filosofia & religione
LA
TOLLERANZA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA
Pierre Bayle / Parte I
di Simonetta Satornino
Perché oggi si fa un gran parlare di
tolleranza?
Perché é necessario affrontare il
tema della tolleranza, in un tempo come
il nostro – digitalizzato e moderno –
che però appare spesso poco tollerante?
Ogni giorno la stampa riferisce di
episodi d’intolleranza che sfociano in
una
violenza inaudita.
Non c’è ormai studio, nella sterminata
letteratura critica sulla tolleranza,
che manchi di rilevare l’importanza di
questo concetto nel lessico politico
moderno e, insieme, il suo significato
ambiguo e fluttuante. Oggi l’educazione
alla tolleranza è un obiettivo
irrinunciabile e il cammino verso essa,
pur essendo impervio, ha bisogno di cure
continue e ci coinvolge come singoli e
come cittadini.
Ogni giorno sperimentiamo il ruolo di
tolleranti e di tollerati, sia
nell’ambiente familiare che in quello
lavorativo. Dal versante di chi tollera,
si sopporta il sopportabile, ciò che si
valuta alla fine riconducibile a
omologazione: il peccatore che potrà
redimersi, il diverso per il quale si
prevede una futura trasformazione in
eguale, il restio che diventerà docile.
La soglia del tollerabile implica così
anche quella dell’intollerabile,
dell’irrecuperabile.
Dal versante di chi teorizza e rivendica
tolleranza, la posizione è parimenti
equivoca: in modo quasi consapevole, si
chiede tolleranza guardando a una mèta
che, anche quando la si continua a
chiamare così, in essa propriamente non
si giunge. Tanti interrogativi possono
affiorare nel nostro quotidiano e,
seppur retoriche, possiamo rintracciare
delle risposte facendo un’analisi
del passato storico... ma non solo!
Da un punto di vista etimologico, la
parola “tolleranza”
deriva dal latino
tolero, che vuol dire
“sopporto”,
dunque presuppone un atteggiamento
passivo. Ma la tolleranza non è stata
sempre intesa come apertura all’altro,
dunque nella sua accezione attiva?
In realtà il termine, nel corso dei
secoli, ha subito modificazioni e si è
adattato alla storia e ai tempi,
risentendo delle vicende chiave
dell’Europa moderna assumendo uno
spessore semantico e morale che lo
vincola sovente al principio della
libertà religiosa. Il dibattito intorno
al concetto di tolleranza, che ha
attraversato l’Europa
nel corso dei secoli, è legato ai
processi sociali tipici di ogni periodo
storico. Prendendo vita da questioni
religiose, dunque, la pratica della
tolleranza è sempre stata lo strumento
cardine per fronteggiare questioni di
natura prettamente politica, basata sui
rapporti di potere esistenti all’interno
di una determinata società in crisi.
Il problema storico della “tolleranza”,
così com’è stato affrontato in Europa
durante il periodo delle guerre di
religione – al contempo dai movimenti di
eretici e infine da filosofi, come Bayle,
Locke, Voltaire e Spinoza – riguarda
quasi esclusivamente la convivenza di
confessioni religiose diverse, iniziato
con la rottura dell’universo religioso
cristiano. Oggi, come nel Cinquecento,
per riflettere sulla tolleranza dobbiamo
soffermarci necessariamente anche
sull’analisi dell’intolleranza.
Certamente il concetto di tolleranza è
stato utilizzato nelle più svariate
accezioni, ma soffermiamoci in tale
circostanza su degli aspetti prettamente
storico-filosofici.
In generale, quando si parla di
tolleranza nel suo significato storico,
ci si riferisce al problema della
convivenza. Nel nostro tempo, il termine
ha assunto un significato molto più
ampio, che include anche il significato
di tolleranza religiosa sì, ma non solo:
esso abbraccia aspetti che spaziano dal
problema della convivenza delle
minoranze etniche, linguistiche,
razziali, in generale di coloro che si
etichettano come i “diversi”, e con le
parole di Norberto Bobbio, possiamo
affermare che è «come comprensiva di
ogni forma di libertà, morale, politica
e sociale».
Il tollerante considera l’intollerante
un fanatico; per contro l’intollerante
si difende accusando il tollerante di
essere uno scettico o un indifferente,
un individuo senza convinzioni radicate.
La tolleranza, pertanto, può essere
considerata l’effetto di uno scambio, di
un modus
vivendi,
di un do ut des,
fondato sulla reciprocità. In un’ottica
negativa, se ci si attribuisce il
diritto di perseguitare gli altri,
attribuiamo agli altri il diritto di
perseguitarci.
Sul piano prettamente morale potremmo
definirlo un caso di conflitto tra
ragione teoretica e ragione pratica, tra
quello in cui credere e quello da fare.
Concretamente, si tratta di un conflitto
tra due principi morali: la morale della
coerenza, che induce a porre la propria
verità al di sopra di ogni cosa, e
quella del rispetto o della benevolenza
verso l’altro. Riconosciamo all’altro il
diritto di essere libero di credere e
affermare la propria libertà, sia essa
religiosa che di opinione, sia legata ai
diritti naturali o inviolabili, tipici
di uno stato liberale e del suo
prolungamento democratico.
Accanto a queste considerazioni, di
natura prettamente pratica, si possono
avanzare considerazioni teoretiche,
ovvero dal punto di vista della stessa
natura della verità. Per analizzare e
tracciare il binomio storico tra
tolleranza e intolleranza abbiamo la
necessità di costatare, da un lato, l’uomo
nel corso della storia e, dall’altro, la
diffusione e l’istituzionalizzazione
della dottrina cristiana.
Già la cultura antica contemplò forme
discriminatorie – ad esempio si parlava
di uomo greco, di straniero, di donna e
di schiavo –, ma la discriminazione è
altra cosa dall’intolleranza. Lo stesso
Aristotele considerava la donna essere
minore per natura. O i barbari nemici
della Repubblica romana, tenuti a debita
distanza.
Vari Editti hanno segnato – e
contrassegnato – la storia dell’umanità:
L’Editto di tolleranza, proclamato
dall’imperatore Costantino nel 313 a.C.
pose fine alle persecuzioni contro i
cristiani e li liberò dall’Editto di
Diocleziano promulgato nel 312 a.C.,
concedendo loro piena libertà religiosa
e convivenza civile con i pagani; e con
l’Editto di Tessalonica, con il quale si
sancì l’integrazione tra Chiesa e Stato,
che Costantino – in cambio di
concessioni politiche a esponenti
religiosi – ottenne il controllo
assoluto anche in materia dottrinale.
In questo contesto, le religioni
rivelate furono votate, potremmo dire,
ad assumere un atteggiamento
d’intolleranza legato alla convinzione
di possedere la verità assoluta: il
Cristianesimo, tra tutte, non disdegnò
assumere un atteggiamento d’intolleranza
– nonostante fosse fondata sull’agápe
e avesse dato origine alla Chiesa quale
depositaria della verità – non disdegnò
dall’assumere comportamenti che
portassero allo scontro con il potere
imperiale stesso. L’intolleranza
fu assunta come un atteggiamento
necessario affinché la verità non fosse
contaminata da mali, come l’eresia, e la
persecuzione nei confronti dei
dissidenti fu quasi ovvia e – potremmo
azzardare – necessaria.
Durante il Medioevo, il connubio tra
Chiesa e Stato favorì la creazione
dell’Inquisizione. Al tempo stesso però
trova terreno fertile un possibile seme
di tolleranza, almeno in materia
intellettuale, assecondando una parvenza
di dialogo ecumenico. Uno tra tutti si
ricorda Abelardo che, con la sua opera
Dialogo tra un filosofo, un giudeo e
un cristiano, fa emergere, per la
prima volta, il concetto di legge
naturale con il quale si indicano i
principi fondamentali della vita morale,
fatta risalire a Dio attraverso un
percorso a ritroso che abbraccia tutti i
credo confessionali.
Tra i secoli XVI e XVII si palesò una
vera e propria crisi religiosa e
politica nel mondo occidentale. In
questo panorama si affermò il
protestantesimo che segnò la nascita di
una nuova era impregnata di dogmatismo
teologico, integralismo tra religioni,
che sfociarono in guerre civili; queste
ultime quale anticipazione della
Riforma. Risposta della Chiesa cattolica
alla Riforma fu la Controriforma: in
nome del “vero” Vangelo si usò ogni
mezzo, anche il più feroce e meno
evangelico.
La lotta tra Riforma e Controriforma,
tra protestantesimo e cattolicesimo, si
combatté su basi dottrinali che
coinvolsero la giustificazione, secondo
cui il peccato insito nell’uomo, negava
all’uomo stesso di potersi salvare per i
suoi meriti, ma essendo dono di Dio, l’uomo
ad esso si abbandonava.
Nella seconda metà del Cinquecento, l’deale
di Erasmo da Rotterdam – che aveva
proposto le humanæ litteræ – fu
solo un lontano ricordo, che lasciò
spazio a toni aspri in nome della fede.
Filosofi come Bayle, Locke, Voltaire e
Spinoza teorizzarono, in questo clima,
la libertà di professare religioni
diverse, associando il termine “libertà”
a quello di “fede”. Dopotutto, il
Cinquecento è designato come un secolo
turbolento, che vide l’affermarsi della
Pace Augustea sancita da Carlo V nel
1555, con la quale cattolici e
protestanti affermarono il principio “cuius
regio eius religio”.
Proprio Bayle tenne a mente il proposito
di Erasmo da Rotterdam e tracciò la
cosiddetta “via individuale” alla
tolleranza, fondata
sull’autodeterminazione individuale, che
si contrappose alla religione
istituzionalizzata voluta dalle autorità
ecclesiastiche e statali. L’Editto di
Nantes fu il punto di partenza storico e
umano per Bayle e il suo pensiero
filosofico.
Pierre Bayle
(1647-1706) fu
un pensatore controverso e come lo
presenta ai lettori Stefano Brogi –
nell’introduzione al Commentario
filosofico sulla tolleranza – fu uno
dei grandi protagonisti della
“Repubblica delle Lettere”, riferimento
essenziale per tutto l’Illuminismo
europeo. È da considerare un apologeta,
tra i primi riformati che ruppe
l’alleanza tra protestantesimo e
razionalismo, e fece dello scetticismo,
in campo teologico, un preambulum
fidei.
Egli si colloca nel processo di
rinnovamento che investe il pensiero
europeo tra la fine del Seicento e
l’inizio del Settecento, riflettendone
interessi e complessità umane e
filosofiche. La sua posizione storica e
culturale è emblematica: Bayle, infatti,
pur confrontandosi in un incessante
dialogo con i protagonisti della
metafisica moderna, volle spezzare il
quadro sistemico della tradizione
speculativa, per far emergere in ogni
ambito del sapere, impregnato di
autonomia, un’istanza di carattere
critico e limitativo, volta a
circoscrivere i rispettivi “generi di
certezza”.
Rilevanti per una delineazione – seppur
superficiale – dei tratti caratteristici
di Bayle sono il contesto culturale in
cui visse, spaziando tra il personale e
il sociale, che
lo indussero a affermare uno scetticismo
dirompente che sfociò nella difesa della
tolleranza. A tale scopo, la
delineazione del nesso storico con gli
sviluppi del pensiero moderno – che
dall’esperienza dell’Umanesimo e della
Riforma, attraverso lo scetticismo
libertino, giungono sino alla “filosofia
nuova” del Seicento – non poteva essere
distaccata dal ritrovamento della
struttura concettuale della quale è
imperniata l’indagine del filosofo di
Rotterdam.
Bayle, noto soprattutto per il
Dizionario storico-critico, offre –
ancora oggi – un contributo importante
al dibattito filosofico
sei-settecentesco circa le sue teorie
incentrate sulla virtù degli atei, sulla
necessità, sui pericoli della tolleranza
religiosa e sull’impossibilità di una
teologia razionale. Egli diede avvio
alla sua riflessione spinto
dall’educazione ricevuta profondamente
impregnata di Calvinismo.
Il repentino passaggio da Calvinismo a
cattolicesimo e viceversa, implicò un
atteggiamento coraggioso nei confronti
della vita civile oltre che della
discussione religiosa nella Francia di
quel periodo tanto controverso. Incarnò
tutte le contraddizioni di un secolo
segnato da conflitti politici e
religiosi, da scoperte scientifiche, da
nuovi sistemi filosofici e metafisici.
In questo clima variegato e
affascinante, Bayle elaborò un
atteggiamento notevolmente scettico,
rivolto contro ogni dogmatismo, contro
ogni pretesa di esaustività. Il
Calvinismo apparve come la scelta più
giusta e autentica, sia a livello
personale sia civile, poiché offriva un
giudizio etico e speculativo che portò
Bayle ad allontanarsi dai suoi stessi
corregionali, costringendosi a un
isolamento umano non indifferente.
Per Bayle il credo cristiano andava
compreso solo se depurato dal paganesimo
irrompente. Si parla di Cristianesimo
puro, così come lo desideravano i
Protestanti luterani, prima, e i
Calvinisti, poi.
Già in Pensieri diversi, Bayle
aveva rilevato quanto lineare e semplice
fosse la religione insegnata agli
apostoli, che poi, a causa del fervore,
fu adornata di elementi inutili e
paganeggianti. L’adesione al
cristianesimo delle origini doveva
essere un atto di ascesi, di totale
rinunzia alla mondanità pagana e che le
conversioni indotte con la forza non
aveva senso. |