N. 58 - Ottobre 2012
(LXXXIX)
Pericle strategos autokrator
Luci e ombre del governo del “primo cittadino” di Atene
di Paola Scollo
Pericle
è la
figura
centrale
dello
stato
attico
nella
seconda
metà
del
V
secolo.
Il
suo
nome
è
legato
a un
periodo
di
grande
splendore
-forse
l’ultimo-
della
storia
di
Atene.
Un
periodo
di
graduale
trasformazione,
gravido
di
conseguenze
per
il
futuro.
Aristocratico
legato
però
al
partito
democratico,
venne
designato
dagli
Ateniesi
strategos
autokrator.
Fautore
di
un
liberalismo
illuminato
e
progressista,
fu a
capo
di
un
governo
che
lo
storico
Tucidide
non
ha
esitato
a
definire
aristocratico:
«una
democrazia
solo
a
parole,
mentre
di
fatto
a
governare
era
il
suo
primo
cittadino»
(II
65.
9).
Ma
in
che
modo
conquistò
il
potere
e,
soprattutto,
come
riuscì
a
mantenerlo
saldo?
Qualsiasi
tentativo
di
risposta
non
può
prescindere
da
un’analisi
delle
fonti
a
disposizione.
Di
notevole
valore
è
per
noi
la
testimonianza
di
Plutarco.
La
biografia
di
Pericle,
insieme
a
quella
di
Fabio
Massimo,
occupa
il
decimo
volume
delle
Vite
parallele.
Prioritario
in
Plutarco
è il
desiderio
di
mettere
in
luce
l’ethos
del
personaggio
al
fine
di
proporre
ai
lettori
modelli
comportamentali
validi,
degni
di
ammirazione
ed
emulazione.
E
che
tale
sia
il
fine
perseguito
è
ben
evidente
sin
dai
primi
capitoli
del
racconto,
dedicati
alla
famiglia,
alla
nascita
e
alla
formazione
culturale
di
Pericle.
Tutto
concorre
a
rivelare
le
doti
morali
del
personaggio.
Come
spiega
Plutarco,
Pericle
apparteneva
alla
tribù
Acamantide,
una
delle
dieci
tribù
territoriali
clisteniche,
del
demo
di
Colargo,
a
nord-ovest
di
Atene.
Sia
in
linea
paterna
che
materna
discendeva
«da
famiglie
e
stirpi
fra
le
prime
della
città».
Il
padre
Santippo,
un
ufficiale
di
marina,
aveva
sconfitto
i
Persiani
a
Micale.
Il
prozio
Clistene
aveva
cacciato
da
Atene
i
Pisistratidi,
rovesciando
il
regime
tirannico.
Inoltre,
aveva
dato
leggi
ad
Atene
e
istituito
una
nuova
forma
di
governo
per
garantire
concordia
e
sicurezza
(Per.
III
2).
Pertanto,
sia
il
padre
sia
il
prozio
costituivano
per
il
giovane
modelli,
paradeigmata,
di
potere
militare
e
civile.
Stando
al
racconto
di
Plutarco,
la
madre
di
Pericle,
Agariste,
pochi
giorni
prima
di
dare
alla
luce
il
figlio,
aveva
sognato
di
generare
un
leone.
Anche
le
circostanze
della
nascita
sembrerebbero
dunque
confermare
l’eccezionalità
del
personaggio.
Riguardo
all’aspetto
fisico,
Plutarco
descrive
Pericle
come
«un
bambino
perfetto
in
tutte
le
parti
del
corpo,
salvo
che
nella
testa,
molto
lunga
e
asimmetrica»
(Per.
III
4-7),
quindi
ricorda
che,
proprio
a
causa
di
tale
difetto
fisico,
gli
artisti
erano
soliti
raffigurarlo
con
l’elmo.
Ma,
d’altra
parte,
la
presenza
dell’elmo
contribuiva
a
qualificare
Pericle
come
stratega.
Inoltre,
-sempre
secondo
Plutarco-
i
poeti
attici
lo
definivano
“schinocefalo”,
ovvero
“testa
di
cipolla”.
In
Attica
la
cipolla
marina
veniva
appunto
denominata
“schinos”.
Secondo
la
tradizione,
Pericle
fu
istruito
nella
musica
dall’ateniese
Damone
di
Damonide,
sofista
seguace
di
Prodico.
Scrive
Plutarco
che
Damone
«stava
accanto
a
Pericle
come
presso
a un
atleta,
allenandolo
e
ammaestrandolo
nella
politica».
E,
infatti,
«non
riuscì
a
nascondersi
interamente
sotto
il
pretesto
della
lira,
tanto
che
venne
ostracizzato
come
facinoroso
e
fautore
della
tirannide»
(Per.
IV
2).
Tra
i
maestri
di
Pericle
figura
anche
il
filosofo
Zenone
di
Elea
che,
come
Parmenide,
si
occupava
dei
problemi
della
natura.
In
ogni
caso,
il
più
intimamente
legato
a
Pericle
fu
Anassagora
di
Clazomene,
il
pensatore
che
«i
contemporanei
soprannominarono
“La
Mente”,
o
perché
ammirassero
la
sua
sapienza
-ritenuta
eccezionale-
nello
studio
dei
problemi
della
natura,
o
perché
fu
il
primo
a
porre
come
principio
ordinatore
dell’universo
non
il
caso
o la
necessità,
ma
una
mente
pura
a sé
stante,
che
nella
massa
confusa
di
tutti
gli
altri
elementi
distingue
e
separa
le
“omeomerie”»
(Per.
IV
6).
Da
Anassagora
Pericle
derivò
la
conoscenza
dei
fenomeni
celesti
e le
speculazioni
elevate,
profondità
di
pensiero
e
altezza
di
eloquenza,
un’eloquenza
peraltro
immune
da
qualsiasi
forma
di
ciarlataneria
banale
e
plebea,
ma
anche
la
compostezza
del
volto,
che
mai
si
concedeva
al
riso,
l’andatura
calma
del
portamento,
la
semplice
eleganza
della
veste,
che
non
si
scomponeva
neppure
quando
si
eccitava
nella
foga
del
dire,
nonché
il
tono
pacato
della
voce
e
altre
simili
qualità,
che
colmavano
tutti
di
ammirazione
(Per.
V
1).
Sembrerebbe
che,
proprio
grazie
alla
vicinanza
di
Anassagora,
Pericle
sia
riuscito
a
vincere
la
superstizione
che
il
timore
dei
fenomeni
celesti
suscitava
in
coloro
che
si
lasciavano
atterrire
dai
segni
divini.
Nonostante
la
compostezza
e la
profondità,
per
il
poeta
Ione
Pericle
era
nel
complesso
arrogante
e
superbo:
all’alterigia
si
univano
poi
una
grande
presunzione
di
sé e
un
forte
disprezzo
degli
altri.
Dall’analisi
dei
capitoli
plutarchei
emerge
chiaramente
il
desiderio
di
sottolineare
il
ruolo
esercitato
dalle
dottrine
filosofiche
nella
costituzione
del
carattere
e
nella
formazione
dell’alto
sentire
di
Pericle:
nell’immagine
del
biografo,
è
fuor
di
dubbio
che
l’ethos
dello
stratega
sia
stato
influenzato
-o
addirittura
plasmato-
dal
pensiero
dei
filosofi.
Il
ruolo
esercitato
da
Santippo,
Clistene
e
Anassagora
pone
interrogativi
sul
rapporto
di
Pericle
con
il
potere.
A
tal
proposito,
Plutarco
afferma
che
la
natura,
physis,
di
Pericle
non
era
certamente
democratica.
Tuttavia,
egli
non
poteva
ignorare
l’importanza
del
demos
per
la
conquista
del
potere:
solo
ottenendo
la
fiducia
del
popolo,
avrebbe
acquisito
fama,
rispetto,
considerazione,
dunque
raggiunto
l’autorità
necessaria
per
esercitare
la
propria
influenza.
Ma
la
“conquista”
delle
masse
si
configurava
come
un’impresa
ardua:
insita
era
in
Pericle
la
consapevolezza
della
difficoltà
di
influenzare
e
orientare
l’atteggiamento
del
popolo.
Di
qui
una
serie
di
provvedimenti.
Pur
lasciando
in
vigore
la
costituzione
di
Clistene,
Pericle
propose
una
serie
di
riforme
che,
a un
tempo,
miravano
ad
ampliare
la
partecipazione
dei
cittadini
nella
gestione
della
polis
e ad
indebolire
il
potere
dell’areopago,
il
consiglio
che
esercitava
un
ruolo
di
controllo
sulle
leggi
e
che
giudicava
i
delitti
di
sangue.
Alcuni
dei
poteri
politici
dell’areopago
furono
appunto
trasferiti
al
consiglio
dei
cinquecento,
bulé,
e al
tribunale
popolare,
eliea.
In
generale,
tutte
le
cariche
pubbliche
furono
rese
accessibili
a
cittadini
meno
facoltosi.
Infine,
introdusse
la
diaria,
un’indennità
giornaliera
in
denaro
per
coloro
che
rivestivano
un
incarico
pubblico.
A
ben
vedere,
dapprima
Pericle
assunse
una
posizione
cauta
nei
confronti
del
demos
perché
-stando
a
Plutarco-
per
l’aspetto,
la
voce
armoniosa
e la
lingua
spedita
evocava
il
tiranno
Pisistrato.
Inoltre,
era
ricco,
apparteneva
a
una
famiglia
nobile
e
aveva
amici
molto
potenti:
«tutto
ciò
gli
faceva
temere
di
poter
incorrere
nell’ostracismo»
(Per.
VII
1-2).
Inizialmente
si
tenne
perciò
lontano
dalla
politica,
volgendosi
piuttosto
alle
campagne
militari,
laddove
manifestò
valore
e
sprezzo
del
pericolo.
Pericle
decise
di
votarsi
alla
causa
del
popolo
quando
ormai
Aristide
era
morto,
Temistocle
era
stato
esiliato
e
Cimone
era
impegnato
in
spedizioni
militari.
In
tal
modo
mostrò,
contrariamente
alla
sua
stessa
natura,
di
preferire
«la
difesa
della
moltitudine
indigente
a
quella
della
minoranza
doviziosa»
(Per.
VII
3).
Narra
poi
Plutarco
che
Pericle
al
popolo
si
presentava
a
intervalli,
evitava
di
prendere
la
parola
su
qualsiasi
argomento
e
non
sempre
era
presente
in
assemblea:
«come
la
trireme
Salamina,
si
riservava
per
le
grandi
occasioni,
incaricando
di
tutto
il
resto
gli
amici
e
altri
oratori
del
suo
partito»
(Per.
VII
7).
Anche
l’abilità
oratoria
veniva
impiegata
per
l’utilità
della
polis.
Tra
le
doti
di
Pericle
vi
era
la
capacità
di
modulare
l’eloquenza,
come
uno
strumento
musicale,
in
sintonia
con
il
modus
vivendi
e
l’alto
sentire.
Peraltro,
ricevette
il
soprannome
di
Olimpio,
poiché
quando
parlava
tuonava,
lampeggiava
e
aveva
nella
lingua
un
fulmine
terribile.
Sembrerebbe
poi
che
fosse
solito
inserire
nei
suoi
discorsi
spunti
di
Anassagora,
in
modo
tale
da
arricchire
l’ars
oratoria
con
la
scienza
fisica
del
filosofo.
In
ogni
caso
-specifica
Plutarco-
Pericle
era
cauto
nel
parlare:
ogni
volta
che
si
accostava
alla
tribuna
era
solito
invocare
gli
dèi
perché
non
gli
lasciassero
sfuggire
parole
poco
adatte
all’argomento
della
discussione.
I
tentativi
di
procacciarsi
il
favore
del
popolo
valsero
a
Pericle
aspre
critiche.
Basti
pensare
al
giudizio
di
Platone
nel
Gorgia
(515
e):
Pericle
aveva
reso
il
demos
«avido
e
codardo,
loquace
e
pigro».
Certo,
lo
stratega
cercò
in
tutti
i
modi
di
ottenere
consensi:
poiché
Cimone
lo
superava
per
disponibilità
di
beni
e
mezzi,
iniziò,
ad
esempio,
a
distribuire
i
beni
pubblici.
Fece
poi
ostracizzare
come
“filo
spartano”
e
“nemico
del
popolo”
il
suo
principale
avversario
politico,
Cimone,
«che
pure
non
era
secondo
a
nessuno
per
ricchezza
e
nascita,
e
aveva
riportato
sui
barbari
le
vittorie
più
splendide
e
colmato
la
città
di
denaro
e di
bottino»
(Per.
IX
5).
Tuttavia,
quando
constatò
che
la
popolazione
ateniese
era
presa
da
rimpianto
e
rimorso
per
la
cacciata
di
Cimone,
non
esitò
a
firmare
il
decreto
attraverso
cui
richiamarlo
in
patria.
Così
si
conciliò
l’animo
della
moltitudine.
Di
fronte
al
crescente
potere
di
Pericle,
gli
aristocratici
gli
opposero
Tucidide
del
demo
di
Alopece,
parente
di
Cimone,
«uomo
saggio,
meno
abile
in
guerra
di
Cimone,
ma a
lui
superiore
come
politico
e
come
oratore»
(Per.
XI
1).
Ancora
una
volta,
Pericle
tentò
di
reprimere
le
opposizioni
servendosi
della
moltitudine,
alla
ricerca
di
consensi
e
affermazione.
Concesse
spettacoli,
pubblici
banchetti
o
processioni,
cercò
di
intrattenere
i
cittadini
in
svaghi
non
volgari.
Desideroso
di
fama,
istituì
anche
un
agone
musicale
da
includere
nelle
feste
Panatenee.
Infine,
incentivò
grandi
progetti
di
costruzioni
e
disegni
di
opere
in
modo
tale
da
offrire
alla
popolazione
rimasta
in
patria
una
fonte
di
guadagno.
Nell’immagine
di
Pericle,
la
popolazione
poteva
e
doveva
contribuire
alla
ricchezza
pubblica.
Come
sottolinea
Plutarco,
queste
opere
vennero
realizzate
in
breve
tempo,
ma
furono
destinate
a
durare
a
lungo:
«per
bellezza,
ciascuna
di
esse
fu
subito,
già
allora,
antica;
per
freschezza,
esse
appaiono
ancora
oggi
nuove
e
appena
finite.
Da
questi
monumenti
emana
come
una
perenne
giovinezza
che
li
conserva
intatti
dal
logorio
del
tempo,
quasi
abbiano
in
sé
racchiuso
uno
spirito
eternamente
fiorente
e
un’anima
che
non
conosce
vecchiezza»
(Per.
XIII
5).
La
costruzione
dei
grandi
edifici
sacri
determinò
aspre
critiche
da
parte
degli
avversari.
In
particolare,
veniva
contestato
a
Pericle
di
aver
trasportato
il
tesoro
comune
dei
Greci
da
Delo
ad
Atene
e di
aver
dilapidato
le
pubbliche
entrate.
Da
parte
sua,
lo
stratega
riuscì
ad
allontanare
da
Atene
il
suo
principale
oppositore
Tucidide,
liberandosi
di
ogni
forma
di
opposizione.
Fu
così
che
conquistò
il
potere.
Un
potere
che
Plutarco
definisce
«aristocratico
e
regale»
(Per.
XIV
3).
Pericle
concentrò
nelle
proprie
mani
«tutti
gli
affari
che
riguardavano
gli
Ateniesi:
tributi,
eserciti,
triremi,
isole,
mare
e la
grande
potenza
acquistata
sia
fra
i
Greci
che
presso
i
barbari,
e
l’egemonia
fondata
sui
popoli
soggetti,
sui
re
amici,
sui
principi
alleati»
(Per.
XV
1).
Ma
in
che
modo
gestì
tale
potere?
È
questo
un
interrogativo
che
merita
certo
una
risposta.
Stando
a
Plutarco,
Pericle
«[…]
seppe
trarre
un
sistema
di
governo
aristocratico
e
regale,
e se
ne
servì
per
il
meglio,
con
dirittura
e
senza
deviazioni,
giungendo
in
molti
casi
a
guidare
e
ammaestrare
il
popolo,
che
di
buon
grado
lo
seguiva,
con
la
forza
della
persuasione;
e se
talvolta
invece
si
impennava,
egli
tirava
le
redini,
e lo
convinceva
a
fare
ciò
che
conveniva:
non
diversamente
da
un
medico
che,
in
una
malattia
lunga
e di
vario
andamento,
prescrive
ora
cure
gradevoli
e
innocue,
ora
rimedi
drastici
e
farmaci
salutari»
(Per.
XV
1).
A
Pericle
è
dunque
da
riconoscere
il
merito
di
aver
saputo
pazientemente
equilibrare
le
spinte
irrazionali
del
popolo.
Spiega,
a
tal
proposito,
Plutarco
che
lo
stratega
era
l’unico,
dotato
dalla
natura,
in
grado
di
dominare,
con
ponderato
equilibrio,
le
passioni
che
«allignavano
in
un
popolo
padrone
di
un
così
vasto
impero,
[…]
manovrando
speranze
e
paure
come
altrettanti
timoni
per
frenare
l’arroganza
o
alleviare
e
consolare
lo
sconforto,
a
seconda
dei
casi»
(Per.
XV
2).
E
strumento
di
controllo
era
senza
dubbio
la
capacità
oratoria,
efficace
arma
di
persuasione.
La
fonte
dell’autorità
di
Pericle
non
risiedeva
semplicemente
nell’efficacia
oratoria
ma,
come
già
prima
di
Plutarco
aveva
sostenuto
Tucidide
(II
65),
nella
«reputazione
di
cui
godeva
per
l’integrità
della
vita
e
nella
fiducia
che
si
riponeva
in
lui,
uomo
palesemente
incorruttibile
e
superiore
al
denaro.
Infatti
Pericle,
che
rese
la
sua
città
da
grande
che
era
grandissima
e
ricchissima
e
superò
in
potere
molti
re e
tiranni,
alcuni
dei
quali
fecero
perfino
testamento
a
suo
favore,
non
accrebbe
di
una
sola
dracma
il
patrimonio
che
aveva
ricevuto
in
eredità
da
suo
padre»
(Per.
XV
3).
Ma
c’è
di
più.
Pericle
«non
si
lasciò
mai
vincere
dal
denaro,
benché
fosse
tutt’altro
che
indifferente
al
buon
andamento
dei
suoi
affari
privati»
(Per.
XVI
3).
Pur
risultando
poco
gradito
ai
figli
e
poco
generoso
alle
mogli,
con
tale
condotta
riuscì
a
esercitare
un
potere
assoluto,
che
si
mantenne
incontrastato
e
ininterrotto
per
non
meno
di
quindici
anni,
attraverso
la
carica
di
stratega
rinnovata
annualmente.
E le
ragioni
del
successo
politico
di
Pericle
vanno
pertanto
ricercate
nel
suo
ethos
e
nel
suo
modus
vivendi.
Integrità,
dignità,
incorruttibilità,
onestà,
pazienza
e
autocontrollo
sono
le
doti
che
caratterizzano
la
physis
di
Pericle
e
che
si
pongono
all’origine
della
sua
fama.
Sono
queste,
d’altra
parte,
le
doti
che
ogni
potenziale
uomo
di
stato
dovrebbe
possedere.
Sono
queste
le
doti
che,
ancora
oggi,
ricerchiamo
nella
nostra
classe
politica.
Sono
queste
le
doti
per
cui,
a
distanza
di
secoli,
Pericle
continua
a
essere
per
noi
modello
di
riferimento.
Riferimenti bibliografici:
H.
Bengtson,
Einführung
in
die
alte
Geschichte,
München
1977,
trad.
it.
Bologna
1990.
H.
Bengtson,
Griechische
Geschichte:
von
den
Anfängen
bis
in
die
römische
Kaiserzeit,
München
1977,
trad.
it.
Bologna
1989.
T.
E.
Duff,
Plutarch’s
Lives,
Exploring
Virtue
and
Vice,
Oxford
1999.
C.B.R.
Pelling,
Plutarch’s
Methods
of
work
in
the
Roman
Lives,
«The
Journal
of
Hellenic
Studies»
XCIX
(1979),
74 -
96.
C.B.R.
Pelling,
Plutarch:
Roman
Heroes
and
Greek
culture,
in
M.
Griffin,
J.
Barnes,
Philosophia
Togata,
Oxford
1989,
199ss.
A.
Santoni
(ed.),
Plutarco,
Vita
di
Pericle
e di
Fabio
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