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N. 57 - Settembre 2012 (LXXXVIII)

Il petroliere senza petrolio
A PROPOSITO DI ENRICO MATTEI

di Gaetano Cellura

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Se la domanda è: era in difficoltà, in grosse difficoltà economiche e politiche l’Eni alla vigilia della morte del suo presidente? La risposta non può essere altra: sì e no. Una risposta che dice tutto e il suo contrario.

 

L’ente di Stato aveva con i fornitori debiti per 229 miliardi di lire dovuti ai massicci investimenti in oleodotti e raffinerie, ma nei confronti delle banche era esposto in misura minore rispetto al passato e aveva profitti che sfioravano i 50 miliardi annui.

 

Certo, c’era per Enrico Mattei il peso insostenibile dei tre miliardi annui di passivo del quotidiano Il Giorno, la cui vendita aveva proposto ad Angelo Rizzoli; c’erano la decisione della Banca d’Italia di Guido Carli di tagliargli i fidi, e del Comitato interministeriale del credito di negargli l’autorizzazione a emettere nuovi prestiti obbligazionari; e c’erano un mondo politico che cominciava a essere stanco della sua megalomania e del suo populismo e un quadro internazionale in cui si ritrovava sempre più isolato. La stessa Urss, dopo averlo sostenuto e fatto affari con l’Eni, aveva preso le distanze da lui. La Francia e gli Stati Uniti gli erano ostili: per il petrolio algerino e per i suoi rapporti con i sovietici.

 

Il fratello di Enrico Mattei, Italo, racconta di un burrascoso incontro tra il presidente dell’Eni, poco prima della morte, e Fanfani, allora presidente del Consiglio. Fanfani gli riferisce di essersi incontrato con Kennedy, il quale aveva chiesto al governo italiano conto e ragione della politica petrolifera dell’Eni e della scelta di Mattei di acquistare petrolio sovietico.

 

Dopo pesanti battute con Fanfani, Mattei sarebbe andato via minacciandolo di togliergli il sostegno politico e di appoggiare Aldo Moro. Ebbene, lo scenario internazionale, i tagli di risorse, gli intrighi e i tradimenti correntizi influirono sì sulla sua politica industriale, ma non al punto di indebolirlo e di farlo sentire in particolari difficoltà rispetto al passato. Erano cose che facevano parte del gioco politico e del limite su cui da tempo pericolosamente si muoveva.

 

Enrico Mattei, il Petroliere senza petrolio come lo chiamavano, allora aveva ancora alcune carte da giocarsi: il petrolio in Libia e i promettenti pozzi nel Sinai. E poi le mire politiche, niente affatto quelle di un uomo in difficoltà. Certo, non escludeva la possibilità di essere fatto fuori, ucciso. Ma anche questo rientrava nel gioco. E nella sfida coraggiosa che aveva lanciato al mondo: la via italiana al petrolio.

 

A cosa mirava realmente il presidente dell’Eni? Ad andare a pescar trote, il suo passatempo preferito, dopo aver dato all’Italia il petrolio? No, Mattei aspirava alla presidenza della Repubblica. Il mandato di Segni sarebbe scaduto nel 1969, se non si fosse dimesso prima, e lui voleva succedergli. Le cose andarono diversamente.

 

Il presidente dell’Eni morì nella marcita di Bascapè, o in volo prima di finirvi. Saragat prese il posto di Segni al Quirinale nel 1964. E nel 1969, invece di Mattei presidente della Repubblica, l’Italia ebbe Piazza Fontana. Probabilmente con il Cartello petrolifero avrebbe trattato. Sarebbe stato costretto a trattare.

 

Avrebbe magari raggiunto un armistizio. Ma non alle condizioni in cui trattarono i successori, tutti privi della sua vitalità. Sia l’ingegnere Girotti che Eugenio Cefis (indicato da Segni, Fanfani e Moro) seguirono le indicazioni della politica. Liquidare cioè la linea Mattei, ristabilire la subalternità totale dell’Italia agli Usa e dell’Eni alle grandi compagnie, non produttore ma raffinatore di petrolio.

 

L’incidente aereo in cui Mattei perse la vita – per errore umano, guasto meccanico o sabotaggio – ha un solo testimone oculare, Mario Ronchi. Che dice (intervista a Franco Di Bella, Corriere della Sera del 28 ottobre 1962): “Il cielo era rosso, bruciava come un grande falò e le fiamme scendevano tutt’intorno. Sulle prime ho pensato a un incendio, poi ho capito che doveva trattarsi di un aeroplano. Si era incendiato, e i pezzi stavano cadendo ora sui prati sotto l’acqua”.

 

Successivamente il testimone non solo modifica la versione, ma nega d’aver visto la scena. Scrive Giorgio Galli, autore del saggio La sfida perduta da cui prende spunto questa nota: con la morte di Mattei “il giallo” entra nel sistema politico italiano. Comincia la ridda dei testimoni che cambiano opinione, delle prove che scompaiono, dei servizi di sicurezza che non funzionano o fanno il contrario di quello che dovrebbero fare.

 

L’aereo di Mattei, partito da Catania nel pomeriggio del 27 ottobre 1962, precipita a Bascapè. Era un Saulnier 706 e lo guidava un pilota esperto, il capitano Irneo Bertuzzi che era stato ufficiale aereo siluratore della Repubblica di Salò. Il giorno dopo il ministro della Difesa Giulio Andreotti (ostile a Cefis ma non certo ammiratore di Mattei) nomina una commissione d’inchiesta che conclude il proprio lavoro nel marzo del 1963 ritenendo possibile un errore del pilota dovuto a malore.

 

Italo Mattei, lontanissimo dal prendere per buona una simile affrettata insufficiente conclusione, presenta denuncia contro ignoti per il sabotaggio dell’aereo con cui viaggiava il fratello. Denuncia archiviata nel 1966 dal giudice istruttore di Pavia Antonio Borghese. Per quasi dieci anni sulla morte di Mattei cala il silenzio. Il prezzo del petrolio scende. L’Italia non mostra problemi energetici.

 

Ma cosa era venuto a fare in Sicilia il Petroliere senza petrolio nell’autunno del ’62? Perché la sua visita, prevista per il pomeriggio del 27, era stata anticipata? È vero che il presidente della Regione Siciliana Giuseppe D’Angelo stava per imbarcarsi con lui e che all’ultimo momento cambiò idea? (Dopo la morte di Mattei, visto anche il mutato interesse per la Sicilia dei nuovi dirigenti dell’Eni, D’Angelo nomina Graziano Verzotto presidente dell’Ente minerario siciliano.) Chi sapeva di tutti i suoi movimenti?

 

È vero che un infiltrato dei servizi segreti francesi lavorava all’Eni e che si sarebbe poi trasferito a Catania dove trova un lavoro proprio all’aeroporto? Ed è stato lui, ricevuto l’ordine: procedere, a salire non visto sull’aereo di Mattei e a poterne, come racconterà Gaetano De Sanctis, sconnettere e rimettere “a posto in modo differente parte dei cavi della strumentazione” e dopo che il capitano Bertuzzi ne era stato allontanato con un pretesto? Ufficialmente il Presidente era venuto per far visita allo stabilimento di Gela e alla popolazione di Gagliano dove doveva nascere un impianto dell’Eni.

 

Ma tante altre voci corrono. Si diceva che doveva incontrare degli emissari libici in procinto di preparare un colpo di stato nel loro paese. Si diceva che, fatto tappa in Sicilia, avrebbe proseguito per l’Algeria, per chiudere accordi importanti con Ben Bella. Sta di fatto, quale sia stato lo scopo del suo viaggio, che se è vera la tesi del sabotaggio del suo aereo all’aeroporto di Catania, chi ha agito l’ha potuto fare indisturbato per mancanza di controlli.

 

Che invece dovevano essere massicci. E nessuna inchiesta ha mai chiarito perché non lo siano stati. Trattandosi di una personalità esposta a minacce e a rischio di attentati come quello cui era scampato l’8 gennaio dello stesso anno.

 

Quando, proprio secondo un comunicato dell’Eni, un cacciavite “era stato fissato con un nastro adesivo alla parete interna del tubo che avvolge il motore” e che, se non fosse stato scoperto, avrebbe potuto provocare l’esplosione dell’aereo. Tutto tace, dunque sulla morte di Mattei. Tutto tace fino al 1970, quando Cefis punta alla conquista della Montedison. Ministro delle Partecipazioni statali è Giorgio Bo.

 

A quel punto riesplode il “dramma di Bascapè”. Chi ostacola l’ascesa di Cefis – scrive Giorgio Galli – solleva dubbi sulla morte di Mattei; chi la favorisce non vuole che si riapre il discorso. Iniziano le campagne di stampa di Pisanò su Candido e di Tedeschi sul Borghese.

Il primo osteggia Cefis; il secondo lo sostiene. Si parla di collegamenti tra trame mafiose e trame nere. Nuovi libri vengono pubblicati, come L’assassinio di Enrico Mattei di Bellini e Previdi, Questo è Cefis – L’altra faccia dell’onorato presidente, di uno sconosciuto Giorgio Steinmetz, libro scomparso dopo pochi giorni dalle librerie, Delitto al potere di Riccardo De Sanctis. Alleanze politiche s’annodano e si sciolgono.

 

E c’è un titolo di Panorama molto chiaro: Chi ha ucciso Mattei? Intanto, il regista Francesco Rosi chiede a Bellini e Previdi di collaborare al film Il caso Mattei e incarica il giornalista dell’Ora di Palermo, Mauro De Mauro, di completarne la sceneggiatura. Ma a questo punto inizia un’altra storia: quella della sparizione di Mauro De Mauro il 16 settembre del 1970 e del suo cadavere mai ritrovato. Anche qui un crogiolo di ipotesi (mafia, trame nere, colpi di stato mancati, massonerie deviate); di depistaggi e di false testimonianze.

 

Nel 2011, quarantuno anni dopo, la Corte d’Assisi di Palermo, ritenendo insufficienti le accuse dei pentiti, assolve Totò Riina come mandante della morte del giornalista dell’Ora. “È una vergogna – reagisce la figlia, Franca De Mauro, comprensibilmente turbata dalla lettura della sentenza. – È una vergogna perché ritenevo, dopo la requisitoria dei pubblici ministeri (Ingroia e Demontis, NdA) e le dichiarazioni di alcuni collaboratori, che ci fossero le condizioni per arrivare a una conclusione diversa”. Lavorando per il film di Rosi, De Mauro interroga molte persone.

 

Tra cui il potente avvocato palermitano Vito Guarrasi e Graziano Verzotto di cui pare si fidasse troppo. Ed è durante questo lavoro che scopre notizie eclatanti che confesserà a un amico con la frase “farò tremare l’Italia” qualche giorno prima di sparire per sempre.

 

Cosa aveva scoperto? Cose che certamente andavano oltre il caso Mattei. Scrive Giorgio Galli che dalla lettura del libro di De Sanctis si ricava l’impressione che gli ipotetici attentatori di Mattei avevano punti di riferimento al vertice dell’Eni e che Guarrasi, Verzotto e D’Angelo sulla tragedia di Bascapè fossero in possesso di informazioni non riferite né nell’ottobre del ’62, né dopo il rapimento di De Mauro. Guarrasi era stato uno stretto collaboratore del presidente dell’Eni.

 

Tra lui e Verzotto si scatena, racconta De Sanctis, una battaglia “attorno al metanodotto da costruirsi dall’Algeria all’isola che si riallaccia alle trattative Mattei Ben Bella interrotte nel 1962”. L’autore di Delitto al potere osserva anche che il tributarista Nino Buttafuoco, col pretesto di dare notizie, spiasse la famiglia De Mauro, per conto di Guarrasi. Sull’avvocato palermitano, morto nel 1999 e sospettato di fare da tramite tra la mafia e i poteri occulti, mai un’inchiesta è stata aperta. A suo carico solo un fascicolo della Polizia dopo la sparizione di De Mauro.

 

Quanto a Graziano Verzotto, presidente dell’Ems, l’agente segreto Rossi, in un colloquio con il poliziotto Mendolia, lo definisce “ladro di polli”. Rossi viene mandato a Palermo con lo scopo di fermare Mendolia, che era sul punto di arrivare a delle verità importanti nell’autunno del 1970. “Io non so – dice (sibillino) l’agente segreto durante la conversazione – se l’aereo di Mattei fu sabotato. Certo è che cadde e che in quel lontano 1962 c’era gente che si dava da fare perché cadesse... De Mauro non sapeva che con quest’affare mezza Italia, da dieci anni, tiene sotto ricatto l’altra metà”. Una ridda interminabile di ipotesi, nessuna verità completa.

 

Chi l’ha ucciso Mattei: la mafia, la Cia, l’Oas, i servizi segreti francesi, la stessa cricca di petrolieri texani (la più debole tra le ipotesi) che avrebbe poi ucciso John Kennedy, quella parte della politica italiana che poteva essere interessata ai fondi neri del petrolio? Nel 1962 non c’è nessun colpevole per la morte di Enrico Mattei. Dal 1970 in poi sono in tanti che possono averne voluto la morte, che possono aver ordinato il sabotaggio del suo aereo.

 

E tanti in realtà erano gli interessi che l’uomo della via italiana al petrolio, finita tragicamente a Bascapè, aveva toccato. Dalla sfida al potente Cartello agli interessi della politica americana nel Mediterraneo. “Da dieci anni, con quest’affare, mezza Italia teneva sotto ricatto l’altra metà”. Già! E potremmo fermarci qui. Perché dicendo questo, per come da sempre vanno le cose in Italia, abbiamo detto tutto.

 

Proprio tutto. Oltre alla ridda delle ipotesi, ce n’è un’altra: di domande senza risposte. Domande sul ruolo di Cefis e Cazzaniga. Sui rapporti Esso-Eni. Su Giorgio Bo, ministro delle Partecipazioni statali e legale dell’Eni, che si reca nella sede di San Donato e prende tutti i documenti riservati dalla cassaforte di Mattei mentre la commissione d’inchiesta sulla caduta dell’aereo si reca a Bascapè. Su cosa faceva a Catania il servizio a tutela del presidente dell’Eni mentre l’attentatore raggiungeva inosservato l’aereo. E su Mauro De Mauro, naturalmente.



 

 

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