N. 54 - Giugno 2012
(LXXXV)
giovanni pico della mirandola
la dignità dell'uomo
di Dalia Fortini
Chi
era
Giovanni
Pico
della
Mirandola?
Si
faceva
chiamare
il
Conte
lui,
ed
era
un
uomo
curioso,
così
lo
si
descriveva,
perché
dedito
a
ogni
tipo
di
studio,
grande
conoscitore
di
lingue.
Era
la
fine
del
1400,
la
Firenze
dell’epoca
vedeva
il
grande
Lorenzo
dei
Medici
a
farle
da
padrone,
e le
attività
culturali
nella
sua
Toscana
erano
in
fermento,
esplodevano
quasi,
vista
la
passione
del
Magnifico
per
ogni
tipo
di
espressione
culturale.
Il
giovane
Pico
era
proprio
in
quella
corte
che
approfondiva
i
suoi
studi
e
sin
da
ragazzino
aveva
dimostrato
una
grande
passione
per
le
lettere.
Muore
giovane
a
trentuno
anni,
ma
ha
lasciato
opere
di
difficile
lettura,
dimostrando
un
sapere
sconcertante
non
solo
per
gli
uomini
suoi
contemporanei,
ma
anche
per
le
generazioni
future.
Si
vociferava,
vista
la
sua
morte
prematura
così
improbabile,
che
fosse
stato
avvelenato
da
un
suo
segretario.
Probabilmente
la
supposizione
non
è
così
inverosimile.
Come
lui
in
quel
periodo
muoiono
inspiegabilmente
altri
uomini
di
grande
importanza:
due
anni
prima
Lorenzo
dei
Medici,
nello
stesso
anno
Angelo
Poliziano,
entrambi
per
presunto
avvelenamento.
La
situazione
a
Firenze
era
tesa
non
solo
politicamente,
ma
anche
intellettualmente:
da
una
parte
Marsilio
Ficino,
dall’altra
Angelo
Poliziano.
Neoplatonico
uno,
aristotelico
l’altro.
Non
c’è
pace
nella
città
per
le
contese
intellettuali,
che
a
volte
si
scontrano
anche
a
colpi
di
spade
metaforiche
e
ironiche.
Pico,
però,
consapevole
della
contesa,
non
si
schiera
né a
favore
dell’uno
né
dell’altro.
Tutt’altro,
viene
considerato,
oggi
come
all’epoca,
un
grande
fautore
della
pace
e
della
concordia.
I
contemporanei
amano
credere
che
fosse
una
sorta
di
sincretista;
come
metteva
insieme
religioni,
così
faceva
con
le
dottrine.
Era
un
uomo
rispettato,
Pico
della
Mirandola,
anche
da
persone
che
si
combattevano
strenuamente
per
dimostrare
la
supremazia
di
un
pensiero
piuttosto
che
di
un
altro.
Sapevano,
avevano
capito,
la
levatura
di
un
personaggio
simile,
che
aveva
sempre
tentato
di
mitigare
le
contese.
Ed è
probabilmente
per
questo
che
aveva
scritto
il
De
ente
et
uno,
dove
aveva
cercato
di
dimostrare
come
il
pensiero
filosofico
di
Aristotele
e
Platone
non
fossero
poi
così
agli
antipodi
come
Ficino
e
Poliziano
credevano.
Pico
era
un
fervente
cristiano
che
amava
conoscere
anche
culture
religiose
diverse
dalla
propria:
la
tradizione
di
Ermete
Trimegisto
ad
esempio,
ma
anche
la
cabala
ebraica.
Di
lui
ci
rimangono
poesie,
ma
non
molte
rispetto
a
quelle
che
aveva
scritto.
Questo
perché
dopo
averle
raccolte,
preso
dal
ribrezzo
verso
i
suoi
scritti
ancora
immaturi
e
giovanili
non
all’altezza
del
suo
tempo,
aveva
deciso
di
gettarle
tra
le
fiamme.
Così
aveva
fatto
e
oggi
ci
rimane
poco
della
sua
grande
produzione
in
volgare.
Tuttavia
si
capisce
la
profondità
dell’animo
dell’adolescente,
attratto
dall’amore,
dalla
passione
che
tanto
rifiuta.
Non
voleva
soffrire
per
amore,
e
non
capiva
il
motivo
per
cui
un
sentimento
simile
dovesse
fare
tanto
male.
Se
la
prendeva
con
la
sorte
il
giovane,
intimando
agli
uomini
di
non
affidarsi
alla
fortuna,
un
atteggiamento
da
stolti
e
ignoranti,
ma
impegnarsi
invece
per
riuscire
con
le
proprie
forte
e la
grazia
di
Dio.
Giovanni
Pico
infatti
non
dimentica
mai
Dio
e
spesso
nelle
sue
righe
si
legge
il
desiderio
di
affidarsi
alla
divinità
in
cui
tanto
crede
e
che
ringrazia
per
i
doni
ricevuti.
C’è
qualcosa
che
però
stupisce
del
suo
pensiero,
ed è
la
sua
idea
dell’essere
umano.
Pico
pone
al
centro
della
sua
filosofia
l’uomo
in
quanto
tale,
la
creatura
prediletta
di
Dio,
persino
sopra
gli
angeli.
E
sembra
fare
una
sorta
di
fenomenologia
dell’uomo,
sottolineandone
le
grandi
potenzialità,
ma
ancora
di
più
la
grande
responsabilità
che
l’essere
umano
ha
perché
libero.
Responsabilità
prima
di
tutto
nei
confronti
di
se
stesso.
Non
è
nuovo
qualche
accenno
alla
dignità
umana,
ma
in
modo
così
esplicito,
nessuno
prima
di
Pico
ne
aveva
mai
parlato.
Chi
è
l’uomo?
«[...]
Non
ti
ho
fatto
né
celeste
né
terreno,
né
mortale
né
immortale,
perché
di
te
stesso
quasi
libero
e
sovrano
artefice
ti
plasmassi
e ti
scolpissi
nella
forma
che
avresti
prescelto.
Tu
potrai
degenerare
nelle
cose
inferiori
che
sono
i
bruti;
tu
potrai,
secondo
il
tuo
volere,
rigenerarti
nelle
cose
superiori
che
sono
divine.
[...]
Nell'uomo
nascente
il
Padre
ripose
semi
d'ogni
specie
e
germi
d'ogni
vita».
L’uomo
è un
essere
senza
forma,
mutevole
come
un
camaleonte.
Ed è
data
a
lui
la
scelta
di
essere
ciò
che
vuole:
se
come
un
angelo
o
come
un
animale
quello
lo
può
decidere
soltanto
lui.
Nessuno,
nemmeno
Dio,
obietterà
mai
alla
scelta
che
l’uomo
farà
per
se
stesso.
Mentre
gli
animali
vivono
un
totale
determinismo,
dovuto
agli
istinti,
e ai
legami
che
li
tengono
ancorati
al
loro
essere
inevitabilmente
creature
senza
fini,
l’essere
umano
ha
il
totale
controllo
su
se
stesso
e
può
decidere
se
fare
o
meno
del
bene
o
del
male.
Niente
gli
è
precluso,
né
la
santità
né
la
bestialità.
L’Oratio
de
hominis
dignitate
si
presenta
così
come
un’apologia
della
dignità
dell’uomo,
superiore
per
libertà
e
per
scopo
a
qualsiasi
altro
essere
vivente:
«Non
ti
ho
dato,
o
Adamo,
né
un
posto
determinato,
né
un
aspetto
proprio,
né
alcuna
prerogativa
tua,
perché
[...]
tutto
secondo
il
tuo
desiderio
e il
tuo
consiglio
ottenga
e
conservi».