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N. 108 - Dicembre 2016 (CXXXIX)

MALATTIA PER LA "FINE DEL MONDo"
LA PESTE NEL VECCHIO CONTINENTE TRA MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA

di Marco Fossati

 

"A peste, fame et bello libera nos Domine" (Liberaci Signore da peste, fame e guerra). Ancora qualche decennio fà era facile ascoltare tale invocazione in alcune processioni religiose. Se rivolgersi al Divino per essere liberati e soprattutto preservati da fame e guerre è abbastanza comprensibile, dato che sono piaghe ben conosciute e purtroppo ancora diffuse, riguardo alla peste il discorso è diverso; attualmente non sembra essere una minaccia comparabile alle altre due.

 

Eppure, negli anni Ottanta del Novecento, quando si diffuse la paura per il virus dell'AIDS, si iniziò a parlare di esso come: "la peste del Duemila". Che la peste abbia colpito l'immaginario collettivo ne abbiamo numerose prove, sia nell'arte che nella letteratura, ma perché è diventata la malattia per eccellenza, rappresentante di tutte quelle che hanno colpito il genere umano e che è sinonimo di quelle che ancora lo affliggono? Sicuramente la sua totale scomparsa dal mondo contemporaneo (almeno in Occidente), ci conduce ad una dimensione storica.

 

Di pestilenze si parla già nell'antichità, sebbene gli storici della medicina siano scettici sul fatto che le epidemie narrate da autori greci e romani (Tucidide, Tacito, ecc.), siano effettivamente da attribuire a tale malattia. Oggi su di essa conosciamo quasi tutto: provocata da un bacillo, Yersinia pestis, trasmesso dalle pulci dei topi.

 

Nell'antichità, invece, si attribuiva il nome peste, dal latino peius (malattia peggiore), a qualsiasi morbo che causava numerosi decessi. È comunque accertato che fosse peste quella apparsa in Europa alla metà del XIV secolo e poi, divenuta endemica nel Continente per circa quattrocento anni; alternando periodi di relativa quiete (con isolati focolai di contagio) a pandemie che coinvolgevano vaste aree con alti tassi di mortalità.

 

Proprio l'elevata mortalità era sconvolgente per le persone del tempo (Il 70-80% degli ammalati moriva; le prime ondate pare abbiano causato 30 milioni di morti in una popolazione europea di circa 100 milioni). Faceva scomparire intere famiglie, spopolava villaggi e dimezzava le città. I sintomi visibili: febbre alta, vomito, convulsioni e macchie nere o bubboni sul corpo, destavano orrore e paura. Una paura che era ingigantita dalla apparente elevata contagiosità e dal fatto che non se ne conoscessero le cause.

 

Esemplare è la descrizione fatta da Giovanni Boccaccio, nel Decamerone, dell'epidemia del 1348 a Firenze: "E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl'infermi di quella per lo comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate[...] ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tòcca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator trasportare".

 

La scienza dell'epoca ovviamente ignorava analisi microscopiche ma neppure pensava a topi e pulci (presenze costanti e diffuse) come a dei possibili vettori del morbo. L'unica spiegazione, circa le cause della malattia, si riduceva ad una indefinita aria corrotta; di conseguenza la puzza, il cattivo odore, lo sporco (in pratica quasi tutto) erano considerati elementi di contagio.

 

L'origine del male si cercava al di fuori della medicina, ad esempio Guy de Chauliac (1300-1370), un rinomato chirurgo francese, si rivolgeva all'astrologia: "La causa agente universale fu la disposizione di una grande congiunzione dei tre corpi superiori cioè Saturno, Giove e Marte che si era verificata l'anno 1345,[...] le congiuzioni più gravi significano,[...] eventi sorprendenti e inconsueti e forti e terribili, come cambiamenti di segni, avvento di profeti e grandi morìe".

 

Sicuramente più popolare era l'attribuzione della peste al soprannaturale, come lo stesso Boccaccio evidenzia: "Pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali". Pure il papa, Clemente VI (1342-1352), affermava tale concetto. Non sorprende, pertanto, la diffusione di un sentimento d'inquietudine, ben sintetizzato da un cronista di quegli anni, il senese Agnolo di Tura: "e la gente diceva e credeva: è la fine del mondo".

 

Infatti, la peste ebbe contraccolpi anche sull'aspetto psicologico delle persone, come rileva ancora Boccaccio: "Nacquero diverse paure ed immaginazioni in quegli che rimanevano vivi". In quasi tutte le zone colpite dalla malattia si ripetevano gli stessi comportamenti anomali: da chi si chiudeva in casa fuggendo dal mondo, a chi sfidando la sorte si lanciava in una vita sfrenata fatta di eccessi, altri si sottoponevano a pubbliche penitenze corporali (flagellanti) per placare l'ira divina.

 

Nelle regioni contagiate diventava precario pure l'ordine pubblico ed era frequente il rischio di anarchia. Così come erano frequenti le credenze che la peste fosse materialmente propagata da qualcuno, il cosiddetto untore. Su questo punto vi sono numerosi esempi anche per i secoli XVI e XVII, tipo il racconto della peste di Milano, del 1630, fatto dal cardinale Federico Borromeo (De Pestilentia): "Ma non appena il contagio aveva incominciato a infierire in città, si originarono un grave sospetto e gravi terrori che esistessero degli uomini perduti che ungevano e avvelenavano tutti i luoghi e i corpi stessi, diffondendo in tal modo la peste [...]. Ciò accadesse per opera di alcuni Principi, i quali, per poter realizzare i loro progetti, spargevano questi veleni e infettavano la popolazione [...]. Si diffuse tra il volgo una certa convinzione che coloro i quali esercitavano l'impegnativa arte di ungere, mescolassero agli unguenti anche accordi pattuiti coi Demoni".

 

Spesso ne pagavano le conseguenze quelle persone o quei gruppi sociali (o religiosi tipo gli ebrei) che vivevano ai margini della comunità o al di fuori di essa: mendicanti, vagabondi, malati di mente, stranieri o eretici. Il panico faceva sì che tali persone, come capri espiatori, diventassero vittime di linciaggi, esecuzioni sommarie, e pure di processi regolari sebbene di dubbia equità (esemplare quello descritto da Alessandro Manzoni ne La colonna infame).

 

Era sempre la paura del contagio che portava sovente all'abbandono dei malati (anche se famigliari) e a seppellire i morti in luoghi appartati o in fosse comuni. Quest'ultimo aspetto era particolarmente sconvolgente per la mentalità religiosa del tempo, che aveva un concetto sacro della morte. Non più un ritorno verso Dio ma una violenta perdita della vita, spesso senza i conforti religiosi. Una morte anonima e di massa.

 

La peste però non fu solo un elemento traumatico a livello psicologico o sociale come sopra descritto. Essa comportò importanti ripercussioni nelle strutture economiche e politiche. Trasmessa normalmente dalle pulci del ratto (principalmente la  xenopsylla cheopis), "non è però necessario che si verifichi una migrazione di roditori per la diffusione della peste, dato che pulci infette, occasionalmente ratti infetti, possono viaggiare per lunghe distanze nel grano, nei vestiti e in altre mercanzie. Per di più, una pulce satura di bacilli, in condizioni climatiche favorevoli, può rimanere viva e infetta anche fino a 50 giorni senza nutrirsi" (Del Panta).

 

Questa caratteristica incontrò condizioni favorevoli in un determinato periodo storico. Infatti la peste, come molte altre malattie, ha un forte legame con i modi di vita della società in cui si sviluppa. Essa arrivò in Europa  tra il 1347 e il 1348 probabilmente portata dalle navi dei mercanti genovesi provenienti dalle colonie commerciali del Mar Nero. Ecco il primo elemento favorevole, lo sviluppo dei commerci. Se in pieno Medioevo erano scarsi, a partire dal XII secolo gli scambi commerciali interni all'Europa e dall'Europa verso Oriente, subiscono un lento, ma progressivo incremento che esploderà nel corso dei secoli successivi. Inoltre dopo il XI secolo in Europa inizia un costante aumento della popolazione (con un parziale arresto proprio nel Trecento in seguito alle prime pestilenze), e la conseguente ripresa dell'urbanizzazione.

 

Lo sviluppo dell'artigianato e dei commerci incentrati su fiere e mercati portava nelle città migliaia di persone. Il sovraffollamento cittadino determinava, come si può ben immaginare, condizioni igieniche terribili. Terreno fertile per topi, pulci e di conseguenza malattie. Infatti molte delle principali città europee furono colpite dalla peste trecentesca e parecchie di queste subirono nuovi contagi nei secoli successivi. Inoltre dal Duecento e praticamente fino alla Rivoluzione industriale, l'Europa era soggetta a crisi di sussistenza ovvero l'aumento rapido di popolazione in alcuni periodi, non si traduceva in un altrettanto rapido aumento di risorse disponibili (ciclo di sviluppo malthusiano), determinando frequenti carestie.

 

La peste si inserì in questo meccanismo divenendone causa ed effetto allo stesso tempo: "Una popolazione che cresce sempre di più e che mangia sempre di meno si traduce meccanicamente in iponutrizione collettiva e in morbilità epidemica. Per questo verso la carestia trascina con sé la peste" (Cosmacini).

 

Ma avviene anche il contrario; con la peste si bloccavano gli scambi verso le città appestate, mentre l'alta mortalità determinava una carenza di manodopera per le attività artigianali. La fuga di popolazione di fronte al contagio, poi, provocava il dilagare dell'epidemia nel contado ostacolando i raccolti. In pratica si disorganizzava l'economia e questo causava nuove carestie. Pertanto: "Tra metà Trecento e metà Quattrocento, il periodo più segnato dalla presenza del morbo, vi furono almeno sette ondate epidemiche di carattere generale e altre cinque che colpirono l'Italia centro settentrionale" (Del Panta).

 

Paradossalmente la peste ha prodotto anche delle conseguenze positive che spesso passano in secondo piano. Per gli effetti sopra descritti i governi dell'epoca iniziarono ad occuparsi di salute pubblica. Fu proprio l'Italia a partire dal XV secolo e maggiormente nel XVI secolo, a sviluppare un efficiente sistema di organizzazione sanitaria, basato sulla figura dei Magistrati di Sanità; uffici governativi che possono essere considerati i precursori degli attuali sistemi sanitari pubblici. Presenti in quasi tutti gli stati italiani, si occupavano di individuare tempestivamente la malattia e attivare tutte quelle procedure destinate a limitarne la diffusione (isolamento di persone, di quartieri o di intere città).

 

Sebbene la lotta al morbo avvenisse più che altro su un piano amministrativo, anche nell'ambito medico-sanitario vi furono progressi. Forse il più importante fu l'istituzione dei lazzaretti, che rappresentarono un primo passo verso l'ospedalizzazione di tipo moderno. Il primo lazzaretto venne istituito dalla Repubblica di Venezia, forse nel 1403, nel monastero di S. Maria di Nazareth. Era il luogo dove venivano ricoverate le persone colpite dalla malattia e pure coloro che erano sospettati di poterla sviluppare, affinché non diffondessero il contagio (nasce anche il concetto di quarantena).

 

In realtà gli ospedali esistevano ed erano diffusi già da secoli, ma nascevano dalla carità individuale o da quella religiosa. Enti relativamente autonomi che operavano sì per fini pubblici e sotto il controllo dell'autorità, ma più che assistenza sanitaria facevano assistenza sociale, occupandosi in prevalenza di viandanti, poveri, orfani e malati di mente. Il lazzaretto invece, nacque per volontà dell'autorità pubblica e sotto il controllo di essa. Inoltre venne pensato come un luogo che sebbene dovesse tenere separate le persone contagiose, allo stesso tempo fosse una primitiva struttura ospedaliera; dove si tentava la cura del malato il quale, se guarito (in rari casi), poteva essere dimesso.

 

Sicuramente lo sviluppo di tali apparati sanitari contribuì al lento declino del morbo. Dalla seconda metà del Seicento le pestilenze diventarono sempre meno frequenti; le ultime grandi epidemie europee risalgono al 1720, a Marsiglia e nel 1743 a Messina e Reggio. Comunque la scomparsa della malattia è ancora poco chiara: miglioramento delle condizioni igienico sanitarie, forse una specie di topi più resistente al virus. Sul punto ci sono molte tesi discordanti. Attualmente essa è in pratica "ritornata" nelle zone da cui era "partita" secoli prima, Cina e India, dove ogni tanto si ripresenta in limitati focolai di contagio. Non ha però perso quell'aura di terrore che si è guadagnata nel tempo e recentemente, con la diffusione del virus Ebola, si è tornati a fare  paragoni con le  pestilenze antiche. 

 

Dal punto di vista storico la peste, vissuta e identificata come "fine del mondo", la si potrebbe più propriamente definire come uno degli elementi di cambiamento della società. Un "agente mutante" che, insieme ad altri fattori, ha creato una lunga epoca di transizione da un tipo di società, quella medievale, ad un'altra, quella moderna. Tant'è che gli anni delle prime pestilenze europee (1348-1352) sono stati individuati come l'evento che segna un'epoca,  a cui alcuni storici fanno coincidere la fine del Medioevo: non più quindi, "fine del mondo" ma fine di un "mondo". 

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Cipolla, Carlo Maria,  Miasmi e umori, Bologna, Il Mulino, 1989;

Cosmacini, Giorgio,  Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1994;

Del Panta, Lorenzo, Le epidemie nella storia demografica italiana (sec. XIV-IX), Torino, Loescher editore,  1980.



 

 

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