N. 114 - Giugno 2017
(CXLV)
GIUSTIZIA, CONVIVENZA E SOLIDARIETÀ
SULLA VITA E SUL PENSIERO DI EMMANUEL MOUNIER
E DI
JACQUES
MARITAIN
-
pARTE
i
di
Raffaele
Pisani
Abbiamo
inteso volutamente
premettere
il
termine
“vita”
a
quello
di
“pensiero”,
allo
scopo
di
restare
fedeli
allo
spirito
personalistico
a
cui
i
due
pensatori
sopraccitati
si
sono
in
vario
modo
riferiti.
La
persona
intesa
come
unità
ontologica
di
spirito
e
materia,
di
anima
e
corpo,
di
essere
razionale
incarnato,
che
liberamente
e
coscientemente
agisce
nei
confronti
degli
altri
e
dell’ambiente
circostante,
è da
intendersi
paradigma
fondamentale
per
una
società
che
intenda
rispondere
ai
bisogni
di
ognuno
e
che
sia
capace
di
valorizzare
i
talenti
naturali
di
tutti
i
suoi
membri.
Il
concetto
di
persona
al
quale
ci
riferiamo
ha
storicamente
origine
nell’ambito
della
riflessione
teologica
sulla
rivelazione,
più
precisamente,
nasce
dalle
puntualizzazioni
dei
padri
della
chiesa
sui
misteri
trinitari
e
cristologici.
La
secolarizzazione
del
concetto
e
quindi
la
sua
applicazione
all’ambito
antropologico
non
deve
far
dimenticare
la
sua
fonte
primaria.
La
storia
del
pensiero
filosofico
e
teologico
ha
visto
grandi
pensatori
cimentarsi
nelle
varie
definizioni
di
persona.
Ne
riportiamo
un
paio:
«Persona
est
rationalis
naturae
individua
substantia»
(Severino Boezio).
«Esse
per
se
subsistens
in
natura
intellectuali»
(Tommaso
d’Aquino).
Ma
venendo
al
nostro
tempo
e
alle
figure
che
ci
siamo
proposti
di
considerare,
dovremo
porre
la
nostra
attenzione
sull’Europa
e in
particolare
sulla
Francia
degli
anni
Trenta
del
Novecento.
Le
masse
popolari
che
avevano
partecipato
alla
Grande
Guerra
(anche
coloro
che
non
erano
state
al
fronte
ne
avevano
subito
le
conseguenze)
erano
coinvolte
nella
vita
politica,
a
volte
in
modo
cosciente
e
ragionato,
più
spesso
in
maniera
irrazionale
e
convulsa.
Le
ideologie
contrapposte
fornivano
orizzonti
di
speranza
a
porzioni
più
o
meno
ampie
di
umanità.
La
guerra
e la
successiva
crisi
economica
mondiale
avevano
ormai
spazzato
via
l’ottimismo
positivista
di
una
classe
borghese
che
due
decenni
prima
viveva
la
sua
ultima
fase
della
Belle
époque.
L’individualismo
borghese
con
il
suo
corrispettivo
del
liberismo
economico,
nonostante
la
sua
vittoria
nella
guerra
contro
il
capitalismo
autoritario
e
nazionalistico,
stava
dimostrando
tutti
i
suoi
limiti.
Dall’altra
parte
si
contrapponeva
il
regime
comunista
sovietico,
che
aveva
imboccato
la
strada
del
totalitarismo
spietato
e
feroce,
anche
se
in
Europa
questo
aspetto
era
in
gran
parte
sconosciuto.
Di
fronte
a
queste
opposte
visioni
del
mondo,
entrambe
inaccettabili
per
un
cristiano,
dalle
quali
la
Chiesa
cattolica
aveva
già
preso
le
distanze
ancor
prima
che
mostrassero
pienamente
loro
frutti
velenosi,
c’è
chi
intravede
una
Troisième
force.
Emmanuel
Mounier
e
Georges
Izard
tentano
di
fondare
nel
1932
un
movimento
che
con
questo
nome
indica
chiaramente
un
modo
di
porsi
tra
la
prima
forza,
il
capitalismo,
e la
seconda,
il
comunismo.
Certo
non
basta
un
nome
e
non
basta
nemmeno
la
sincera
volontà
di
agire,
le
idee
crescono
e si
sviluppano
a
seconda
dell’humus
culturale
e
sociale
nel
quale
sono
poste,
a
volte
sembrano
scomparire,
magari
sopravvivendo
allo
stato
di
spore,
per
poi
riprendere
a
svilupparsi
in
altri
tempi.
Il
movimento
Troisième
force
viene
criticato
da
Jacques
Maritain,
che
lo
vede
come
una
semplice
appendice
della
Seconda
forza.
Anche
Mounier
rivedrà
la
sua
posizione
sul
gruppo,
ma
intanto,
siamo
sempre
nel
1932,
esce
il
primo
numero
della
rivista
Esprit,
di
cui
egli
stesso
ne è
direttore.
Si
tratta
in
un
certo
senso
di
un
manifesto
del
personalismo
comunitario.
Nel
primo
numero
appare
un
articolo
dal
titolo
Refaire
la
Reinaissance,
espressione
che
indica
una
decisa
volontà
di
rinnovamento.
Si
tratta
di
rinnovare,
ma
come?
Mounier
non
teme
di
usare,
la
parola
rivoluzione,
termine
assai
carico
di
significati
politici,
negli
anni
Trenta
del
Novecento
ancor
più
di
oggi.
Egli
però
precisa
che
deve
trattarsi
di
una
rivoluzione
che
dovrà
riguardare
la
persona
nella
sua
interezza,
non
un
semplice
cambiamento
delle
strutture
economiche
e
politiche;
a
tal
proposito
usa
una
similitudine
illuminante
per
rendere
evidente
la
sua
concezione
di
persona
e
del
suo
relativo
modo
di
agire
caratterizzato
dalla
totalità:
«Tutto
l’uomo
si
china
a
bere»,
ne
consegue
che
la
rivoluzione
personalistica
o
sarà
integrale,
vale
a
dire
che
dovrà
toccare
la
radice
spirituale
che
caratterizza
l’uomo,
o
non
potrà
essere.
Essa
realizzerà
il
suo
compito
se
saprà
rispondere
al
tempo
stesso
alle
esigenze
del
singolo
e a
quelle
della
comunità,
se
saprà
far
vedere
come
le
due
cose
non
sono
in
antitesi
ma
si
integrano
reciprocamente.
L’assolutizzazione
di
uno
dei
due
termini
genera
delle
conseguenze
nefaste,
quelle
che
si
potevano
vedere
nell’Europa
degli
anni
Trenta
e,
con
le
dovute
differenze,
anche
quelle
che
caratterizzano
il
nostro
tempo.