N. 49 - Gennaio 2012
(LXXX)
Paul Ricoeur: violenza, giustizia e amore
La crisi dell’uomo del XX secolo
di Dalia Fortini
Parlare
di
XX
secolo
oggi
significa
ricordare
un
periodo
di
forti
sconvolgimenti,
significa
guardare
in
faccia
la
crisi
dell’uomo.
Dimentico
della
sua
umanità
e
della
sua
dignità
l’essere
umano
si è
macchiato
di
grandi
crimini
più
o
meno
conosciuti,
più
o
meno
famosi,
che
l’hanno
portato
inevitabilmente
a
riflettere
su
se
stesso
e
sulla
propria
identità,
che
dalla
storia
ne
usciva
profondamente
cambiata
e
limitata.
Il
colonialismo,
la
prima
guerra
mondiale,
la
seconda
guerra
mondiale,
la
guerra
fredda,
sono
solo
gli
esempi
più
lampanti
di
quello
che
l’uomo
è
stato
capace
di
costruire
per
se
stesso,
o
meglio
ciò
che
è
stato
capace
di
distruggere
di
se
stesso.
È in
questo
panorama
che
nasce
una
filosofia
volta
alla
speranza.
Tanti
sono
stati
i
pensieri
politico-filosofici
che
hanno
cercato
di
indirizzare
l’uomo
verso
un
nuovo
assetto,
un
nuovo
equilibrio.
Ma
fondamentalmente
mancava
l’ammissione
da
parte
dell’essere
umano
di
una
fragilità
di
base,
una
necessità
di
fondo
facente
parte
della
natura
stessa
dell’uomo:
il
bisogno
degli
altri
e
del
vivere
con
e
per
l’altro.
Non
si
può
essere
politici,
non
si
può
essere
cittadini
se
prima
non
si
ha
consapevolezza
di
essere
umani.
In
questo
pensiero
si
inserisce
la
riflessione
di
Paul
Ricoeur,
francese
di
Valence,
nato
nel
1913
e
morto
nel
2005.
Un
filosofo
teso
a
ristabilire
un
valore
che
sembrava
definitivamente
perduto:
quello
del
sé
rispetto
all’altro.
Un
uomo
goloso
di
sapere
e
profondamente
consapevole
della
sofferenza.
Sua
madre
infatti
morì
poco
dopo
la
sua
nascita
e
suo
padre
fu
ucciso
sul
fronte
agli
albori
della
prima
guerra
mondiale.
Orfano,
Ricoeur
si
dedicò
allo
studio,
impegnandosi
poi
sul
fronte
politico
durante
gli
anni
universitari
alla
Sorbona
di
Parigi.
Un
ragazzo
conscio
dell’importanza
dell’etica
e
della
società
umana,
politica,
probabilmente
condizionato
in
modo
forte
anche
dalla
religione
protestante.
Allo
scoppio
della
seconda
guerra
mondiale,
Ricoeur,
intimamente
sorpreso,
venne
fatto
prigioniero
in
Pomerania.
È lì
che
lui
si
dedicò
alla
cultura,
alla
filosofia:
una
prigionia
“intellettuale”
che
arricchì
il
suo
bagaglio
culturale.
Approfondì
la
conoscenza
della
filosofia
tedesca,
in
particolare
Husserl,
e
conobbe
vari
filosofi
con
cui
rimase
in
contatto
e
con
cui
ebbe
un
proficuo
dialogo.
La
guerra
insomma,
almeno
per
Ricoeur,
aveva
dato
dei
frutti.
E
dopo
la
guerra
cominciò
il
suo
cammino
di
pubblicazione,
che
lo
vide
impegnato
a
capire:
“chi
è
l’uomo”,
“chi
è
che
agisce”,
“chi
è
responsabile”.
Lo
fece
studiando
e
guardando
alla
storia,
alla
sua
esperienza
di
vita,
a
ciò
che
lui
stesso
aveva
visto
con
i
suoi
occhi:
nella
storia
dell’uomo
c’è
dolore,
c’è
sofferenza.
Partendo
da
questo
presupposto
Ricoeur
scavò
nelle
profondità
dell’anima
umana
e ne
cercò
le
contraddizioni,
domandandosi
il
perché
di
tanta
violenza.
Perché
il
male
c’era,
qualcosa
di
incomprensibile
nell’essere
umano
c’era
e
questa
contraddizione
attirò
l’attenzione
di
questo
pensatore
francese:
giustizia
e
violenza
a
confronto,
amore
ed
ego
all’opposto.
Quale
Stato
può
dirsi
giusto?
Quale
forma
di
governo?
Le
istituzioni
fanno
sempre
il
bene
per
la
popolazione,
scelgono
il
meglio?
Quali
i
fini?
Quali
i
moventi?
Ricoeur
riflette
e
scrive,
alla
ricerca
del
“sé”.
Non
tutto
è
chiaro
quando
qualcuno
dice
“io”,
non
è
così
chiaro
all’uomo
chi
è
veramente.
Così
cerchiamo
noi
stessi
attraverso
gli
altri,
sono
proprio
gli
altri
a
ricordare
alla
persona
che
si
appartiene,
che
è un
“sé”
perché
a
contatto
con
un
altro.
Ed è
da
questo
che
nasce
la
società.
L’uomo
ha
bisogno
degli
altri,
non
può
fare
a
meno
di
vivere
una
dimensione
interpersonale,
e
questa
“società”
va
coordinata,
va
indubbiamente
seguita
affinché
tutti
possano
dirsi
liberi
di
poter
vivere
questa
dimensione
di
interrelazione.
Ed è
così
che
si
inserisce
l’istituzione,
che
dovrebbe
tutelare
le
persone
considerando
queste
come
fini
e
non
come
mezzi.
L’economia
è
necessaria
a
uno
Stato,
indubbiamente,
ma
non
può
fare
da
padrona;
crollerebbe
quella
che
è la
dignità
assoluta
dell’uomo.
Marx
quindi
l’aveva
intuito:
l’economia
non
può
dirigere
e
condizionare
un
popolo,
lo
farebbe
a
tal
punto
da
spersonalizzare
l’umanità.
Non
saremmo
più
persone,
ma
massa,
gente
utile
solo
al
fine
della
produzione.
E
questo
non
garantirebbe
più
alcun
diritto
umano.
Prima
di
tutto
quindi
è
l’importanza
dell’essere
umano
che
deve
guidare
le
istituzioni
ad
agire.
Semplice
utopia?
Per
Ricoeur
la
giustizia
deve
essere
“corretta”
dall’amore,
deve
essere
integrata
con
questo
sentimento
di
sollecitudine
verso
gli
altri.
Dando
un’occhiata
al
mondo
si
potrebbe
dire
che
giustizia
è né
più
né
meno
ciò
che,
per
dirla
banalmente,
è
vantaggioso
ai
governi
e ai
governanti
più
che
al
popolo.
E
non
si
distingue
la
forma
di
governo:
dalla
dittatura
di
Chávez
in
Venezuela
alla
democrazia
italiana,
sembra
non
ci
sia
via
di
scampo.
Scenari
“apocalittici”
di
crisi
che
sembra
somiglieranno
presto
a
quei
film
americani
come
Armageddon,
dove
servirebbero
davvero
eroi
disposti
a
sacrificarsi
per
salvare
Paesi
che
ormai
rallentano
la
caduta,
ma
non
la
fermano
e
sembra
solo
questione
di
tempo.
Ricoeur
è
legato
al
senso
etico
della
vita
umana.
Un
senso
che
riguarda
il
fine
della
vita,
come
vita
buona,
degna.
Al
centro
della
sua
trattazione
il
dono,
il
perdono,
la
generosità,
per
sottolineare
la
struttura
di
reciprocità
che
dovrebbe
governare
l’idea
di
giustizia
e
coordinarla
a
fare
il
meglio
e a
gestire
in
modo
equo
i
beni.
Ciò
non
significa
dare
a
tutti
lo
stesso,
ma
dare
a
ciascuno
ciò
che
gli
spetta,
nel
proprio
ruolo
di
cittadino;
una
giustizia
distributiva
e
non
egualitaria.
L’uguaglianza
non
si
determina
perciò
nell’avere
e
dare
lo
stesso,
creando
una
società
priva
di
differenze
e
povera
di
personalità,
ma
nell’esaltare
le
differenze
che
rendono
ogni
persona
capace
nel
proprio
ambito.
Ovviamente,
dove
è
esagerazione
si
rischia
che
l’esaltazione
degeneri
in
un
capitalismo
sfrenato
che
inevitabilmente
condurrebbe
ad
altrettante
ingiustizie.
Ricoeur
ha
avuto
sempre
di
fronte
agli
occhi
la
violenza
degli
Stati:
dopo
la
seconda
guerra
mondiale,
i
tentativi
dell’Algeria,
colonia
francese,
d’indipendenza
attraverso
continue
rivolte,
le
torture
dei
francesi
ai
danni
della
colonia
che
il
governo
sembrava
ignorare,
portarono
il
filosofo
a
soffrire
di
fronte
all’ingiustizia
dell’agire
umano.
L’uomo
è
indubbiamente
fallibile,
la
sua
identità
legata
alla
storia,
e di
questo
Ricoeur
è
conscio,
lo
accetta,
e
dedica
anni
di
riflessione
a
questo
proposito.
La
chiave
di
volta
per
risolvere
la
questione
è
l’“altro”,
inteso
come
persona
che
mi
sta
di
fronte
e
che
mi
chiede
di
rispettare
la
sua
dignità
umana.
Scrive
Ricoeur:
«Da
filosofo
non
posso
dire
da
dove
proviene
la
voce
della
coscienza
[…]:
viene,
forse,
da
un’altra
persona
che
posso
“guardare
in
faccia”».
Senza
il
confronto
diretto
con
l’altro,
senza
la
consapevolezza
dell’“io”
come
“l’altro”
nella
regola
aurea
“non
fare
agli
altri
ciò
che
non
vuoi
sia
fatto
a
te”,
l’uomo
perde
consapevolezza
del
significato
di
giustizia,
di
libertà,
di
equità,
nonché
di
amore,
e si
muove
su
un
terreno
arido
e
avido
di
interessi
che
portano
alla
distruzione
primariamente
di
uno
Stato
di
diritto
e
poi
indubbiamente
di
uno
“Stato”
umano.