IL PATTO D'ACCIAIO E LA GUERRA
(nota: tratto dal Diario di Galeazzo
Ciano)
La tragedia italiana ha, per me, avuto
inizio nell'agosto 1939, quando,
recatomi di mia iniziativa a Salisburgo,
mi trovai improvvisamente di fronte alla
fredda, cinica determinazione tedesca di
scatenare il conflitto.
L'alleanza
era stata firmata nel maggio. lo l'avevo
sempre avversata ed avevo fatto in modo
che le persistenti offerte tedesche
fossero per lungo tempo rimaste senza
seguito. Non vi era - a mio avviso -
nessuna ragione per legarci - vita e
morte - alla sorte della Germania
nazista. Ero stato invece favorevole ad
una politica di collaborazione perché,
nella nostra posizione geografica, si
può e si deve detestare la massa di
ottanta milioni di tedeschi, brutalmente
piantata nel cuore dell'Europa, ma non
si può ignorarla. La decisione di
stringere l'alleanza fu presa da
Mussolini, all'improvviso, mentre io mi
trovavo a Milano con Ribbentrop. Alcuni
giornali americani avevano stampato che
la metropoli lombarda aveva accolto con
ostilità il ministro tedesco e che
questa era la prova del diminuito
prestigio personale di Mussolini.
Inde ira.
Per telefono ricevetti l'ordine, il più
perentorio, di aderire alle richieste
tedesche di alleanza, che da più di un
anno avevo lasciato in sospeso e che
pensavo di lasciarcele per molto tempo
ancora. Così nacque il Patto d'acciaio.
E una decisione che ha avuto influenze
tanto sinistre sulla vita e sul domani
dell'intero popolo italiano è dovuta,
esclusivamente, alla reazione dispettosa
di un dittatore contro la prosa, del
tutto irresponsabile e senza valore, di
alcuni giornalisti stranieri... Una
clausola però aveva l'alleanza: quella
che per un perio do di tre-quattro anni,
né l'Italia né la Germania avrebbero
sollevate questioni atte a turbare
l'ordine europeo. Invece nell'estate del
'39 la Germania avanzò le sue richieste
antipolacche, naturalmente a nostra
insaputa; anzi Ribbentrop smentì a più
riprese al nostro ambasciatore
l'intenzione germanica di spingere la
polemica fino alle estreme conseguenze.
Nonostante queste smentite, rimasi
incredulo: volli sincerarmi di persona e
l'11 agosto andai a Salisburgo.
Fu nella
sua residenza che Ribbentrop, mentre
attendevamo di sederci a mensa, mi
comunicò la decisione di dar fuoco alle
polveri, così come avrebbe potuto darmi
notizia del più modesto affare di
ordinaria amministrazione. "Ebbene,
Ribbentrop", gli chiesi passeggiando nel
giardino al suo fianco, "che cosa
volete? Il Corridoio o Danzica?" "Ormai
non più", e mi sbarrò addosso quei suoi
freddi occhi da Museo Grévin: "vogliamo
la guerra". Sentii che la decisione era
irrevocabile e vidi, in un secondo, la
tragedia che incombeva sull'umanità.
Dieci ore durarono quel giorno le
conversazioni - non sempre cordiali -
col mio collega tedesco, e altrettanto,
nei due giorni successivi, quelle che io
ebbi con Hitler. I miei argomenti
scivolavano sulla loro volontà come
l'acqua sul marmo. Niente ormai avrebbe
potuto impedire l'esecuzione di un
criminoso progetto lungamente meditato,
accarezzato, discusso in quelle cupe
riunioni che il Führer è solito tenere
ogni sera tra i suoi più intimi. La
follia del Capo era diventata la
religione dei seguaci. Ogni obbiezione
restava senza risposta, quando poi non
cadeva nello scherno. Hitler arrivò
perfino a dirmi che io, uomo del Sud,
non potevo capire quanto lui, uomo
germanico, avesse bisogno di mettere le
mani sul legname delle foreste
polacche"...
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