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N. 82 - Ottobre 2014 (CXIII)

OLTRE I PESHMERGA
IL MOSAICO CURDO

di Filippo Petrocelli

 

Kobane non è caduta. I curdi sono riusciti a resistere, sebbene nei giorni scorsi sembrasse imminente una vittoria jihadista.

 

Anche se le notizie arrivano confuse, non solo la bandiera del califfato è stata rimossa dalla collina di Tall Shair – importante altura sul lato occidentale della città siriana da giorni al centro delle cronache per l’assedio da parte di IS, Islamic State (già ISIS) e l’accanita resistenza curda – ma addirittura sembra sia iniziata un’offensiva mirata a liberare definitivamente la città dai jihadisti.

 

Molti media dall’estate 2014 si sono accorti della questione curda, colpevolmente dimenticata per troppi anni, al centro dell’attenzione oggi solo di fronte ai massacri e all’avanzata di IS, il nuovo nemico pubblico.

 

Eppure nelle agende internazionali se ne parla da almeno un centinaio di anni: già dopo la fine delle prima guerra mondiale era stato immaginato uno stato che includesse questa popolazione oggi divisa fra Turchia, Siria, Iran e Iraq.

 

Nonostante ciò, come per molte altre promesse dimenticate dalla diplomazia “oltre gli stati”, anche per i curdi non è arrivata ancora l’ora di avere un territorio riconosciuto de iure, un Kurdistan indipendente.

 

A tenere insieme questo popolo senza patria sono i vincoli culturali e non i fattori etnico-identitari: le tradizioni e la lingua (sebbene sia composta da una grande varietà di dialetti) piuttosto che la religione (esistono curdi sunniti, sciiti, cristiana, così come di altre religioni) o la semplice appartenenza di “sangue”.

 

I curdi sono oggi circa quaranta milioni e oltre ai paesi menzionati esistono piccole comunità anche in Armenia, Libano, Azerbaijan e Pakistan, mentre forte è stata la migrazione verso Germania e Scandinavia.

 

E se è facile intuire la varietà e la multiformità dei curdi, solo ragionando su queste diversità “geografiche” non è difficile immaginare che anche a livello politico il panorama sia tutt’altro che uniforme.

 

IL MOSAICO POLITICO CURDO

 

Già in agosto, quando sulle prime pagine dei giornali europei e americani abbondavano i racconti sui “valorosi” peshmerga, era facile intuire che la situazione non poteva essere così come veniva descritta.

 

Uomini imbolsiti di mezz’età con uniformi tirate a lucido e pick-up nuovi di zecca sembravano più interessati a farsi riprendere dall’inviato embedded di turno piuttosto che decisi a sfidare un nemico giovane e aggressivo come IS.

 

Troppo spesso le semplificazioni giornalistiche contribuiscono a complicare il quadro e anche in questo caso si è creato una sorta di “corto-circuito mediatico”.

 

La prima cosa da chiarire è che peshmerga è un termine comune, traducibile con “combattente” e identifica qualsiasi persona pronta a lottare per una causa.

 

È simile all’arabo fedayyin, usato come per identificare il magma dei combattenti palestinesi a partire dagli anni Sessanta.

 

E così come erano fedayyin sia i membri di al-Fatah, sia i loro acerrimi nemici dell’organizzazione Abu Nidal o gli stessi membri della sinistra palestinese come il FPLP o il FDLP, così nel caso curdo sono in realtà peshmerga tutti i combattenti.

 

È facile intuire quanto possa risultare ambiguo l’uso di questo termine senza una precisa specifica e nel caso curdo non è un semplice errore “filologico”, quanto piuttosto un notevole problema politico.

 

Per peshmerga infatti su giornali e tv nostrani si intendono i combattenti del PDK, acronimo di Partîya Demokrata Kurdistan, ossia “Partito Democratico del Kurdistan” di Massud Barzani, attuale presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno.

 

Barzani rappresenta la parte più conservatrice del movimento curdo: è fautore di una visione tribale e gestisce la politica nella regione autonoma come un regno, distribuendo cariche e incarichi fra familiari e parenti, interessato più a gestire gli affari del suo clan che a diffondere il benessere generale.

 

Lo stesso PDK ha duramente avversato tutti gli altri partiti curdi: emblematica in questo senso è la “guerra civile curdo-irachena”, durata tre anni e combattuta fino al ‘97 fra gli uomini di Barzani e la “progressista” UPK, o “Unione Patriottica del Kurdistan” di Talabani, altro storico rappresentante del nazionalismo curdo-iracheno e primo presidente del paese nell’era post-Saddam.

 

Sono proprio questi due partiti – PDK e UCK – a ricevere sostanziali aiuti economici e militari dall’Occidente, in nome di una lunga alleanza coltivata fin dai tempi della guerra fredda e tornata utile durante Desert Storm e Enduring Freedom.

 

Ma in termini di efficienza militare i cosiddetti peshmerga non sono il massimo: non solo per motivi anagrafici (l’età media è molto alta) ma anche perché assomigliano più a una milizia che ad un esercito regolare.

 

A resistere a Kobane invece sono i membri del PYD, acronimo di Partiya Yekîtiya Demokrat o “Partito dell’Unione Democratica” con il suo braccio militare le YPG, Yekîneyên Parastina Gel ovvero “Unità di Protezione del Popolo” che dallo scoppio della guerra siriana si sono ritagliati una zona di autonomia nel Rojava, conosciuto anche come Kurdistan occidentale.

 

Qui hanno varato una nuova costituzione molto avanzata che stabilisce una serie di diritti all’avanguardia – non solo per il Medioriente – fra cui autogoverno, parità di genere e diritti delle minoranze.

 

Questo partito siriano è nato nel 2003 ed è guidato da Salih Muslim: agisce in autonomia ma è uno stretto alleato del PKK, Partîya Karkerén Kurdîstan ovvero “Partito dei Lavorati del Kurdistan” e ambedue le organizzazioni sono in prima linea contro l’avanzata jihadista.

 

I combattenti del PKK e del PYD non amano farsi chiamare peshmerga, preferiscono invece gerrilla “guerrigliero” o partizan ”partigiano”.

 

Quando l’8 agosto scorso la situazione della minoranza yazida in Iraq sembrava disperata e i peshmerga perdevano una battaglia dopo l’altra, PKK e PYD hanno deciso di sconfinare in Iraq per aiutare i proprio “fratelli” minacciati dal califfato.

 

E così è cominciata la riscossa: i peshmerga che hanno combattuto l’ultima guerra negli anni Novanta e poco hanno fatto in termini militari durante l’invasione americana, sono stati soccorsi dal YPG e dalle HPG, Hêzên Parastina Gel il braccio armato del PKK, che dalla metà del Duemila ha creato una sorta di retroterra operativo nel Kurdistan iracheno, nella zona dei monti Qandil a ridosso con il confine.

 

A salvare Makhomour e Sinjar, le due città a maggioranza yazida assediate in agosto da IS, sono stati questi guerriglieri e non i fedelissimi di Barzani e Talabani; mentre nel Rojava siriano non esistono altre forze anti-ISIS se non quello che fanno capo all’asse PYD-PKK.

 

Una delle caratteristiche di questo schieramento è di aver un alto numero di donne combattenti; tutt’altro che “angeli del ciclostile” o semplici “infermerie da campo”, nel Rojava la resistenza parla al femminile: l’offensiva a Kobane è guidata da Mayssa Abdo, nome di battaglia Narin Afrin, mentre è diventata un’eroina anche Arin Mirkan, giovane comandate del PYD che si è fatta esplodere prima di venire catturata, uccidendo diversi miliziani jihadisti.

 

Ma nel frattempo la tragedia che si sta consumando a Kobane è interna al mondo curdo: a comandare le truppe del califfato islamico di IS, c’è Abu Khattab al Kurdi, curdo e emiro dell’operazione, mentre non sono pochi i militanti di ISIS appartenenti a questo popolo: non tutti insomma hanno scelto la stessa parte. E anche per questo motivo è meglio evitare astrazioni generali.

 

IL PKK: BREVE STORIA DI UN’EVOLUZIONE

 

Il PKK nasce negli anni Settanta in Turchia su basi marxiste-leniniste con lo scopo di creare uno stato curdo socialista e indipendente a cavallo fra Turchia, Siria, Iran e Iraq.

 

Duramente represso dalla giunta militare in Turchia sceglie la lotta armata nel 1984, inaugurando un trentennio di scontro frontale con lo stato turco.

 

Nel 2013 sospende le operazioni nel paese di Ataturk, optando per il cessate il fuoco unilaterale, ritirandosi nell’area dei monti Qandil a ridosso del confine iracheno.

 

Il suo leader è da sempre Abdullah Öcalan, nome di battaglia Apo, dal 1998 in carcere in Turchia. Condannato a morte, sconta la sua pena commutata in un ergastolo nel carcere di massima sicurezza da scontare nell’isola di Imrali dove è l’unico detenuto.

 

A partire dagli anni Novanta all’interno del PKK si è sviluppato un processo di decostruzione ideologico durato circa un decennio, i cui frutti sono ben visibili oggi: preso atto del fallimento del socialismo reale, ma anche dell’impossibilità di creare uno stato curdo “socialista” e sovrano, il PKK ha riplasmato coordinate e obiettivi, allontanandosi dalla stretta ortodossia marxista.

 

È passato da un orizzonte che potremmo definire indipendentista o “secessionista”, a una prassi politica “municipalista”, fatta di democrazia diretta, autogoverno e assemblearismo.

 

Il Confederalismo Democratico proposto da Ocalan – ossia una federazione di villaggi e città nei 4 stati che ospitano i curdi – è soprattutto una comunità locale che si autogoverna, non una semplice rinuncia all’indipendenza in favore dell’autonomia.

 

Piuttosto sembra un radicale ripensamento della lotta di liberazione, nonché un’aperta critica alla visione novecentesca di concetti come partito, stato e potere ma anche una profonda autocritica verso strumenti e metodi usati in passato.

 

L’orizzonte del PPK è sempre socialista ma è ora fortemente democratico, più libertario e meno “verticistico” di prima.

 

Lo strumento principe al servizio del Confederalismo Democratico è il Koma Civakên Kurdistan, KCK ovvero Gruppo delle Comunità in Kurdistan, organizzazione ombrello di cui fanno le varie realtà curde: il PKK sul versante turco (Kurdistan settentrionale), il PJAK, Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê ossia “Partito della vita libera in Kurdistan” in IRAN (Kurdistan orientale), il PYD in Siria (Kurdistan occidentale) e infine il più piccolo PDCK, Partî Çareserî Dîmukratî Kurdistan, o “Partito della Soluzione Democratica del Kurdistan”, per l’Iraq (Kurdistan meridionale).

 

Questi partiti sono sempre stati visti come appendici del PKK, ma nella nuova configurazione ideologica appare evidente non solo che queste organizzazioni sono indipendenti e autonome, ma anche che rappresentano il tentativo di dare corpo all’elaborazione teorica interna al partito.

 

Eppure il PKK e i suoi partiti fratelli – che sono il più efficace argine contro l’avanzata di IS – non possono beneficiare degli aiuti occidentali: il PKK è stato inserito nel ’97 nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’amministrazione americana mentre nel 2002 è entrato nell’omologa lista dell’Unione Europea.

 

Da parecchi anni un vasto universo di attivisti sostiene la causa curda, proponendo il riconoscimento del partito come organizzazione politica legale.

 

La campagna LIFT THE BAN ON THE PKK, mirata a far uscire il gruppo dalle “liste nere” del terrorismo ha raggiunto una dimensione internazionale ma molto è ancora da fare.

 

Eppure questo sembra essere l’unico sentiero percorribile se si vuole veramente aiutare chi resiste all’avanzata jihadista in Iraq e Siria, senza necessariamente invocare bombardamenti e fallimentari operazioni militari che si risolvono sempre e comunque in nuove carneficine.

 

Intanto la Turchia, secondo esercito NATO a un palmo da Kobane, non muove un dito: concede un corridoio umanitario (ma solo ai curdo-iracheni) ma reprime le manifestazioni di orgoglio curdo nel paese (molte le manifestazioni di solidarietà a Kobane in Turchia), causando trenta morti solo nelle ultime settimane.

 

Recentemente i servizi segreti turchi hanno arrestato quattro membri del PYD, considerandoli terroristi e nei giorni scorsi l’esercito di Ankara ha bombardo postazioni curde in Siria per danneggiare il PKK.

 

Questo perché nei fatti la Turchia ha più paura della libertà dei curdi che della bandiera nera del califfato a pochi metri dalla frontiera.



 

 

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