N. 90 - Giugno 2015
(CXXI)
PIERO GOBETTI
il liberale eretico nell’Italia delle "bastonate"
di Gaetano Cellura
La
libertà
– e
ad
altri
in
Italia
non
sembrava
ancora
vero
e
neppure
possibile
–
finì
per
lui
il
giorno
che
i
fascisti
presero
a
bastonarlo,
a
sequestrargli
la
rivista
Rivoluzione
Liberale,
a
impedirgli
di
essere
“editore
ideale”.
O
“editore
giovane”,
come
sarà
definito
in
un
libro
di
Maria
Adelaide
Frabotta
pubblicato
dal
Mulino
nel
1988.
Genio
precoce
e
sacerdote
dell’intransigenza,
Gobetti
ebbe
vita
breve,
come
Corazzini
e
Gozzano,
poeti
crepuscolari
della
sua
epoca.
Morì
giovane,
a 25
anni,
perciò
caro
agli
dei
direbbe
Ceronetti.
Ma
in
quei
pochi
anni
di
vita
notevoli
furono
l’impegno
politico
e la
sua
produzione
pubblicistica.
Primeggiò
al
liceo
diplomandosi
con
un
anno
di
anticipo,
avviò
e
diresse
una
serie
di
riviste
politiche,
da
Energie
Nuove,
a
Rivoluzione
liberale,
a
Elogio
della
ghigliottina,
al
Baretti,
all’Editore
ideale.
Collaborò
all’Unità
di
Salvemini
e
all’Ordine
Nuovo
di
Gramsci.
Scrisse
articoli
di
politica,
filosofia,
letteratura,
arte,
storia,
critica
teatrale
e di
questioni
sociali.
Studiò
il
russo
e lo
tradusse.
Grande
fu
la
sua
ammirazione
per
Lenin
e
Trotskij,
capaci
di
tradurre
la
teoria
politica
in
azione:
“Hanno
destato
un
popolo
–
scrisse
– e
gli
vanno
ricreando
un’anima”.
Si
laureò
in
filosofia
del
diritto
a
Torino
(110
e
lode)
con
una
tesi
sulla
filosofia
politica
di
Vittorio
Alfieri.
Fece
il
servizio
militare
dopo
la
Prima
guerra
mondiale
a
cui
aveva
chiesto
di
partecipare,
appena
uscito
dal
liceo,
per
onorare
la
propria
italianità
e
l’adesione
ai
principi
dell’interventismo
democratico
propugnati
da
Salvemini.
Ma
glielo
impedì
l’armistizio
del
4
novembre
che
alla
guerra
pose
fine.
Nella
vita
militare
vide
la
“consacrazione
di
tutti
gli
egoismi
e di
tutte
le
meschinità”
e
definì
la
caserma
come
“l’antitesi
del
pensiero”.
Coltivò
l’amicizia
di
Einaudi,
suo
professore
di
scienza
delle
finanze
all’università,
di
Salvemini,
di
Giuseppe
Prezzolini,
di
Giustino
Fortunato
e di
Carlo
Levi.
Al
liceo
conosce
Ada
Prospero,
che
sposa
nel
1923.
Deve
molto
a
questa
giovane
donna,
la
“sua
Beatrice”.
Le
deve
il
senso
forte
della
vita
e di
elevazione
morale
che
già
lo
pervade
tra
i
sedici
e i
diciassette
anni.
Piero
Gobetti
era
alto
e
sottile,
disdegnava
l’eleganza
della
persona,
portava
occhiali
a
stanghetta,
da
modesto
studioso:
i
lunghi
capelli
arruffati
dai
riflessi
rossi
gli
ombreggiavano
la
fronte.
È
questa
la
descrizione
di
lui
che
ci
ha
lasciato
Carlo
Levi.
Aveva
avuto
un’infanzia
difficile,
senza
conoscerne
l’idillio,
la
gioia,
e un
po’
vergognandosi
della
propria
povertà,
che
riscattò
con
lo
studio
e
con
l’amore
per
la
filosofia.
Ma
perché
amava
Vittorio
Alfieri,
e
tanto
da
sceglierlo
per
la
sua
tesi
di
laurea?
Perché
per
il
grande
astigiano
la
libertà
è
fonte
di
tutte
le
cose
grandi
realizzate
dagli
uomini.
È
“il
coefficiente
primo
della
personalità:
non
si è
uomini
se
non
si è
liberi”.
Non
si è
cittadini
se
non
si
ha
piena
coscienza
dei
propri
diritti
e se
non
si
pensa
che
il
fatto
politico
include
quello
morale.
Alfieri
non
ammetteva
calcoli:
la
libertà
era
il
suo
Assoluto,
il
suo
Dio.
Quando
Gobetti
pubblicò
il
primo
numero
di
Energie
nuove,
nelle
sue
intenzioni
opera
di
italianità
e di
fresca
cultura,
una
copia
la
mandò
a
Benedetto
Croce
accompagnandola
con
queste
parole:
“Sono
un
giovane
che
non
ha
potuto
non
sentire
l’influenza
Sua
negli
studi”.
Tra
Gentile
e
Croce
aveva
fatto
la
sua
scelta.
Liberale
rivoluzionario
(e
perciò
eretico)
in
un’Italia
che
del
liberalismo
viveva
la
crisi
più
dura,
niente
sfuggiva
della
vita
nazionale
all’attenzione
di
Gobetti.
Il
cattolicismo
come
ossequio
all’autorità.
L’incapacità
italiana
di
capire
che
il
protestantismo
era
stata
“l’ultima
grande
rivoluzione
avvenuta
dopo
il
cristianesimo”.
Il
giolittismo
come
degenerazione
parassitaria
e
corruttiva.
La
mentalità
ancora
settaria
della
massoneria,
il
cui
segreto
non
si
poteva
più
giustificare
come
perseguimento
di
finalità
ideali
o di
mutuo
soccorso
ora
che
apertamente
altre
organizzazioni
perseguivano
gli
stessi
fini.
E
soprattutto
il
fascismo
come
autobiografia
della
nazione,
fenomeno
d’immaturità
storica
ed
economica
che
trova
alimento
nell’arretratezza
dell’Italia,
nel
suo
Risorgimento
incompleto
e
incapace
di
risolvere
la
questione
aperta
sin
dal
1848,
far
del
liberalismo
(diventato,
dopo
Cavour,
trasformismo
e
giolittismo)
il
partito
del
popolo.
Gobetti
guarda
alla
modernità
e la
lega
alle
lotte
operaie,
alla
presa
di
coscienza
–
storica,
sociale,
morale
–
che
emerge
dagli
scioperi,
dalle
fabbriche
occupate:
ci
vede
il
completamento
del
suo
Risorgimento
senza
eroi.
Il
capitalismo
che
vagheggia
non
è
protezionistico,
ma
liberista
e
libertario.
Autonomia
operaia,
superamento
della
filosofia
di
Gentile,
come
del
dannunzianesimo
e
del
futurismo,
riscoperta
dell’insegnamento
di
Cattaneo,
altro
“eretico”
rimosso
dalla
cultura
ufficiale,
adesione
alle
idee
di
Salvemini,
alla
sua
serietà
e al
suo
rigore:
tutto
questo
poteva
fare
dell’Italia
una
moderna
civiltà.
Per
Gobetti,
Mussolini
era
attore
più
che
artista,
tribuno
più
che
statista:
difficile
non
immaginarlo
sotto
le
spoglie
di
un
audace
condottiero
di
compagnie
di
ventura.
Contro
il
fascismo
il
giovane
intellettuale
torinese
propugnava
l’azione.
Scriveva
nella
Rivoluzione
liberale
che
alla
guerra
civile
dei
fascisti
occorreva
rispondere
con
una
guerra
più
aspra,
promossa
unitariamente
dagli
antifascisti,
senza
mezzi
termini.
Bisognava
agire.
Matteotti
era
stato
ucciso,
la
libertà
di
stampa
soppressa.
La
pubblicazione
dell’articolo
Come
combattere
il
fascismo
gli
procura
la
prima
aggressione,
da
cui
più
non
si
riprende.
Gobetti
rifiutava
in
tutti
i
modi
di
ricorrere
a
congiure
e a
compromessi.
Si
sentiva
liberale
europeo
e
voleva
combattere
il
regime
a
viso
aperto.
Ma
comincia
il
sequestro
dei
suoi
giornali.
Nei
Quaderni
della
Rivoluzione
Liberale
pubblica
un
classico
dell’Ottocento,
il
saggio
Sulla
libertà
di
John
Stuart
Mill,
con
prefazione
di
Luigi
Einaudi.
La
rivista
viene
sequestrata
“per
citazioni
tendenziose
di
scrittori
del
passato”.
Gobetti
rimane
in
Italia
finché
gli
è
possibile.
Ma
quando
le
diffide
e le
ingiunzioni
prefettizie
si
fanno
quotidiane,
parte
per
Parigi
con
lo
scopo
di
far
lì
non
il
cospiratore
ma
l’editore
libero,
l’editore
ideale
che
voleva
essere.
Due
giorni
dopo
l’arrivo
nella
capitale
francese,
debilitato
dallo
scompenso
cardiaco
che
l’aveva
colpito
a
Torino,
si
ammala
di
bronchite
e
muore
il
15
febbraio
del
1926.
Salvemini
scrisse
ad
Ada
Prospero
di
aver
perduto
una
radice
della
sua
vita:
“In
lui
mi
sentivo
rivivere
per
le
parti
migliori
della
mia
anima”.
E
nel
carteggio
di
Giustino
Fortunato
si
trovò
una
lettera
in
cui
ringraziava
Iddio
di
morire
senza
figli
e
nipoti
del
suo
nome
in
quest’Italia
feroce.
Quello
stesso
anno,
due
mesi
dopo,
sempre
in
Francia,
nella
clinica
Le
Cassy
Fleur
di
Cannes
muore
il
deputato
Giovanni
Amendola,
il
protagonista
della
secessione
dell’Aventino.
Un
altro
liberale.
Anche
lui
era
stato
bastonato
dai
fascisti
ferocemente.
Anche
lui
era
morto
per
le
conseguenze
di
quelle
bastonate.