N. 117 - Settembre 2017
(CXLVIII)
PERSEPOLI
LA CIVILTÀ PERSIANA DESCRITTA ATTRAVERSO I RESTI Dell'antica PARSA
di Serena Scicolone
La durata della vita di un uomo non coincide in alcun modo con il tempo che ne custodirà il ricordo dopo la sua scomparsa. La memoria di grandi ideali, gesta e virtù, al contrario della vita terrena, non conosce limiti temporali e tutto ciò vale anche per le città. Una conferma di tale validità è l’esempio di Parsa, meglio conosciuta con il nome che i Greci le attribuirono: Persepoli, la città dei Persiani.
Costruita
su
iniziativa
e
per
volere
del
celebre
re
Dario
tra
il
520
e il
518
a.C.,
la
città
ebbe
una
breve
esistenza
terrena:
circa
duecento
anni
dopo
la
sua
fondazione
fu
conquistata
da
Alessandro
Magno
che,
nel
330
a.C.,
ne
consentì
il
saccheggio
e la
distruzione
attraverso
un
devastante
incendio.
Il
fuoco
e la
furia
dei
conquistatori
cancellarono
per
sempre
importanti
testimonianze
della
splendida
residenza
regale
ma
non
furono
in
grado
di
eliminarne
il
ricordo:
il
nome
di
Persepoli
continua
a
essere
pronunciato
e,
dalle
macerie
della
cittadella,
la
civiltà
persiana
riemerge
ogni
giorno
superba
e
possente
proprio
come
si
presentava
al
momento
della
sua
morte.
La
percezione
comune
della
civiltà
persiana
è in
parte
compromessa
dalla
storiografia
greca;
gli
Elleni
dovettero
scontrarsi
con
essa
nelle
famose
Guerre
Persiane
e,
per
ben
due
volte,
furono
invasi
dal
terrore
di
perdere
l’indipendenza
e la
libertà
e di
divenire
sudditi
del
“Gran
re”.
Solo
una
minaccia
del
genere
poteva
essere
in
grado
di
riunire
le
città-stato,
caratterizzate
da
diversi
ordinamenti
politici,
in
un’unica
grande
fazione.
L’unione
fa
la
forza,
si
dice,
e in
quel
caso
i
Greci
lo
dimostrarono:
quella
vittoria
greca
divenne
simbolo
della
vittoria
della
libertà
contro
la
schiavitù.
Non
mancò
occasione
nella
quale
i
Greci,
specie
gli
Ateniesi,
non
ricordassero
di
aver
sconfitto,
nonostante
la
minoranza
numerica,
il
grande
nemico
persiano.
La
storia
è
scritta
dai
vincitori
ed è
così
che
una
sconfitta,
certamente
grave
dal
punto
di
vista
ideologico
ma
non
decisiva
e
compromettente
per
l’enorme
potenza
persiana,
fu
per
sempre
ricordata
come
il
più
grande
fallimento
di
quella
civiltà
e
come
la
dimostrazione
della
superiorità
dei
Greci.
Questi
ultimi
non
si
limitarono
al
vanto
della
vittoria
ma
screditarono
i
nemici
persiani
che
passarono
alla
storia
come
barbari
spietati,
sudditi
di
un
unico
uomo,
privi
di
qualunque
libertà.
Ma
era
davvero
così?
Possiamo
tentare
di
rispondere
a
questa
domanda
scoprendo
le
caratteristiche
della
civiltà
persiana
attraverso
i
resti
di
Persepoli.
Dopo
la
fondazione
da
parte
di
re
Dario,
il
cui
nome
significa
“colui
che
possiede
il
bene”,
i
lavori
di
costruzione
furono
continuati,
seppur
mai
portati
a
termine,
dai
successori
Serse,
Artaserse
I
e
Artaserse
III.
La
cittadella
si
ergeva
su
una
terrazza
rettangolare
lunga
450
metri,
larga
290
e
con
un’altezza
che
variava
dai
18
agli
8
metri.
Tutt’intorno
vi
erano
grandi
mura
delle
quali
oggi
non
resta
quasi
nulla.
Le
dimensioni,
i
palazzi
e i
monumenti
di
Persepoli
ci
forniscono
una
chiara
informazione:
non
si
trattava
di
una
vera
e
propria
città
(sono
infatti
del
tutto
assenti
le
case
private)
ma
di
una
residenza
regale
con
specifiche
funzioni
e
con
un
forte
intento
propagandistico
e
simbolico.
Quando
Dario
la
ideò,
pensò
a
qualcosa
che
dovesse
esprimere
il
potere
del
suo
impero
e
rappresentarne
gli
aspetti
politici,
religiosi,
sociali
e
culturali.
Per
questo
motivo,
la
residenza
regale
è
per
noi
come
una
fotografia
dell’Impero
persiano
e,
come
tutte
le
fotografie
scattate
con
particolare
cura,
anche
questa
ci
mostra
aspetti
reali
e
altri
appositamente
enfatizzati
per
finalità
propagandistiche.
Persepoli
era
una
città
rituale,
cioè
un
luogo
nel
quale
erano
celebrati
riti
e
cerimonie
dal
profondo
significato
simbolico:
qui
si
teneva
la
più
importante
festa
dell’impero,
quella
dell’anno
nuovo.
Il
capodanno
persiano
corrispondeva
con
l’inizio
della
primavera
ed
era
dunque
celebrato
il
21
Marzo.
In
questo
giorno
speciale,
i
delegati
delle
popolazioni
dell’impero
giungevano
a
Persepoli
per
mostrare
al
re
la
propria
fedeltà
e
sottomissione
attraverso
doni
e
tributi.
Sono
gli
stessi
resti
di
Persepoli,
i
suoi
rilievi
e i
suoi
monumenti
a
descriverci
la
cerimonia
e, a
tal
proposito,
non
possiamo
evitare
di
soffermarci
sulle
raffigurazioni
presenti
nell’Apadana,
il
palazzo
quadrato
per
le
udienze
ufficiali
del
sovrano.
Essendo
più
alto
della
terrazza,
vi
si
poteva
accedere
attraverso
due
scalinate,
una
a
Nord
e
una
a
Est,
ognuna
delle
quali
costituita
da
due
rampe,
una
interna
e
una
esterna,
ricche
di
rilievi.
.
Resti
dell'Apadana
Le
facciate
esterne
delle
scalinate
riproducono,
ancora
oggi,
la
processione
dei
delegati
provenienti
da
23
satrapie
dell’Impero
achemenide,
ognuno
dei
quali
è
vestito
con
gli
abiti
tipici
del
proprio
popolo.
Questi
rilievi
forniscono
immediatamente
una
precisa
idea
dell’Impero
persiano
durante
la
dinastia
achemenide,
iniziata
con
Ciro
II
nel
559
e
terminata
nel
330
a.C.
con
Dario
III:
un
impero
multietnico
all’interno
del
quale
le
differenze
non
tendevano
a
essere
livellate
ma,
piuttosto,
tollerate,
esaltate
e in
parte
assorbite
dallo
stesso
governo
centrale
che
mai
disdegnò
le
diverse
arti
e
tradizioni
delle
nazioni
sottomesse.
I re
achemenidi
non
imposero
il
proprio
potere
sui
vinti
attraverso
una
politica
violenta
e
soffocante
ma,
al
contrario,
si
distinsero
per
la
loro
politica
di
tolleranza
a
tal
punto
da
consentire
che
ogni
popolo
sconfitto,
seppur
governato
da
un
satrapo
persiano,
mantenesse
la
lingua,
l’arte,
la
religione,
gli
usi
e i
costumi
che
lo
caratterizzavano
prima
della
conquista
da
parte
del
“Gran
re”.
Dunque,
a
parte
il
satrapo
(un
governatore
persiano
scelto
direttamente
dal
re,
spesso
tra
i
propri
parenti),
i
popoli
non
andavano
in
contro
a
grandi
cambiamenti
dopo
la
conquista
persiana
e
ciascuno
di
essi
forniva
il
proprio
contributo
all’arte
imperiale.
Quest’ultima,
infatti,
appare
eterogenea
proprio
come
la
civiltà
di
cui
è
espressione:
elementi
assiri,
babilonesi,
lidi,
ioni,
indiani,
arabi
e
tanti
altri
si
mischiano
tra
loro
dando
vita
a
una
delle
arti
più
raffinate
della
storia
dell’umanità.
Persepoli
è la
dimostrazione
di
questa
eterogeneità:
l’influsso
babilonese
è
evidente
nei
numerosi
cortili
interni
e
nella
decorazione
dei
muri
sui
quali
sono
rappresentati
tori,
leoni
e
teorie
di
soldati;
la
sala
del
trono,
caratterizzata
dal
trono
del
re
posto
dietro
numerose
colonne,
è
ispirata
ai
templi
egizi;
i
tori
con
testa
umana
posti
all’ingresso
della
cittadella
sono
di
chiara
ispirazione
assira
e in
altre
statue
è
invece
presente
l’influsso
greco,
ionico
in
particolare.
L’arte
achemenide,
dunque,
è
un’arte
cosmopolita.
Alla
realizzazione
di
Persepoli
parteciparono
artisti
di
ogni
popolo
sottomesso
e
per
la
costruzione
furono
utilizzati
materiali
provenienti
da
tutte
le
parti
dell’impero.
Non
si
trattò
di
una
novità:
già
per
il
palazzo
eretto
a
Susa,
re
Dario
si
era
servito
dell’oro
della
Lidia,
dell’argento
e
dell’ebano
dell’Egitto,
dell’avorio
dell’Etiopia,
di
artisti
e
lavoratori
ioni,
medi,
egiziani
e
babilonesi.
Come
i
palazzi
che
ne
rappresentavano
il
potere,
l’Impero
persiano
achemenide
era
dunque
caratterizzato
da
una
pluralità
etnica
ritenuta
elemento
di
forza
e di
ricchezza.
Non
a
caso,
d’altronde,
era
possibile
accedere
alla
piattaforma
della
cittadella
attraverso
una
porta
fatta
realizzare
da
Serse
(486-465
a.C.)
e
chiamata
emblematicamente
La
porta
delle
Nazioni
o
La
porta
di
tutti
i
popoli.
Questo
ingresso
monumentale
era
caratterizzato
da
grandi
sculture
che
avevano
il
compito
di
proteggere
l’accesso:
un
lato
erano
difeso
due
enormi
tori,
l’altro
lato
da
due
tori
alati
e
androcefali.
.
Porta
delle
Nazioni
Nel
palazzo
di
Persepoli
non
compaiono
mai
scene
di
violenza
umana.
Il
messaggio
che
Dario
e i
suoi
successori
volevano
trasmettere
è
dunque
chiaro:
l’Impero
achemenide
non
si
fonda
sulla
violenza
e
sulla
sopraffazione
ma
sulla
pace
e l’unità
dei
diversi
popoli.
Questo,
ovviamente,
non
significa
che
i
persiani
realizzarono
un
enorme
impero
senza
far
ricorso
alla
guerra
ma
lo
fecero
nella
stessa
misura
di
altri
popoli
e, a
differenza
di
alcuni
di
essi
(si
pensi
ad
esempio
agli
Assiri),
preferirono
governare
esaltando
e
incitando
la
concordia
e la
tolleranza
tra
i
popoli
riuniti
piuttosto
che
servendosi
della
spietata
e
ingiustificata
violenza.
Alcuni
soldati
persiani
sono
rappresentati
nei
rilievi
di
Persepoli
ma,
volutamente,
essi
furono
immortalati
non
in
scene
di
guerra
e
combattimento
ma
in
processioni
ordinate
e
pacifiche.
Anche
questo
è un
ammonimento
chiaro:
l’esercito
imperiale
esiste,
è
numeroso
e
pronto
a
difendere
l’impero
ma
solo
se
sarà
necessario
si
ricorrerà
all’uso
delle
armi.
Sulla
facciata
interna
della
scalinata
est
dell’Apadana,
in
corrispondenza
di
ciascun
gradino,
è
rappresentato
un
soldato
appartenente
alla
guardia
reale,
la
cosiddetta
Guardia
degli
Immortali
che
aveva
il
compito
di
proteggere
il
re.
Si
trattava
di
un
esercito
d’eccellenza
costituito
da
diecimila
uomini
detti
“immortali”
perché
ogni
volta
che
uno
di
essi
veniva
ucciso,
era
immediatamente
sostituito
da
un
altro;
in
tal
modo
l’esercito,
essendo
sempre
composto
dallo
stesso
numero
di
soldati,
appariva
al
nemico
come
imbattibile
perché
composto
da
uomini
destinati
a
non
morire.
.
Gli
Immortali
Questo
corpo
militare
era
caro
a
tutti
i re
persiani
ma
in
particolar
modo
al
costruttore
di
Persepoli,
Dario.
Prima
di
salire
al
trono
come
successore
del
re
Cambise
(530-522
a.C.),
infatti,
Dario
era
proprio
il
comandante
della
Guardia
degli
Immortali
e
furono
proprio
gli
“immortali”
ad
acclamarlo
re.
La
riconoscenza
di
Dario
nei
loro
confronti
non
mancò
affatto:
sia
nel
palazzo
eretto
a
Susa
sia
in
quello
costruito
a
Persepoli
egli
volle
eternarne
la
memoria
attraverso
la
scultura.
Come
abbiamo
già
accennato,
il
criterio
della
tolleranza
si
estendeva
anche
all’ambito
religioso:
ogni
popolo
poteva
mantenere
i
propri
culti
e
continuare
a
venerare
gli
dei
locali.
Un
esempio
palese
di
tale
tolleranza
religiosa
è
dato
dall’atteggiamento
dei
re
achemenidi
nei
confronti
degli
ebrei,
tanto
che
questi
ultimi
devono
proprio
ai
Persiani
la
sopravvivenza
dello
Stato
ebraico
e
delle
basi
del
cristianesimo.
Dopo
che
il
re
persiano
Ciro
II
conquistò
Babilonia
nel
538
a.C.,
emanò
un
decreto
con
il
quale
permise
il
ritorno
a
Gerusalemme
dei
40000
Ebrei
che,
per
volere
dei
babilonesi,
erano
stati
deportati
a
Babilonia.
Ma
Ciro
II
non
si
limitò
solo
a
questo:
ricostruì
il
tempio
che
i
babilonesi
avevano
distrutto,
consentì
agli
ebrei
di
venerare
il
proprio
dio
e
gli
restituì
l’oro
e
l’argento
che
gli
era
stato
sottratto.
Gli
ebrei
accolsero
dunque
Ciro
come
un
liberatore
e lo
definirono
un
unto
del
Signore.
Per
conoscere
la
religione
dei
persiani
possiamo,
ancora
una
volta,
soffermarci
sui
rilievi
di
Persepoli.
Al
centro
della
scalinata
dell’Apadana
è
rappresentato
il
dio
supremo,
creatore
di
ogni
cosa,
Ahuramazdah,
dal
cui
nome
deriva
quello
dell’antica
religione
detta
appunto
Mazdeismo.
.
Rilievo
raffigurante
Ahuramazda
Questa
religione
fu
riformata
tra
il
1800
e il
600
a.C.
da
Zoroastro
che
introdusse
nel
Mazdeismo
le
prime
idee
sul
libero
arbitrio,
sulla
vita
dopo
la
morte,
sul
paradiso
e
sull’inferno
che
influenzarono
le
religioni
monoteiste
successive.
Caratteristica
essenziale
dello
Zoroastrismo
è il
suo
dualismo:
il
mondo
è
retto
da
due
principi,
quello
del
Bene
e
quello
del
Male,
in
continua
lotta
tra
loro.
Il
Bene
corrisponde
al
dio
Ahuramazdah,
il
male
è
invece
uno
spirito
malefico
denominato
Ahriman.
Il
dualismo
zoroastriano
è
però
solo
apparente,
poiché
il
Bene
è
destinato
a
trionfare
sul
Male,
dunque
la
lotta
tra
i
due
princìpi
ammette
una
sola
fine.
Durante
tale
lotta
l’uomo,
onesto
o
malvagio,
è
libero
di
scegliere
se
schierarsi
con
l’uno
o
con
l’altro
principio.
Chi
si
schiera
con
Auhramazdah
fa
sua
la
morale
zoroastriana
secondo
la
quale
un
uomo
deve
distinguersi
tramite
“buon
pensiero,
buone
parole
e
buone
opere”.
Lo
Zoroastrismo
si
diffuse
tra
i
persiani
proprio
durante
la
dinastia
achemenide.
Alla
lotta
tra
i
due
princìpi
allude
probabilmente
la
scena
rappresentata
specularmente
ai
lati
delle
due
scalinate
dell’Apadana:
tramite
un
leone
che
azzanna
il
toro
viene
rappresentata
la
definitiva
sconfitta
del
Male
e il
conseguente
trionfo
del
Bene.
Tra
i
resti
di
Persepoli,
questo
rilievo
sembra
oggi
ricordarci
che
la
lotta
tra
il
Bene
e il
Male
non
si è
ancora
conclusa.
Riferimenti
bibliografici:
Roman
Ghirshman,
La
civiltà
persiana
antica,
Einaudi,
Torino
1972.
Mario
Liverani,
Antico
Oriente.
Storia,
società,
economia,
Editori
Laterza,
Bari,
2015.