arte
LA DISTORSIONE DELL'ESTETICA
IL PIERCING, TRA LEGGENDE, STORIA E
PROVOCAZIONI / II
di Emanuel De Marchis
Ripercorrendo la millenaria storia del
piercing, dopo aver accennato al caso di
Ötzi (vedi articolo precedente),
è interessante scoprire come il
riferimento a tale pratica sia presente
in numerosi testi antichi. Persino nella
Bibbia non mancano i paragrafi in
cui si fa cenno a persone di ambo i
sessi che usavano portare orecchini. Un
esempio palese lo si trova nel libro 32
dell’Esodo, dove tra i vari
paragrafi leggiamo di Aronne che fuse i
suoi gioielli, che aveva alle orecchie,
per farne un vitello d’oro per poi
donarlo a Dio. Nel Deuteronomio
(15:12-17) leggiamo invece di uno
schiavo che subiva la perforazione
dell’orecchio, portando poi a vita
l’orecchino come una simbolica fedeltà
al suo padrone. Cercando nella Genesi
(24-22), scopriamo inoltre un
riferimento al Nostril, ossia il foro al
naso, laddove si racconta di un servo di
Abramo che venne un giorno
mandato a cercare una moglie per il
figlio di Isacco, con l’intento di
offrirgli un gioiello per adornare il
suo naso.
Riferimenti biblici a parte, sappiamo
che per gli antichi egizi il lobo
pirzato era riserbo esclusivo dei
faraoni e delle loro mogli. Rimanendo
all’antichità, sulle pareti di
Persepoli, tra i rari reperti che
raccontano la storia dell’impero
achemeide e dell’antica Persia, ci sono
incisioni (risalenti al V-IV secolo
a.C.) che raffigurano uomini adornati
sulle orecchie di gioielli di ogni tipo.
Andando in avanti nel tempo fino alla
Roma di Giulio Cesare (I secolo
a.C.), scopriamo che anche qui vi era
un’ampia diffusione degli orecchini, e
qualcuno tendeva a forarsi anche i
capezzoli (lo stesso Cesare aveva un
piercing). A ricorrere a tale dolorosa
pratica – peraltro generalmente
tollerata e apprezzata – erano
soprattutto soldati e
gladiatori. Il piercing poteva avere
anche risvolti pratici: i gladiatori,
per evitare di ferirsi durante i
combattimenti, applicavano infatti un
anello sui genitali, per fissarli poi a
una stringa di cuoio, posta poco sopra
il pube, in modo che le “parti basse”
non si muovessero troppo nel corso degli
incontri. Simili espedienti venivano tra
l’altro utilizzati già qualche secolo
prima dai combattenti greci, durante i
giochi olimpici (V-IV secolo a.C.), in
cui gli atleti gareggiavano nudi.
Successivamente, questa pratica venne
utilizzata per evitare rapporti sessuali
tra atleti e schiavi.
Tra tutti i piercing, quelli ai lobi
sono i più sobri e complessivamente
“accettati” (tanto che a indossarli è
una buona fetta di popolazione odierna e
passata), a meno che non si tratti di
pratiche che prevedano un marcato
allargamento del foro – possibile grazie
all’elasticità del lobo stesso – e
l’inserimento al suo interno di gioielli
di grande diametro e dimensione, come
corni, ossi, aculei. Se tale soluzione è
biasimata da molti, è però vero che
anch’essa ha radici antiche. In molte
popolazioni del passato, i lobi venivano
infatti stretchati (dall’inglese
strech, “allungare”) in modo
massiccio e allargati con degli appositi
coni.
Nel mondo atzeco e in quello di
altri popoli precolombiani, i guerrieri
usavano spesso dilatarsi una membrana
all’interno del setto nasale, molto
sottile, a costo di poco dolore e di un
sicuro impatto scenico per i nemici. Tra
le varie tradizioni locali, vi era poi
quella di allargare i lobi delle
orecchie e inserirvi particolari monili
per dichiarare di appartenere a una
certa tribù (tale pratica rispondeva
peraltro anche a un piacere estetico,
all’oscura vanità del guerriero). In
molti hanno quindi usato i piercing per
intimidire, altri come ostentazione di
vanità, ricchezza e bellezza. In età
elisabettiana (XVI secolo), per esempio,
il lobo forato divenne un gioiello
tipicamente maschile, tanto che anche
William Shakespeare ne sfoggiava
uno. Tra i marinai dell’epoca, si
credeva inoltre che forare i lobi
aumentasse la vista, cosa assai utile
per la vita in mare. Non solo: il
gioiello, in base al suo valore, poteva
divenire un buon modo per pagarsi un
eventuale sepoltura dignitosa in caso di
morte sulla nave.
.
Profusione di piercing sul volto di un
guerriero precolombiano (dal film
Apocalypto)
Un ricco campionario di pratiche
connesse al piercing lo si trova in
Indonesia, dove si è conservato il
ricordo di antiche tradizioni, risalenti
a un tempo in cui le orecchie venivano
per esempio bucate per motivi “magici”.
Le tribù indigene delle isole
indonesiane credevano infatti che il
gioiello proteggesse gli uomini da forze
oscure. Essi usavano quindi dilatarsi i
lobi per far entrare nel corpo
energie benefiche, corredandolo nel
frattempo, in vari punti, con ogni
genere di piercing il cui valore era
prettamente estetico. Molti guerrieri,
nel solo spazio tra labbro e naso,
arrivavano a contare più di una dozzina
di buchi con annessi gioielli.
Spostandoci nel Borneo, è interessante
scoprire come tutt’ora si usino forare
entrambi i lobi a tutti i ragazzi, come
rito iniziatico. Nello specifico,
la madre e il padre perforano un lobo
ciascuno, per simboleggiare la
dipendenza della propria prole nei
riguardi dei genitori. In India,
invece, la foratura dei lobi si pratica
alle bambine già sotto i cinque anni di
età, mentre i buchi al naso sono
associati a cure “ayurvediche” (da
Ayurveda, antica medicina indiana). In
particolare, vengono apposti degli
orecchini alla narice sinistra della
bambina. Una pratica che in occidente è
addirittura spesso vietata, basti
pensare che la Comunità Europea non
permette ai giovani al di sotto dei
sedici anni di forarsi o tatuarsi.
Sempre in India, perlomeno in alcune
regioni, si crede che le donne in
gravidanza possano ricavare dei
benefici indossando dei piercing, mentre
in Europa (e non solo) i medici
consigliano di liberarsene sia durante
l'attesa sia nel corso
dell’allattamento.
Precauzioni mediche a parte, quel che è
certo è che, oggi, in epoca di
globalizzazione, molte tradizioni
culturali legati ai piercing sono finite
nel dimenticatoio, e sempre più spazio
ha invece assunto il valore estetico
di tale pratica, specchio della
creatività umana, strumento per
“esorcizzare” il dolore e per
rapportarsi con la versatilità
dell’estetica “distorta” dei nostri
corpi. |