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N. 23 - Aprile 2007

PETROLIO E ASCESA ECONOMICA DELLE EX REPUBBLICHE SOVIETICHE

Le contraddizioni sociali

di Leila Tavi

 

Con il recente vertice bilaterale tra Cina e Russia, l’accordo di Shangai ha acquisito una nuova e rinnovata importanza, non solo per le due grandi potenze, ma anche per i paesi del ex blocco sovietico in Asia centrale.

 

L’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai è stata fondata nel giugno 2001 da Cina, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia, Tajikistan e Uzbekistan, sulla base del vecchio organismo dei “Cinque paesi di Shanghai”.

 

Si tratta di un’organizzazione regionale di cooperazione multilaterale nel settore politico, economico-commerciale, tecnico-scientifico, culturale, dell’istruzione, delle risorse energetiche, dei trasporti e della tutela ambientale.

 

Con l’effetto 9/11 l’organizzazione di Shanghai ha perso da subito importanza per lasciare spazio alle alleanze con Washington in funzione antiterroristica; successivamente le guerre in Afghanistan e in Iraq, insieme all’appoggio finanziario statunitense alle “rivoluzioni colorate”, hanno generato una sfiducia nei confronti della politica estera degli USA da parte dei governi di Mosca e Pechino.

 

L’accordo di Shanghai è stato rilanciato in tempi recenti e sono stati invitati come osservatori India, Iran, Mongolia e Pakistan: il primo esempio di organizzazione multilaterale in Asia in cui gli USA non sono coinvolti.

 

A farne parte sono anche i paesi dell’Asia centrale che detengono il 10% delle riserve globali di petrolio.

 

Con la dichiarazione di indipendenza dall’URSS nel 1991 Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan hanno adottato una forma di governo autocratica con elezioni manipolate e con un apparato statale che non è il frutto del consenso popolare e rende immobile la società civile, a causa di una burocrazia restrittiva e nepotistica.

 

Nonostante nella regione si trovino vaste riserve di materie prime, non si è verificato un vero e proprio sviluppo economico. Gli investimenti stranieri sono stati scoraggiati dalla mancanza di uno stato di diritto e dal dilagare della corruzione e della criminalità organizzata.

 

Dopo un decennio in cui la comunità internazionale si è disinteressata degli avvenimenti politici in Asia centrale, gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno riportato gli interessi strategici dell’Occidente nella regione.

 

L’agenda della sicurezza internazionale ha come priorità dal 2001 la lotta al terrorismo internazionale di matrice islamica e le repubbliche dell’Asia centrale sono nell’occhio del mirino dei servizi segreti dei paesi occidentali a causa del moltiplicarsi di gruppi di terroristi islamici che operano in Asia centrale.

 

Tra i più noti e temuti ci sono il Partito islamico del Turkestan orientale, il Movimento islamico dell’Uzbezistan (IMU), i separatisti Uighur e il gruppo Hizb ut-Tahrir al-Islami (Partito islamico della liberazione), che conta 10.000 appartenenti tra Kazakhstan, Tajikistan e Uzbekistan.

 

La vicinanza con l’Afghanistan rende le ex repubbliche sovietiche di vitale importanza geo-strategica sia per eventuali operazioni militari, che per la lotta internazionale al traffico di droga e al fondamentalismo islamico. Allo stesso tempo il vertiginoso incremento del prezzo del greggio e del gas ha, in tempi recenti, reso le riserve in gas e petrolio in Asia centrale appetibili ai mercati occidentali.

 

Nel sottosuolo delle quattro repubbliche del “gruppo di Shanghai”, più il Turkmenistan, si trova il 30% del fabbisogno mondiale di petrolio e di gas. Le possibilità di sfruttamento stimate dalle grandi compagnie petrolifere sono superiori a quelle del Mar del Nord.

 

I maggiori contendenti per il controllo del “tesoro del Caspio” sono Iran, Russia e USA; ognuno dei tre stati sta cercando di convogliare l’oro nero nei propri oleodotti: la Russia con sbocco sul Mar Nero, l’Iran con la costruzione di nuovi oleodotti sul suo territorio e gli Stati uniti con le loro truppe in Tajikistan, Uzbekistan e, naturalmente, in Afghanistan.

 

L’inatteso aumento dei prezzi del greggio degli ultimi anni ha dato la possibilità anche le repubbliche post-sovietiche dell’Asia di arricchirsi, ma a profittarne sono solo le élite al potere, che detengono il controllo assoluto sulle risorse energetiche.

 

Il Kazakhstan è un chiaro esempio di “economia fondata sulle risorse energetiche”, con un PIL che per il 30% è basato sulle risorse petrolifere e il 60% delle esportazioni deriva dalle vendite di petrolio.

 

Christopher Walker, direttore di studi alla Freedom House parla di “maledizione delle risorse” perché, come abbiamo già spiegato, in ciascuno di questi stati post-sovietici la crescita economica è direttamente proporzionale allo sfruttamento delle risorse energetiche.

 

I proventi derivati dallo sfruttamento delle materie prime non sono rinvestiti per lo sviluppo di tecnologie e restano nelle mani dei burocrati corrotti che, per continuare a rimanere al potere, evitano con tutti i mezzi qualsiasi forma di controllo sulle loro attività.

 

In tutte e cinque le ex repubbliche sovietiche non esiste libertà di stampa e di opinione e la censura sui media è sistematica e spietata; ciò non inibisce a livello internazionale le ambizioni dei governi dei singoli stati di una rapida e “indolore” integrazione nei mercati globali.

 

Un altro fondamentale tassello per capire le dinamiche geo-politiche e gli interessi economici in Asia centrale è la guerra in Afghanistan.

 

Per la costante presenza americana nella regione dal 2001 si vuole trovare una giustificazione attraverso lo sforzo di ristabilire un ordine e una sicurezza interna dopo la guerra contro i Talebani.

 

In realtà la ricostruzione dopo il conflitto è inesistente e nulla è fatto per interrompere i traffici di droga dall’Afghanistan verso l’Occidente.

 

Più del 90% dell’eroina venduta nell’Europa occidentale proviene ancora oggi dall’Afghanistan.

 

Hamid Karsai, presidente del governo fantoccio legittimato dagli Stati uniti, è stato per anni il proprietario di una catena di ristoranti negli USA e i progetti degli Americani di costruire un oleodotto e un gasdotto dal Mar Caspio all’Oceano indiano incontrano l’ostilità dei Talebani.

 

Gli stessi Talebani che, durante l’invasione dell’Unione sovietica in Afghanistan, hanno ricevuto cospicui finanziamenti dagli Americani in funzione antisovietica.

 

I primi tentativi di realizzare un gasdotto in Afghanistan risalgono ai primi anni Novanta, quando la compagnia petrolifera statunitense Unocal stipulò una joint venture con la compagnia saudita Delta in tal senso.

 

Il progetto era però di difficile realizzazione a causa della guerra civile in corso in Afghanistan; le fazioni legate a Gulbuddin Hekmatyar fronteggiavano negli anni Novanta gli uomini del presidente Burhanuddin Rabbani e di Ahmed Massud.

 

Nel 1994 la CIA e l’ISI, i servizi segreti pakistani, aiutarono l’ascesa dei Talebani, un gruppo emergente e quindi, a detta delle intelligence dei due stati, facilmente manipolabile.

 

I Talabani conquistarono in due anni Kabul con l’assenso di Washington; loro rappresentanti furono invitati in Texas per un incontro con i dirigenti dell’Unocal in cui fu loro proposto il 15% dei proventi sul futuro progetto.

 

A coordinare l’intera operazione fu Laila Helms, di origine afgana, nipote dell’ex direttore della CIA ed ex ambasciatore americano in Iran Richard Helms, considerata la Mata-Hari delle negoziazioni tra Stati Uniti e Talebani dal 1994 al luglio 2001.

 

Sostenitrice degli interessi economici dei Talebani negli Stati uniti, la Helms cercò di mediare fino alla fine i rapporti diplomatici tra le due parti, che si erano incrinati con l’allontanamento dei Talebani da Washington, dimostrato alla controparte con una chiara politica estremista nei confronti dell’Occidente.

 

Laila Helms organizzò una visita di cinque giorni a Washington per Sayed Rahmatullah Hascimi, consigliere personale del mūllah Mohammed Omar, nel marzo 2001, dopo che i Talebani distrussero le antiche statue di Buddah della valle di Bamiyan.

 

Nel periodo tra marzo e il 2 agosto 2001, giorno in cui si svolse l’ultimo incontro diplomatico tra le due parti a Islamabad, la posizione degli USA si distanziò sempre più dal governo di Kabul, per conto suo il governo afgano rifiutò definitivamente la proposta americana della cooperazione energetica.

 

L’azzardata mossa diplomatica da parte degli USA di inviare a Roma Francesc Vendrell a colloquio con l’esiliato re Zaher Shah, nel tentativo di mettere all’angolo i Talebani, ha innescato la miccia di quello che volutamente, a torto, è stato soprannominato “lo scontro delle civiltà”.  

 

Tutto questo non ha nulla a che fare con la cultura o la religione, è semplicemente una lotta per le risorse idriche ed energetiche con rivendicazioni territoriali e sfere di influenza su obiettivi geo-strategici, attorno a cui si è abilmente creato un sostrato ideologico.

 

Una tale mobilitazione di massa non poteva che avverarsi attraverso una lenta e alienante preparazione psicologica in direzione di un futuro incerto.

 

In un’era che è già iniziata all’insegna dell’isteria e in cui un attentato suicida a Baghdad è in grado di influenzare gli indici di borsa in Occidente.

 

La riforma di cui l’Islam ha bisogno non passa attraverso un violento intervento dall’esterno, non ci sarà nessuna mimesi dell’Occidente e se sarà necessario, in nome di questa riforma, versare del sangue, non macchiamoci noi Occidentali di questa ignominia per salvaguardare le nostre quotidiane idiosincrasie piccolo-borghesi.

 

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