
bandite le costrizioni, i pregiudizi, le
menzogne, l’inganno.
Pertanto, il ricorso al concetto di
ubbidienza politica per costringere i
reietti alla conversione non era
ammissibile.
La violenza era produttrice – proprio
perché incuteva timore – di conversioni
esteriori e mai interiori, portando la
stessa religione a una dimensione di non
autenticità. La religione doveva
obbedire a un processo di persuasione
interiore dell’anima a Dio e se ciò non
avveniva non vi era sincerità; vivere
secondo la fede è un viaggiare verso
Dio, «per cui la difesa della libertà
religiosa s’identifica
qui con la difesa del diritto ad essere
se stessi in modo autentico».
La logica della tolleranza, per il
filosofo di Rotterdam, era di grande
importanza, poiché essa andava difesa
con forza ideologica anche dalla Chiesa
cattolica che agisce tramite la
costrizione dettata dal ruolo primario
che occupa all’interno della storia. La
difesa della tolleranza, per Bayle, era
compatibile con una politica di tipo
assolutistico, che combatte l’ortodossia
e le ingerenze clericali. Se la
tolleranza appariva agli occhi di alcuni
protestanti come il presupposto
necessario per il vivere civile, Bayle
maturava sempre più l’idea che le
ingerenze politiche in campo religioso e
viceversa erano pericolose.
Nonostante siano trascorsi tre secoli
dalla sua morte, Bayle – ricco di
contraddizioni – appare oggi più che mai
come il teorico più fecondo nel campo
della tolleranza. Egli giocò un ruolo
primario offrendo ancora oggi una chiave
di lettura illuminante e dissonante:
«Chi legge oggi
Bayle […] non troverà certo una teoria
pronta all’uso per affrontare le sfide
dei nostri giorni, ma può trovare – se
vuole – tutta la ricchezza e la passione
di una grande battaglia intellettuale,
dai cui stessi limiti e contraddizioni
c’è ancora molto da imparare».
La lettura delle opere di Pierre Bayle
può condurci per mano lungo un cammino
di introspezione umano e spirituale.
Egli si “concede” attraverso i suoi
interrogativi umani e filosofici,
facendosi apprezzare per il suo
scetticismo ed i suoi dubbi, ma più di
ogni altra per la sua apertura
all’altro, per la proposta di un’azione
di tolleranza concessa a ogni individuo.
Egli ci insegna a non sentirci detentori
della verità, perché essa abita spesso a
metà strada tra me e l’altro.
Ci insegna che la storia di ogni tempo
ci appartiene come singoli e come
cittadini del mondo.
Ci insegna che anche l’ateo merita la
stessa tolleranza di chi ha avuto il
dono della fede.
Ci insegna che la diffidenza e
l’intolleranza sono sinonimo di ghetto e
generatrici di odio.
Ci insegna che l’altro da noi – con le
sue caratteristiche umane, caratteriali
e religiose – è una ricchezza e mai un
impoverimento.
Ci insegna che le scelte personali
devono includere sempre il rispetto per
la vita altrui.
Ci insegna che non ci può essere
costrizione o imposizione per omologarci
a un modello ritenuto corretto.
Ci insegna che la libertà è il bene più
prezioso: di pensiero, di espressione,
di parola, di fede e anche fisica; ma
per avere la garanzia della libertà non
dobbiamo mai smettere di perseguire la
tolleranza. |