N. 39 - Marzo 2011
(LXX)
Il Piano Marshall
la “ricostruzione” europea
di Lorenzo Tacconi
Al
termine
della
guerra
la
situazione
generale
dell'Europa
sembrava
avvantaggiare
il
comunismo:
la
disperazione
facilitava
la
diffusione
di
idee
socialiste
e i
partiti
di
sinistra
predominavano
in
tutti
i
fronti
antifascisti.
La
speranza
di
creare
un
baluardo
contro
l'espansione
sovietica
verso
Occidente
cadde
assieme
al
crollo
dell'Impero
Britannico.
Il
Piano
Marshall,
garantendo
la
ripresa
e la
stabilità
dei
governi,
arginò
l'impeto
delle
sinistre
e
scongiurò
qualsiasi
tentativo
espansionistico
da
parte
di
Mosca.
Secondo
D.W.
Ellwood
(1994)
la
minaccia
di
una
diffusione
del
comunismo
su
tutto
il
continente
va
ridimensionata.
L'Unione
Sovietica,
più
che
intenzionata
ad
espandersi
verso
Occidente,
si
proponeva
di
rafforzare
il
proprio
controllo
sull'Europa
orientale
per
motivi
difensivi,
mentre
per
quanto
riguarda
i
partiti
comunisti
questi
non
erano
realmente
intenzionati
a
dar
vita
ad
un'insurrezione
armata:
gli
avvenimenti
greci
del
1944,
in
cui
le
truppe
inglesi
avevano
soffocato
le
forze
comuniste,
avevano
altresì
rafforzato
in
tutti
i
leader
degli
schieramenti
di
sinistra
la
convinzione
dell'impossibilità
di
un
esito
vittorioso
della
rivoluzione.
Se è
vero
inoltre
che
nel
dopoguerra
i
partiti
comunisti
occidentali
avevano
aumentato
notevolmente
i
propri
consensi
(soprattutto
in
Francia
e
Italia),
è
vero
anche
che
i
partiti
comunisti
furono
battuti
alle
elezioni
del
'46
dai
rivali
partiti
socialisti
(ad
eccezione
della
Francia),
e
dovettero
ovunque
fare
i
conti
con
la
rinata
forza
di
massa
dei
partiti
cristiano-democratici.
La
minaccia
rivoluzionaria
era
quindi
minore
rispetto
ai
timori
americani.
Nel
dopoguerra
i
partiti
comunisti,
inoltre,
consideravano
prioritaria
la
necessità
di
continuare
la
collaborazione
con
tutte
le
altre
forze
antifasciste
al
fine
di
riconvertire
al
più
presto
l'economia
e
introdurre
libere
elezioni.
In
Italia
“il
PCI
e la
CGIL
furono
le
forze
più
efficaci
nel
frenare
l'impulso
insurrezionale
nelle
fabbriche
e
nel
favorire
la
smobilitazione
degli
organi
politici
della
Resistenza”;
gli
scioperi
furono
soltanto
“esplosioni
spontanee
della
massa
dei
lavoratori
contro
l'ozio
forzato
e
contro
la
situazione
generale”
(D.W.
Ellwood
1994,
59).
Nel
caso
poi
della
Francia
fu
il
governo
a
sfruttare
la
paura
del
comunismo
per
ottenere
aiuti
economici
dagli
americani.
La
delegazione
capeggiata
da
Léon
Blum
e
Jean
Monnet,
che
nella
primavera
del
1946
si
recò
a
Washington,
agitò
lo
spettro
del
comunismo
per
ottenere
dal
Congresso
un
credito
di
650
milioni
di
dollari,
a
cui
si
aggiungevano
550
milioni
che
la
Francia
aveva
ottenuto
pochi
mesi
prima
della
Export-Import
Bank.
I
capitali
americani
furono
comunque
essenziali
nel
mantenere
la
stabilità
politica:
i
finanziamenti
del
Piano
Marshall
consentirono
ai
governi
europei
di
evitare,
a
causa
della
carenza
di
moneta,
politiche
economiche
austere,
scongiurando
così
possibili
tensioni
sociali
dovute
a
eventuali
compressioni
di
salari
e
consumi
(F.
Romero,
2009).
L'impegno
americano
nel
contrastare
l'influenza
sovietica
in
Europa
e i
consensi
ai
partiti
comunisti
occidentali
incrementò
con
lo
sviluppo
della
logica
bipolare
e
l'escalation
della
guerra
fredda.
Nel
corso
del
'46
le
relazioni
diplomatiche
con
l'URSS
peggiorarono
drasticamente:
portare
avanti
la
cooperazione
alleata
era
diventato
sempre
più
difficile
dopo
la
fine
del
nazi-fascismo;
le
due
superpotenze
avevano
inoltre
idee
diverse
sulle
politiche
da
attuare
nei
territori
occupati
e
soprattutto
non
vi
era
accordo
sul
futuro
della
Germania.
Nel
marzo
del
'47
Truman
sostenne
davanti
al
Congresso
la
necessità
di
“aiutare
i
popoli
liberi
a
mantenere
le
loro
libere
istituzioni
e la
loro
integrità
nazionale
di
fronte
ai
movimenti
aggressivi
che
cercavano
di
imporre
loro
un
regime
totalitario”.
Esemplificative
e
chiare
delle
intenzioni
americane
furono
le
conclusioni
del
discorso:
“Il
germe
del
totalitarismo
è
alimentato
dalla
sofferenza
e
dalla
miseria.
Si
diffonde
e
cresce
nel
cattivo
terreno
della
povertà
e
della
discordia.
Raggiunge
la
piena
crescita
quando
nel
popolo
la
speranza
di
una
vita
migliore
è
morta.
Noi
(americani)
dobbiamo
tenere
in
vita
questa
speranza”
(Testo
in
DAFR,
vol.
IX,
1947,
p.
650).
Fu
il
generale
Marshall
ad
annunciare,
il 5
giugno
'47
ad
Harvard,
il
ricorso
ad
uno
speciale
programma
di
aiuti,
della
durata
di
quattro
anni,
per
favorire
la
ricostruzione
e la
ripresa
in
Europa;
l'ERP
fu
proposto
alla
Conferenza
di
Parigi
(luglio
'47)
e fu
accettato
da
16
paesi.
Nella
loro
relazione
finale
gli
stati
partecipanti
chiesero
un
finanziamento
di
19
miliardi
di
dollari,
mentre
il
Congresso
americano
approvò
lo
stanziamento
di 5
miliardi
per
il
primo
anno,
proponendosi
di
stabilire
via
via
le
quote
successive.
Attraverso
una
scommessa
calcolata
il
Piano
fu
proposto
anche
all'URSS,
ma
Stalin
non
accettò.
La
rinascita
della
Germania
e il
suo
inserimento
in
un
sistema
di
pianificazione
continentale
era
un
obiettivo
inammissibile
per
i
sovietici.
L'URSS
si
ritirò
così
dalla
Conferenza
di
Parigi,
costringendo
i
paesi
satelliti
a
fare
altrettanto,
e
nel
settembre
del
'47
creò
il
Cominform.
La
sovietizzazione
dei
paesi
dell'Europa
orientale,
il
cui
atto
culminante
fu
il
colpo
di
stato
di
Praga
del
1948,
fu
completata
di
lì a
poco.
Secondo
M.P.
Leffler
(2010)
l'effetto
immediato
dell'ERP
fu
proprio
quello
di
acuire
la
“scissione
dell'Europa”,
rendendo
più
stringente
il
controllo
sovietico
sul
blocco
orientale.
Per
W.I.
Hitchcock
(2010)
invece
i
paesi
occidentali
si
erano
già
da
tempo
convinti
che
la
divisione
del
continente
fosse
ormai
irreversibile,
e
sia
gli
inglesi
che
i
francesi
chiesero
insistentemente
agli
Stati
Uniti
di
mantenere
la
propria
presenza
in
Europa,
timorosi
di
ritrovarsi
i
sovietici
alle
porte.
Quello
che
è
certo
è
che
il
Piano
Marsahll
segnò
un
punto
di
non
ritorno:
l'URSS,
interpretando
l'ERP
come
un'offensiva
americana
per
l'egemonia
economica
e
strategica,
irrigidì
la
propria
linea
politica,
ordinò
ai
partiti
comunisti
occidentali
di
iniziare
una
campagna
di
propaganda
contro
gli
aiuti
americani
e
denunciò
la
riforma
monetaria
del
'48
come
una
violazione
degli
accordi
di
guerra;
il
“blocco
di
Berlino”
fu
la
disperata
reazione
sovietica
contro
l'imminente
nascita
di
un
nuovo
stato
tedesco
autonomo
e
integrato
nel
blocco
occidentale.
Dietro
alla
decisione
di
erogare
sovvenzioni
all'Europa
gli
Stati
Uniti,
oltre
a
motivazioni
morali
e
valutazioni
politiche,
celarono
anche
un
calcolo
economico:
l'economia
americana
aveva
bisogno
di
partner
commerciali
e
mercati
in
cui
esportare
i
propri
prodotti
per
continuare
l'espansione
del
tempo
di
guerra.
L'Europa
rappresentava,
in
questo
senso
un
potenziale
immenso.
C.
Keyder
(1985)
parla
non
a
caso
di
“keynesismo
internazionale”
per
indicare
come
i
fondi
americani,
attraverso
la
mediazione
dello
stato
nazionale,
dovevano
servire
ad
allargare
la
domanda
e
aumentare
il
potere
d'acquisto
dei
paesi
europei,
agevolando
così
le
esportazioni
americane.
Il
Piano
Marshall
conteneva
anche
l'ambizione
a
lungo
termine
di
integrare
l'economia
europea
in
un'unica
area
di
libero
scambio,
arrivando
a
introdurre
nel
Vecchio
continente
un
sistema
federale
simile
a
quello
americano.
Un'ambizione
questa
che
andava
oltre
il
contenimento
del
comunismo.
“La
tendenza
astratta,
wilsoniana,
rooseveltiana,
ad
applicare
la
soluzione
originale
statunitense
ai
problemi
mondiali
di
conflitto
e di
sviluppo
si
era
lasciata
alle
spalle
le
utopie
delle
Nazioni
Unite
e di
Bretton
Woods
e
aveva
trovato
ora
una
nuova
incarnazione
nel
Piano
Marshall”
(D.W.
Ellwood,
1994,
130).
All'obiettivo
dell'integrazione
europea
si
frapponevano
tuttavia
diversi
ostacoli,
primi
fra
tutti
l'opposizione
della
Francia
alla
ripresa
tedesca
e la
volontà
di
ciascuno
stato
di
non
cedere
parte
della
propria
sovranità
economica
ad
un
organismo
internazionale.
L'Inghilterra
era
in
prima
fila
in
questa
battaglia:
si
rifiutava
di
attuare
modifiche
all'area
della
sterlina,
impedendo
la
possibilità
di
costruire
un
nuovo
sistema
di
pagamenti
europei
che
avrebbe
inserito
anche
la
Germania
in
nuova
rete
commerciale,
e
soprattutto
si
ostinava
a
non
riconoscere
l'autorità
dell'OECE.
Il
Piano
Marshall,
incrementando
le
esportazioni
intraeuroepe
tre
il
'48
e il
'50,
creò
comunque
una
situazione
di
fatto
che
rese
più
vicino
il
Mercato
comune.
Allo
stesso
tempo
l'opera
di
Monnet
e il
Piano
Schuman
favorirono
la
riconciliazione
franco-tedesca
e
anticiparono
la
nascita
della
CECA
(luglio
1952).
La
comunità
economica
europea
doveva
essere
completata
da
un
patto
di
mutua
difesa.
Il
Piano
Marshall
diede
quindi
l'impulso
alla
creazione
di
piani
per
la
sicurezza
dell'Occidente.
Fu
Bevin
a
convincere
il
Congresso
che
senza
la
partecipazione
americana
qualsiasi
sistema
di
sicurezza
sarebbe
stato
un
guscio
vuoto.
Nell'aprile
del
'49
nacque
così
la
NATO.
La
Guerra
di
Corea
rappresentò
un
punto
di
svolta,
decretando
la
fine
anticipata
del
Piano
Marshall.
Gli
aiuti
americani
da
sostenere
la
crescita
economica
furono
destinati
a
finanziare
le
spese
militari.
Secondo
M.
Hogan
(1987)
ciò
non
rallentò
il
cammino
di
sviluppo
intrapreso
dai
paesi
europei
perché
le
spese
per
la
difesa
stimolarono
la
produzione
industriale.
L'enorme
quantità
di
reddito
destinata
al
riarmo,
assieme
agli
alti
prezzi
dei
beni
importati,
produssero
anche
un
processo
inflattivo
che
erose
la
bilancia
commerciale
dell'intera
Europa
Gli
Stati
Uniti
per
rafforzare
il
contenimento
disposero
il
riarmo
della
Germania
e la
sua
integrazione
nella
NATO
ma i
paesi
europei
si
opposero.
L'integrazione
militare
dell'Europa,
resa
ancor
più
urgente
dall'intensificarsi
della
guerra
fredda,
fu
rimandata
fino
al
1955
perché
i
secolari
timori
di
Francia
e
Inghilterra
e la
loro
tradizionale
rivalità
verso
la
Germania
non
si
erano
ancora
placati.
La
costruzione
di
un
Europa
unita
è
stato
un
cammino
lungo
e
tortuoso,
reso
ancora
più
difficile
dalla
persistenza
di
interessi
particolari
da
parte
di
ciascuno
stato.
Dai
progetti
globali
ai
piani
per
l'Occidente
Per
gli
Stati
Uniti
era
chiaro
che
la
futura
stabilità
mondiale
dipendeva
sia
dalla
diffusione
di
regimi
democratici,
sia
da
obiettivi
economici,
quali
la
creazione
di
condizioni
internazionali
di
benessere
e
prosperità
diffuse,
migliori
condizioni
di
vita
e
alti
tassi
di
occupazione
a
livello
globale.
Nella
stessa
Carta
Atlantica
(agosto
1941)
vennero
indicati
futuri
obiettivi
economici:
nell'Articolo
5 i
paesi
firmatari
si
proposero
di
“realizzare
la
piena
collaborazione
tra
tutte
le
nazioni
nel
campo
economico,
con
lo
scopo
di
assicurare
a
tutti
un
miglioramento
nelle
condizioni
di
lavoro,
il
progresso
economico
e la
sicurezza
sociale”.Tanta
era
la
convinzione
e
l’ambizione
in
questo
senso
che
l’esperienza
del
New
Deal
doveva
essere
esportata
addirittura
in
tutto
il
mondo.
E
l'Europa
era
pronta
a
risorgere
su
basi
nuove.
A
Ginevra
nel
1944
i
rappresentati
dei
movimenti
di
Resistenza
di
mezza
Europa
firmarono
un
documento
che
prevedeva
la
riorganizzazione
delle
relazioni
internazionali
nel
senso
del
federalismo
e di
una
maggiore
collaborazione
economica.
In
particolare
le
costituzioni
del
dopoguerra
di
Francia,
Italia
e
Germania
occidentale
riconobbero
la
necessità
di
limitare
la
sovranità
nazionale
per
consentire
la
nascita
di
organismi
sovranazionali
in
grado
di
disciplinare
i
rapporti
tra
gli
stati,
favorire
lo
sviluppo
comune
e
preservare
la
pace.
Come
spiega
D.W.
Ellwood
gli
stati
europei
si
apprestavano
a
introdurre
un
“un
compromesso
tra
l'indipendenza
nazionale
e
l'interdipendenza
economica”
(D.W.
Ellwood
1994,
35).
Un
primo
passo
in
questo
senso
fu
compiuto
nel
luglio
del
1944
quando
i
paesi
alleati
istituirono
con
gli
accordi
di
Bretton
Woods
il
Fondo
monetario
internazionale
e la
Banca
mondiale
per
promuovere
la
liberalizzazione
commerciale
e
valutaria.
Le
forze
politiche
che
stavano
per
salire
al
governo
in
Europa
erano
accomunate
anche
dalla
volontà
di
modernizzare
le
strutture
produttive.
Il
rapporto
Alphand
del
1941
e il
successivo
piano
Monnet
furono
ispirati
proprio
dall'idea
di
introdurre
elementi
di
modernizzazione
nell'economia
francese.
Anche
in
Belgio,
Olanda
e
Danimarca
furono
elaborati,
nella
fase
conclusiva
della
guerra,
piani
per
la
nazionalizzazione
e lo
sviluppo.
“In
Europa”,
scrive
D.W.
Ellwood,
“le
persone
che
si
apprestavano
ad
esercitare
il
potere
dopo
la
guerra
avevano
elaborato
un
ordine
del
giorno
comune:
evitare
gli
errori
del
passato;
pianificazione;
welfare
state;
modernizzazione”
(D.W.
Ellwood
1994,
28)
In
Italia
invece
la
situazione
era
in
controtendenza
rispetto
alla
maggior
parte
dei
paesi
europei:
davanti
alle
macerie
della
guerra
tra
gli
uomini
politici
prevaleva
la
convinzione
dell'inutilità
di
piani
per
lo
sviluppo.
La
tendenza
attendista
dei
gruppi
dirigenti
deriva,
tra
l'altro,
anche
dal
ripudio
verso
l'insistente
retorica
fascista
sulla
modernizzazione
e
“contro
il
pesante
apparato
di
enti
statali,
organizzazioni
e
sistemi
di
protezione
che
sembravano
inseparabili
da
essa”
(D.W.
Ellwood
1994,
29).
Anche
il
PCI
che
sosteneva
la
necessità
di
una
riforma
strutturale
dell'economia,
intendeva
la
modernizzazione
solo
come
superamento
dell'autarchia
fascista
e
dei
monopoli
industriali.
Al
termine
della
guerra
la
situazione
dell'Europa
era
indicibilmente
grave,
e
ogni
piano
progettato
per
l'integrazione
e lo
sviluppo
dovette
essere
abbandonato
davanti
a un
dramma
così
vasto.
La
popolazione
civile
era
ridotta
alla
fame,
le
vie
di
comunicazione
e i
trasporti
avevano
subito
danni
incalcolabili,
gli
scambi
tra
la
città
e la
campagna
si
erano
interrotti,
il
denaro
aveva
perso
il
suo
potere
d'acquisto
e a
ogni
angolo
fiorivano
mercati
neri.
Il
commercio
triangolare
tra
gli
stati
Europei
e le
colonie
si
era
spezzato
e la
possibilità
di
importare
in
Europa
materie
prime
e
rifornimenti
dall'estero
era
pregiudicata
dalla
mancanza
di
dollari
(“dollar
gap”);
in
tutto
il
continente
inoltre
mancava
il
carbone
e le
tensioni
sociali
sembravano
sul
punto
di
esplodere.
Ovunque
si
susseguivano
scioperi
a
ripetizione,
saccheggi
ai
panifici
e
assedi
alle
prefetture
per
protestare
contro
il
razionamento
e la
mancanza
di
lavoro.
Dei
complessi
piani
di
modernizzazione
non
rimase
traccia
alla
fine
del
'46
e i
controlli
del
tempo
di
guerra
furono
mantenuti
anche
dopo
la
fine
del
conflitto.
“Il
futuro
dell'Europa”,
commenta
D.W.
Ellwood,
“non
era
mai
sembrato
tanto
lontano:
gli
ambiziosi
progetti
di
riforma
dovevano
essere
accantonati,
e il
miglioramento
del
tenore
di
vita
e
l'unificazione
europea
sembravano
ora
sogni
lontani
e
irrealizzabili”
(D.W. Ellwood 1994, 48).
Le
stesse
istituzioni
internazionali
che
dovevano
sorreggere
il
nuovo
ordine
mondiale
entrarono
in
crisi
nel
'47:
la
Banca
mondiale,
la
Import-Export
Bank
e il
Fondo
monetario
internazionale
non
riuscirono
a
superare
difficoltà
strutturali
e a
finanziare
la
ricostruzione.
Nessuna
potenza,
compresi
gli
Stati
Uniti,
era
inoltre
pronta
ad
affidare
la
sicurezza
nazionale
al
voto
di
maggioranza
delle
Nazioni
Unite.
Con
lo
sviluppo
della
Guerra
Fredda
gli
Stati
Uniti
abbandonarono
gli
ambiziosi
progetti
del
tempo
di
guerra
e si
limitarono
a
garantire
lo
sviluppo
e la
sicurezza
dell'Occidente.
La
stabilità
dell'Europa
era
però
impossibile
senza
la
ripresa
della
Germania:
il
Piano
Marshall
pose
così
le
basi
per
riavviare
l'economia
tedesca
e
per
la
creazione
di
uno
stato
autonomo
nella
parte
occidentale.
La
fusione
della
zona
di
occupazione
americana
con
quella
inglese
(Bi-zona)
si
era
resa
ancor
più
necessaria
visto
il
crollo
economico
della
Gran
Bretagna
e il
suo
stallo
nella
politica
tedesca.
I
progetti
americani
di
creare
delle
istituzioni
sovranazionali,
a
imitazione
della
propria
struttura
federale,
e
l'unificazione
del
mercato
europeo
vennero
ristrette
all'Occidente,
al
meno
fin
quando
l'“orso
sovietico”
non
sarebbe
stato
abbattuto.
“L'universalismo
da
New
Deal”,
scrive
D.W.
Ellwood,
“fu
ridimensionato
per
aderire
a
una
nuova
e
più
circoscritta
visione
del
mondo,
suddivisa
in
blocchi
regionali”(D.W.
Ellwood
1994,
114).
W.I.
Hitchoch
(2010)
parla
non
a
caso
di
“Cration
of
the
West”
per
indicare
il
fatto
che
l'ERP
non
solo
favorì
l'integrazione
economica
e
pose
le
base
per
una
futura
Europa
politicamente
unita,
ma
contribuì
anche
alla
diffuse
di
stili
di
vita,
aspettative
e
modelli
comportamentali
comuni,
trasformando
l'Occidente
in
uno
schieramento
economico
coeso,
un'alleanza
politica
e un
sistema
di
valori
condivisi.
L'impatto
del
Piano
Marshall
sull'economia
europea
Alla
Conferenza
di
Parigi
W.
Clayton
cercò
di
convincere
i
paesi
europei
ad
accettare
un
piano
di
ricostruzione
collettivo
che
garantisse
la
libertà
di
commercio
e
l'integrazione
europea.
Gli
aiuti
americani
furono
però
utilizzati
da
ciascun
governo
in
base
alle
esigenze
nazionali,
prestando
poca
attenzione
alle
proposte
di
spesa
dei
consiglieri
americani.
Sugli
obiettivi
collettivi
del
Piano
Marshll
e
sulla
collaborazione
tra
i
paesi
prevalsero
gli
interessi
particolari
degli
stati
e le
vie
nazionali.
“Gli
europei”,
commenta
M.
Hogan,
“si
rifiutarono
di
impegnarsi
in
una
programmazione
congiunta
o di
adattare
i
piani
nazionali
di
produzione
ai
bisogni
dell'Europa”
(M.
Hogan
1987,
55)
In
Francia
i
finanziamenti
americani
furono
utilizzati
per
sostenere
il
Piano
Monnet,
per
coprire
il
debito
nazionale,
aggravato
dalla
mancanza
di
un
sistema
fiscale
efficiente,
e
soprattutto
per
comprare
materie
prime
e
macchinari
industriali
per
far
ripartire
la
produzione.
Gli
obiettivi
di
modernizzazione
furono
perseguiti
all'interno
di
una
strategia
di
pianificazione
centrale,
resa
possibile
grazie
alla
nazionalizzazione
dei
settori
chiave
dell'economia.
A
partire
dal
'50
gli
investimenti
pubblici
iniziarono
poi
a
diminuire
in
modo
da
favorire
la
ripresa
dell'iniziativa
privata
e il
ritorno
all'economia
di
mercato.
In
Gran
Bretagna
i
fondi
ERP
furono
destinati
per
il
30%
all'acquisto
di
materie
prime
e
prodotti
alimentari,
mentre
il
resto
fu
utilizzato
per
ripianare
il
debito
nazionale.
Il
partito
laburista
edificò
un
poderoso
sistema
di
welfare
state,
ma
la
fragile
economia
britannica
non
riuscì
a
sorreggerlo
per
molto.
La
pianificazione
economica,
a
differenza
della
Francia,
fu
considerata
un
mezzo
per
garantire
la
sicurezza
e la
stabilità
sociale
piuttosto
che
la
modernizzazione
della
produzione.
In
Italia
la
Democrazia
cristiana
prese
le
distanze
dalle
politiche
stataliste
del
periodo
fascista
e il
governo
non
investì
grandi
somme
nello
sviluppo
economico,
contribuendo
così
ad
aumentare
la
disoccupazione
e a
rallentare
la
crescita.
Luigi
Einaudi
cercò
di
far
quadrare
il
bilancio
dello
stato
e il
deficit
commerciale
tagliando
la
spesa
pubblica
e
rafforzando
la
moneta.
Secondo
W.I.
Hitchock
(2010)
il
Piano
Marshall
non
servì
a
salvare
il
paese
dalla
crisi:
i
finanziamenti
americani
furono
consistenti
(577
milioni
di
dollari
in
totale)
ma
non
furono
investiti
nell'aumento
della
produzione.
Secondo
J.L.
Harper,
la
classe
politica
italiana,
espressione
di
interessi
disparati
e
contraddittori,
era
decisa
ad
assumere
il
controllo
degli
aiuti
esterni
a
vantaggio
delle
rispettive
clientele,
rafforzando
il
proprio
controllo
sullo
Stato.
La
coalizione
di
governo,
capeggiata
dalla
democrazia
cristiana,
“fu
incapace
di
progettare
un
coerente
programma
di
sviluppo
e
riforme
sociali
(J.L.
Harper
1987,
306).
In
Germania
nel
'48
iniziò
il
“miracolo
economico”:
la
produzione
triplicò,
la
disoccupazione
scese
dal
10%
a
meno
di
un
quarto,
le
esportazioni
sestuplicarono,
mentre
il
PIL
crebbe
ad
un
tasso
medio
del
7,9%
annuo.
Gli
storici
divergono
sulle
cause
alla
base
di
tale
sviluppo:
per
alcuni
la
ripresa
iniziò
con
la
riforma
monetaria
e fu
sostenuta
grazie
agli
aiuti
americani;
per
altri
invece
i
finanziamenti
esterni
non
furono
decisivi
e la
produzione
decollò
prima
dell'introduzione
del
Deutsche-Mark.
Secondo
W.
Abelshauser
(1982)
solo
il
5%
degli
impianti
industriali
era
andato
distrutto
durante
la
guerra
e
una
volta
che
il
governo
militare
ristabilì
il
sistema
dei
trasporti
e
provvide
ai
rifornimenti
di
carbone
le
industrie
si
rimisero
in
moto.
D.W.
Ellwood
(D.W.
Ellwood
1994)
sostiene
al
contrario
che
fu
riforma
monetaria
a
far
decollare
gli
investimenti
e a
stabilizzare
l'economia
Ad
oggi
gli
storici
dibattono
se
il
Piano
Marshall
fu
indispensabile
a
far
uscire
i
paesi
dalla
crisi
o se
una
tendenza
alla
ripresa
era
già
presente
in
Europa.
Secondo
A.
Milward
(1984)
alla
fine
del
'47
Francia
e
Inghilterra
avevano
già
superato
i
livelli
di
produzione
antecedenti
alla
guerra,
mentre
Italia,
Belgio
e
Olanda
si
apprestavano
a
raggiungere
tale
traguardo
entro
la
fine
dell'anno
successivo.
Quando
i
fondi
americani
arrivarono
in
Europa
la
produzione
era
in
buona
parte
già
riavviata.
Il
Piano
Marshall
fu
quindi
fondamentale
non
per
far
ripartire
le
industrie
ma
per
superare
il
deficit
di
dollari,
permettendo
così
di
importare
materie
prime
e
permettere
all'Europa
di
proseguire
il
lungo
cammino
di
espansione
che
durò
fino
agli
anni
'60.
C.
Maier
(1981)
sostiene
al
contrario
che
senza
un
programma
di
aiuti
l'economia
europea
non
si
sarebbe
risollevata:
il
denaro
degli
Stati
Uniti
fu
come
il
lubrificante
di
un
motore
che
altrimenti
si
sarebbe
inceppato.
Gli
storici
non
concordano
nemmeno
su
chi
abbia
trainato
la
ripresa.
Per
Milward
(1984)
furono
gli
investimenti
privati
e
non
le
politiche
keynesiane
dei
governi
a
guidare
il
rinnovamento
economico.
Secondo
D.W.
Ellwood
(1994)
senza
gli
aiuti
americani
non
si
sarebbe
ricreato
quel
clima
di
fiducia
che
permise
ai
privati
di
tornare
a
investire.
Secondo
M.M.
Postan
(1967)
il
Piano
Marshall
fu
“il
prodotto
di
una
strategia
e
cultura
della
crescita”:
“strategia”
perché
l'introduzione
nel
Vecchio
Continente
del
modello
economico
americano
basato
sullo
sviluppo
continuo
avrebbe
consentito
di
vincere
la
competizione
con
il
sistema
sovietico,
e
“cultura”
perché
nel
dopoguerra
la
crescita
economica
era
diventata
un
credo
universale,
una
comune
aspettativa
di
tutti
i
popoli
europei.
C.
Maier
(1981)
sostiene
che
la
“crescita
economica”
era
il
concetto
chiave
che
ispirò
la
politica
americana
in
Europa.
Gli
Stati
Uniti
erano
convinti
che
la
solo
lo
sviluppo
economico
avrebbe
reso
possibile
stabilizzare
le
democrazie
liberali
e
instaurare
un'“egemonia
consensuale”.
La
crescita
di
redditi,
consumi
e
occupazione
avrebbe
permesso
di
creare
un
modello
di
società
in
cui
i
rapporti
antagonistici
tra
le
classi
sarebbero
stati
riconciliati.
Tuttavia
l'idea
della
“crescita”
dovette
in
Europa
mediare
e
accordarsi
con
le
particolari
condizioni
di
“capitalismo
di
welfare
state”,
estranee
agli
Stati
Uniti.
Conclusioni
Dare
un
giudizio
netto
e
complessivo
sui
risultati
del
Piano
Marshall
non
è
certo
semplice.
Secondo
i
calcoli
e le
previsioni
degli
Stati
Uniti
l'ERP
avrebbe
dovuto
produrre
risultati
immediati:
aumentare
di
colpo
la
produzione,
risolvere
i
problemi
dei
trasporti,
degli
alloggi,
dell'energia,
dell'industria,
e
arginare
i
voti
a
partiti
comunisti.
Tuttavia
alcuni
di
questi
obiettivi
furono
raggiunti
solo
parzialmente
e
altri
dovettero
essere
rinviati.
L'obiettivo
della
piena
occupazione,
promosso
durante
la
guerra,
non
si
realizzò.
La
disoccupazione
continuò
a
persistere
soprattutto
nel
settore
agricolo,
e il
divario
tra
l'Europa
nord-occidentale,
con
carenza
di
manodopera
diffusa,
e i
paesi
del
Mediterraneo,
dove
invece
la
disoccupazione
era
incrementata
rispetto
all'anteguerra,
aumentò
notevolmente.
Con
l'espansione
della
produzione
industriale
i
beni
di
consumo
tornarono
gradualmente
in
circolazione,
ma i
viveri
e
gli
alloggi
rimasero
un
grave
problema
fin
dopo
l'inizio
degli
anni
'50.
Le
politiche
economiche
espansionistiche,
messe
in
atto
da
governi
alla
ricerca
di
legittimità
e
consenso,
ebbero
come
conseguenza
immediata
quella
di
innescare
processi
inflattivi.
Mentre
in
Germania
la
riforma
monetaria
consentì
l'attuazione
di
una
riforma
fiscale
che
avvantaggiò
soprattutto
i
ricchi,
aumentando
la
sperequazione
sociale
(D.W.
Ellwood
1994,
183-185).
Alla
fine
del
'49
il
volume
complessivo
del
commercio
degli
stati
membri
dell'ERP
ritornò
ai
livelli
precedenti
alla
guerra,
e vi
fu
anche
un
aumento
del
50%
degli
scambi
intraeuropei
rispetto
ai
due
anni
precedenti.
Tuttavia
le
esportazioni
verso
gli
Stati
Uniti
si
ridussero:
nel
'49
i
paesi
occidentali
esportarono
oltreoceano
beni
per
un
valore
di
1,5
miliardi
di
dollari,
mentre
le
esportazioni
statunitensi
in
Europa
superarono
i 4
miliardi,
causando
un
disavanzo
nelle
bilance
dei
pagamenti
e
allontanando
la
possibilità
di
ripristinare
l'equilibrio
commerciale
con
l'area
del
dollaro.
Da
un
punto
di
vista
economico
gli
aiuti
americani
consentirono
di
garantire
e
puntellare
la
ripresa
in
Europa,
ma
non
riuscirono
ad
assicurare
la
stabilità
finanziaria,
l'equilibrio
nella
bilancia
dei
pagamenti
e la
fine
dell'inflazione.
Questi
erano
però
obiettivi
al
di
fuori
della
portata
del
Piano
Marshall
e
non
risolvibili
nell'arco
di
tre
o
quattro
anni,
senza
imporre
sacrifici
insostenibili
per
la
popolazione
europea.
Gli
sforzi
per
ripristinare
la
stabilità
finanziaria
furono
inoltre
annullati
dall'aumento
delle
spese
militari
dopo
lo
scoppio
della
guerra
di
Corea.
Per
quanto
riguarda
il
crollo
dei
consensi
ai
partiti
di
sinistra
questo
non
ci
fu:
se è
vero
che
furono
cacciati
dai
governi,
questi
mantennero
lo
stesso
un
forte
radicamento
nella
società.
Soltanto
nel
'56,
dopo
l'appoggio
dato
all'invasione
dell'Ungheria,
i
partiti
comunisti
persero
numerosi
consensi
in
Francia
e
Italia.
Per
contrastare
il
comunismo
gli
Stati
Uniti
non
rinunciarono
a
ingerire
pesantemente
negli
affari
interni
degli
altri
paesi.
In
Italia,
durante
la
campagna
elettorale
del
'48,
fu
mobilitato
un
poderoso
apparato
propagandistico
e
furono
predisposti
piani
per
un
eventuale
sbarco
in
Sicilia
e
Sardegna.
Il
20
marzo
Marshall
ammonì
che
nel
caso
di
vittoria
del
Fronte
Popolare
i
finanziamenti
sarebbero
stati
sospesi;
il
futuro
di
Trieste
sarebbe
anch'esso
dipeso
dell'esito
elettorale
(P.
Ginsborg
1989,
153).
La
politica
americana
verso
l'Italia,
secondo
J.L.
Harper,
registrò
comunque
un
innegabile
successo:
“la
generosità
materiale
e la
presenza
militare
degli
Stati
Uniti
consentirono
di
evitare
il
crollo
politico
e il
caos
economico
verificatosi
dopo
la
prima
guerra
mondiale”
(J.L.
Harper
1987,
308).
Gli
aiuti
americani
furono
parte
integrante
della
logica
del
conteniment
e
della
“Dottrina
Truman”,
ma
attraverso
il
Piano
Marshall
gli
Stati
Uniti
dimostrarono
di
essere
l'unica
potenza
in
grado
di
assumersi
i
costi
e le
responsabilità
della
ricostruzione
e
della
difficile
realizzazione
di
un
nuovo
ordine
mondiale.
Il
Piano
Marshall
terminò
in
un
momento
in
cui
l'economia
europea
era
travagliata
dall'inflazione
e
dal
deficit
di
bilancio,
ma
gli
aiuti
ERP
contribuirono
lo
stesso
a
porre
le
basi
per
il
boom
degli
anni
'50.
In
un
decennio
le
nazioni
distrutte
dalla
guerra
rivoluzionarono
consumi
e
produzione,
avvicinandosi
all'American
way
of
life.
I
beni
di
consumo,
dagli
elettrodomestici
alle
automobili
alle
televisioni,
si
diffusero
infatti
presso
ogni
famiglia,
i
ceti
medi
si
irrobustirono
grazie
allo
sviluppo
di
attività
finanziarie
e
dei
servizi,
e
l'ottimismo
crebbe
parallelamente
assieme
alla
patina
di
benessere
che
ricoprì
il
continente.
Secondo
R.
Aron,
l'ERP
ebbe
anche
un
effetto
psicologico
sulla
popolazione
civile,
perché
contribuì
a
restaurare
un
senso
di
fiducia
e
speranza
nell'avvenire:
il
nuovo
clima
di
solidarietà
creò
un'occasione
senza
precedenti
per
realizzare
ciò
che
per
secoli
era
stato
il
sogno
dei
filosofi
e
che
ora
era
un'imperiosa
necessità
della
storia:
l'unità
dell'Europa.
Per
quanto
riguarda
il
ruolo
dall'OECE
bisogna
considerare
che
se
anche
non
riuscì
a
diventare
il
governo
economico
dell'Europa
e se
le
svalutazioni
del
'49,
attuate
senza
la
sua
consultazione,
annullarono
ogni
piano
previsto
per
ripianare
i
deficit
degli
stati,
dopo
il
declino
di
Bretton
Woods
e
dell'ONU
si
era
creato,
scrive
Ellwood,
“un
vuoto
nella
gestione
dei
rapporti
economici
internazionali
che
l'OECE
contribuì
a
colmare,
fungendo
da
punto
di
incontro
per
gli
scambi
tra
gli
esperti
sulle
tendenze,
i
problemi
e le
strategie”
(D.W.
Ellwood
1994,
212)
Al
di
là
quindi
dell'impatto
che
il
Piano
Marshall
ha
avuto
sull'economia
europea
nell'immediato,
il
suo
significato
storico
è
quello
di
aver
rappresentato
la
prima
tappa
verso
la
costruzione
di
una
consolidata
comunità
di
idee,
di
legami
economici
e di
sicurezza
tra
i
paesi
europei,
e
tra
questi
e
gli
Stati
Uniti.