[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 150 / GIUGNO 2020 (CLXXXI)


filosofia & religione

LA TOLLERANZA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA

Pierre Bayle / Parte I

di Simonetta Satornino


Perché oggi si fa un gran parlare di tolleranza? Perché é necessario affrontare il tema della tolleranza, in un tempo come il nostro – digitalizzato e moderno – che però appare spesso poco tollerante? Ogni giorno la stampa riferisce di episodi d’intolleranza che sfociano in una violenza inaudita.  

 

Non c’è ormai studio, nella sterminata letteratura critica sulla tolleranza, che manchi di rilevare l’importanza di questo concetto nel lessico politico moderno e, insieme, il suo significato ambiguo e fluttuante. Oggi leducazione alla tolleranza è un obiettivo irrinunciabile e il cammino verso essa, pur essendo impervio, ha bisogno di cure continue e ci coinvolge come singoli e come cittadini.

 

Ogni giorno sperimentiamo il ruolo di tolleranti e di tollerati, sia nell’ambiente familiare che in quello lavorativo. Dal versante di chi tollera, si sopporta il sopportabile, ciò che si valuta alla fine riconducibile a omologazione: il peccatore che potrà redimersi, il diverso per il quale si prevede una futura trasformazione in eguale, il restio che diventerà docile. La soglia del tollerabile implica così anche quella dell’intollerabile, dell’irrecuperabile.

 

Dal versante di chi teorizza e rivendica tolleranza, la posizione è parimenti equivoca: in modo quasi consapevole, si chiede tolleranza guardando a una mèta che, anche quando la si continua a chiamare così, in essa propriamente non si giunge. Tanti interrogativi possono affiorare nel nostro quotidiano e, seppur retoriche, possiamo rintracciare delle risposte facendo unanalisi del passato storico... ma non solo!

 

Da un punto di vista etimologico, la parola “tolleranza” deriva dal latino tolero, che vuol dire sopporto”, dunque presuppone un atteggiamento passivo. Ma la tolleranza non è stata sempre intesa come apertura all’altro, dunque nella sua accezione attiva?

 

In realtà il termine, nel corso dei secoli, ha subito modificazioni e si è adattato alla storia e ai tempi, risentendo delle vicende chiave dell’Europa moderna assumendo uno spessore semantico e morale che lo vincola sovente al principio della libertà religiosa. Il dibattito intorno al concetto di tolleranza, che ha attraversato lEuropa nel corso dei secoli, è legato ai processi sociali tipici di ogni periodo storico. Prendendo vita da questioni religiose, dunque, la pratica della tolleranza è sempre stata lo strumento cardine per fronteggiare questioni di natura prettamente politica, basata sui rapporti di potere esistenti all’interno di una determinata società in crisi.

 

Il problema storico della “tolleranza”, così com’è stato affrontato in Europa durante il periodo delle guerre di religione – al contempo dai movimenti di eretici e infine da filosofi, come Bayle, Locke, Voltaire e Spinoza – riguarda quasi esclusivamente la convivenza di confessioni religiose diverse, iniziato con la rottura dell’universo religioso cristiano. Oggi, come nel Cinquecento, per riflettere sulla tolleranza dobbiamo soffermarci necessariamente anche sull’analisi dell’intolleranza. Certamente il concetto di tolleranza è stato utilizzato nelle più svariate accezioni, ma soffermiamoci in tale circostanza su degli aspetti prettamente storico-filosofici.

 

In generale, quando si parla di tolleranza nel suo significato storico, ci si riferisce al problema della convivenza. Nel nostro tempo, il termine ha assunto un significato molto più ampio, che include anche il significato di tolleranza religiosa sì, ma non solo: esso abbraccia aspetti che spaziano dal problema della convivenza delle minoranze etniche, linguistiche, razziali, in generale di coloro che si etichettano come i “diversi”, e con le parole di Norberto Bobbio, possiamo affermare che è «come comprensiva di ogni forma di libertà, morale, politica e sociale».

 

Il tollerante considera l’intollerante un fanatico; per contro lintollerante si difende accusando il tollerante di essere uno scettico o un indifferente, un individuo senza convinzioni radicate. La tolleranza, pertanto, può essere considerata l’effetto di uno scambio, di un modus vivendi, di un do ut des, fondato sulla reciprocità. In un’ottica negativa, se ci si attribuisce il diritto di perseguitare gli altri, attribuiamo agli altri il diritto di perseguitarci.

 

Sul piano prettamente morale potremmo definirlo un caso di conflitto tra ragione teoretica e ragione pratica, tra quello in cui credere e quello da fare. Concretamente, si tratta di un conflitto tra due principi morali: la morale della coerenza, che induce a porre la propria verità al di sopra di ogni cosa, e quella del rispetto o della benevolenza verso l’altro. Riconosciamo all’altro il diritto di essere libero di credere e affermare la propria libertà, sia essa religiosa che di opinione, sia legata ai diritti naturali o inviolabili, tipici di uno stato liberale e del suo prolungamento democratico.

 

Accanto a queste considerazioni, di natura prettamente pratica, si possono avanzare considerazioni teoretiche, ovvero dal punto di vista della stessa natura della verità. Per analizzare e tracciare il binomio storico tra tolleranza e intolleranza abbiamo la necessità di costatare, da un lato, luomo nel corso della storia e, dall’altro, la diffusione e l’istituzionalizzazione della dottrina cristiana.

 

Già la cultura antica contemplò forme discriminatorie – ad esempio si parlava di uomo greco, di straniero, di donna e di schiavo –, ma la discriminazione è altra cosa dall’intolleranza. Lo stesso Aristotele considerava la donna essere minore per natura. O i barbari nemici della Repubblica romana, tenuti a debita distanza.

 

Vari Editti hanno segnato – e contrassegnato – la storia dell’umanità: L’Editto di tolleranza, proclamato dall’imperatore Costantino nel 313 a.C. pose fine alle persecuzioni contro i cristiani e li liberò dall’Editto di Diocleziano promulgato nel 312 a.C., concedendo loro piena libertà religiosa e convivenza civile con i pagani; e con l’Editto di Tessalonica, con il quale si sancì l’integrazione tra Chiesa e Stato, che Costantino – in cambio di concessioni politiche a esponenti religiosi – ottenne il controllo assoluto anche in materia dottrinale.

 

In questo contesto, le religioni rivelate furono votate, potremmo dire, ad assumere un atteggiamento d’intolleranza legato alla convinzione di possedere la verità assoluta: il Cristianesimo, tra tutte, non disdegnò assumere un atteggiamento d’intolleranza – nonostante fosse fondata sull’agápe e avesse dato origine alla Chiesa quale depositaria della verità – non disdegnò dall’assumere comportamenti che portassero allo scontro con il potere imperiale stesso. Lintolleranza fu assunta come un atteggiamento necessario affinché la verità non fosse contaminata da mali, come l’eresia, e la persecuzione nei confronti dei dissidenti fu quasi ovvia e – potremmo azzardare – necessaria.

 

Durante il Medioevo, il connubio tra Chiesa e Stato favorì la creazione dell’Inquisizione. Al tempo stesso però trova terreno fertile un possibile seme di tolleranza, almeno in materia intellettuale, assecondando una parvenza di dialogo ecumenico. Uno tra tutti si ricorda Abelardo che, con la sua opera Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, fa emergere, per la prima volta, il concetto di legge naturale con il quale si indicano i principi fondamentali della vita morale, fatta risalire a Dio attraverso un percorso a ritroso che abbraccia tutti i credo confessionali.

 

Tra i secoli XVI e XVII si palesò una vera e propria crisi religiosa e politica nel mondo occidentale. In questo panorama si affermò il protestantesimo che segnò la nascita di una nuova era impregnata di dogmatismo teologico, integralismo tra religioni, che sfociarono in guerre civili; queste ultime quale anticipazione della Riforma. Risposta della Chiesa cattolica alla Riforma fu la Controriforma: in nome del “vero” Vangelo si usò ogni mezzo, anche il più feroce e meno evangelico.

 

La lotta tra Riforma e Controriforma, tra protestantesimo e cattolicesimo, si combatté su basi dottrinali che coinvolsero la giustificazione, secondo cui il peccato insito nell’uomo, negava all’uomo stesso di potersi salvare per i suoi meriti, ma essendo dono di Dio, luomo ad esso si abbandonava.

 

Nella seconda metà del Cinquecento, l’deale di Erasmo da Rotterdam – che aveva proposto le humanæ litteræ – fu solo un lontano ricordo, che lasciò spazio a toni aspri in nome della fede. Filosofi come Bayle, Locke, Voltaire e Spinoza teorizzarono, in questo clima, la libertà di professare religioni diverse, associando il termine “libertà” a quello di “fede”. Dopotutto, il Cinquecento è designato come un secolo turbolento, che vide l’affermarsi della Pace Augustea sancita da Carlo V nel 1555, con la quale cattolici e protestanti affermarono il principio “cuius regio eius religio”.

 

Proprio Bayle tenne a mente il proposito di Erasmo da Rotterdam e tracciò la cosiddetta “via individuale” alla tolleranza, fondata sull’autodeterminazione individuale, che si contrappose alla religione istituzionalizzata voluta dalle autorità ecclesiastiche e statali. L’Editto di Nantes fu il punto di partenza storico e umano per Bayle e il suo pensiero filosofico.

 

Pierre Bayle (1647-1706) fu un pensatore controverso e come lo presenta ai lettori Stefano Brogi – nell’introduzione al Commentario filosofico sulla tolleranza – fu uno dei grandi protagonisti della “Repubblica delle Lettere”, riferimento essenziale per tutto lIlluminismo europeo. È da considerare un apologeta, tra i primi riformati che ruppe l’alleanza tra protestantesimo e razionalismo, e fece dello scetticismo, in campo teologico, un preambulum fidei.

 

Egli si colloca nel processo di rinnovamento che investe il pensiero europeo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, riflettendone interessi e complessità umane e filosofiche. La sua posizione storica e culturale è emblematica: Bayle, infatti, pur confrontandosi in un incessante dialogo con i protagonisti della metafisica moderna, volle spezzare il quadro sistemico della tradizione speculativa, per far emergere in ogni ambito del sapere, impregnato di autonomia, un’istanza di carattere critico e limitativo, volta a circoscrivere i rispettivi “generi di certezza”.

 

Rilevanti per una delineazione – seppur superficiale – dei tratti caratteristici di Bayle sono il contesto culturale in cui visse, spaziando tra il personale e il sociale, che lo indussero a affermare uno scetticismo dirompente che sfociò nella difesa della tolleranza. A tale scopo, la delineazione del nesso storico con gli sviluppi del pensiero moderno – che dall’esperienza dell’Umanesimo e della Riforma, attraverso lo scetticismo libertino, giungono sino alla “filosofia nuova” del Seicento – non poteva essere distaccata dal ritrovamento della struttura concettuale della quale è imperniata l’indagine del filosofo di Rotterdam.

 

Bayle, noto soprattutto per il Dizionario storico-critico, offre – ancora oggi – un contributo importante al dibattito filosofico sei-settecentesco circa le sue teorie incentrate sulla virtù degli atei, sulla necessità, sui pericoli della tolleranza religiosa e sull’impossibilità di una teologia razionale. Egli diede avvio alla sua riflessione spinto dall’educazione ricevuta profondamente impregnata di Calvinismo.

 

Il repentino passaggio da Calvinismo a cattolicesimo e viceversa, implicò un atteggiamento coraggioso nei confronti della vita civile oltre che della discussione religiosa nella Francia di quel periodo tanto controverso. Incarnò tutte le contraddizioni di un secolo segnato da conflitti politici e religiosi, da scoperte scientifiche, da nuovi sistemi filosofici e metafisici.

 

In questo clima variegato e affascinante, Bayle elaborò un atteggiamento notevolmente scettico, rivolto contro ogni dogmatismo, contro ogni pretesa di esaustività. Il Calvinismo apparve come la scelta più giusta e autentica, sia a livello personale sia civile, poiché offriva un giudizio etico e speculativo che portò Bayle ad allontanarsi dai suoi stessi corregionali, costringendosi a un isolamento umano non indifferente.

 

Per Bayle il credo cristiano andava compreso solo se depurato dal paganesimo irrompente. Si parla di Cristianesimo puro, così come lo desideravano i Protestanti luterani, prima, e i Calvinisti, poi.

 

Già in Pensieri diversi, Bayle aveva rilevato quanto lineare e semplice fosse la religione insegnata agli apostoli, che poi, a causa del fervore, fu adornata di elementi inutili e paganeggianti. L’adesione al cristianesimo delle origini doveva essere un atto di ascesi, di totale rinunzia alla mondanità pagana e che le conversioni indotte con la forza non aveva senso.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]