[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

166 / OTTOBRE 2021 (CXCVII)


arte

LA DISTORSIONE DELL'ESTETICA
IL PIERCING, TRA LEGGENDE, STORIA E PROVOCAZIONI / II

di Emanuel De Marchis

 

Ripercorrendo la millenaria storia del piercing, dopo aver accennato al caso di Ötzi (vedi articolo precedente), è interessante scoprire come il riferimento a tale pratica sia presente in numerosi testi antichi. Persino nella Bibbia non mancano i paragrafi in cui si fa cenno a persone di ambo i sessi che usavano portare orecchini. Un esempio palese lo si trova nel libro 32 dell’Esodo, dove tra i vari paragrafi leggiamo di Aronne che fuse i suoi gioielli, che aveva alle orecchie, per farne un vitello d’oro per poi donarlo a Dio. Nel Deuteronomio (15:12-17) leggiamo invece di uno schiavo che subiva la perforazione dell’orecchio, portando poi a vita l’orecchino come una simbolica fedeltà al suo padrone. Cercando nella Genesi (24-22), scopriamo inoltre un riferimento al Nostril, ossia il foro al naso, laddove si racconta di un servo di Abramo che venne un giorno mandato a cercare una moglie per il figlio di Isacco, con l’intento di offrirgli un gioiello per adornare il suo naso.

 

Riferimenti biblici a parte, sappiamo che per gli antichi egizi il lobo pirzato era riserbo esclusivo dei faraoni e delle loro mogli. Rimanendo all’antichità, sulle pareti di Persepoli, tra i rari reperti che raccontano la storia dell’impero achemeide e dell’antica Persia, ci sono incisioni (risalenti al V-IV secolo a.C.) che raffigurano uomini adornati sulle orecchie di gioielli di ogni tipo. Andando in avanti nel tempo fino alla Roma di Giulio Cesare (I secolo a.C.), scopriamo che anche qui vi era un’ampia diffusione degli orecchini, e qualcuno tendeva a forarsi anche i capezzoli (lo stesso Cesare aveva un piercing). A ricorrere a tale dolorosa pratica – peraltro generalmente tollerata e apprezzata – erano soprattutto soldati e gladiatori. Il piercing poteva avere anche risvolti pratici: i gladiatori, per evitare di ferirsi durante i combattimenti, applicavano infatti un anello sui genitali, per fissarli poi a una stringa di cuoio, posta poco sopra il pube, in modo che le “parti basse” non si muovessero troppo nel corso degli incontri. Simili espedienti venivano tra l’altro utilizzati già qualche secolo prima dai combattenti greci, durante i giochi olimpici (V-IV secolo a.C.), in cui gli atleti gareggiavano nudi. Successivamente, questa pratica venne utilizzata per evitare rapporti sessuali tra atleti e schiavi.

 

Tra tutti i piercing, quelli ai lobi sono i più sobri e complessivamente “accettati” (tanto che a indossarli è una buona fetta di popolazione odierna e passata), a meno che non si tratti di pratiche che prevedano un marcato allargamento del foro – possibile grazie all’elasticità del lobo stesso – e l’inserimento al suo interno di gioielli di grande diametro e dimensione, come corni, ossi, aculei. Se tale soluzione è biasimata da molti, è però vero che anch’essa ha radici antiche. In molte popolazioni del passato, i lobi venivano infatti stretchati (dall’inglese strech, “allungare”) in modo massiccio e allargati con degli appositi coni.

 

Nel mondo atzeco e in quello di altri popoli precolombiani, i guerrieri usavano spesso dilatarsi una membrana all’interno del setto nasale, molto sottile, a costo di poco dolore e di un sicuro impatto scenico per i nemici. Tra le varie tradizioni locali, vi era poi quella di allargare i lobi delle orecchie e inserirvi particolari monili per dichiarare di appartenere a una certa tribù (tale pratica rispondeva peraltro anche a un piacere estetico, all’oscura vanità del guerriero). In molti hanno quindi usato i piercing per intimidire, altri come ostentazione di vanità, ricchezza e bellezza. In età elisabettiana (XVI secolo), per esempio, il lobo forato divenne un gioiello tipicamente maschile, tanto che anche William Shakespeare ne sfoggiava uno. Tra i marinai dell’epoca, si credeva inoltre che forare i lobi aumentasse la vista, cosa assai utile per la vita in mare. Non solo: il gioiello, in base al suo valore, poteva divenire un buon modo per pagarsi un eventuale sepoltura dignitosa in caso di morte sulla nave.

 

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Profusione di piercing sul volto di un guerriero precolombiano (dal film Apocalypto)

 

Un ricco campionario di pratiche connesse al piercing lo si trova in Indonesia, dove si è conservato il ricordo di antiche tradizioni, risalenti a un tempo in cui le orecchie venivano per esempio bucate per motivi “magici”. Le tribù indigene delle isole indonesiane credevano infatti che il gioiello proteggesse gli uomini da forze oscure. Essi usavano quindi dilatarsi i lobi per far entrare nel corpo energie benefiche, corredandolo nel frattempo, in vari punti, con ogni genere di piercing il cui valore era prettamente estetico. Molti guerrieri, nel solo spazio tra labbro e naso, arrivavano a contare più di una dozzina di buchi con annessi gioielli. Spostandoci nel Borneo, è interessante scoprire come tutt’ora si usino forare entrambi i lobi a tutti i ragazzi, come rito iniziatico. Nello specifico, la madre e il padre perforano un lobo ciascuno, per simboleggiare la dipendenza della propria prole nei riguardi dei genitori. In India, invece, la foratura dei lobi si pratica alle bambine già sotto i cinque anni di età, mentre i buchi al naso sono associati a cure “ayurvediche” (da Ayurveda, antica medicina indiana). In particolare, vengono apposti degli orecchini alla narice sinistra della bambina. Una pratica che in occidente è addirittura spesso vietata, basti pensare che la Comunità Europea non permette ai giovani al di sotto dei sedici anni di forarsi o tatuarsi. Sempre in India, perlomeno in alcune regioni, si crede che le donne in gravidanza possano ricavare dei benefici indossando dei piercing, mentre in Europa (e non solo) i medici consigliano di liberarsene sia durante l'attesa sia nel corso dell’allattamento.

 

Precauzioni mediche a parte, quel che è certo è che, oggi, in epoca di globalizzazione, molte tradizioni culturali legati ai piercing sono finite nel dimenticatoio, e sempre più spazio ha invece assunto il valore estetico di tale pratica, specchio della creatività umana, strumento per “esorcizzare” il dolore e per rapportarsi con la versatilità dell’estetica “distorta” dei nostri corpi.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]