N. 43 - Luglio 2011
(LXXIV)
passeggiata sanpietroburghese
a due e a "quattro zampe"
di Giulia Gabriele
San
Pietroburgo,
la
Venezia
del
Nord,
fu
fondata
il
27
maggio
1703
dallo
zar
Pietro
il
Grande
(1672-1725)
sul
delta
del
fiume
Neva.
La
città
fu a
lungo
la
capitale
dell'Impero
russo
e a
tutt'oggi
rimane
uno
dei
più
importanti
centri
culturali
d'Europa,
nonché
la
seconda
città
più
grande
della
Russia
(la
prima
è la
capitale
Mosca).
Sulla
sua
superficie
si
stagliano
musei
e
monumenti
culle
di
una
storia
antica,
padroni
del
passato,
imponente
e
glorioso,
di
una
Russia
sommersa.
Io
l’ho
vista,
San
Pietroburgo.
Ricordo
che
sentivo
molto
freddo,
nonostante
avessi
su
il
mio
miglior
pelo
invernale,
tanto
che
alla
fine
dovetti
indossare
uno
di
quei
copricapi
spessi
e
caldi
che
usano
lì.
Così
potei
iniziare
la
mia
passeggiata
per
le
vie
della
città.
Premetto
sin
d’ora,
però,
che
non
la
visitai
tutta
(e
come
avrei
potuto?
Ho
quattro
zampe,
certo,
ma
sono
piccole
e
delicate)
e
che
ciò
che
qui
leggerete
sono
ricordi,
forse
un
po’
romanzati,
di
una
passeggiata
innevata
ricolma
di
nostalgia
e
impunemente
scolorita
dal
tempo.
La
mia
prima
tappa
fu
l’Ermitage.
Questo
complesso
architettonico
che
si
snoda
sulle
sponde
del
fiume
Neva,
ospita
la
più
grande
collezione
di
quadri
al
mondo
e fa
parte
del
Palazzo
d’Inverno,
che
per
oltre
duecento
anni
è
stato
la
residenza
(invernale)
di
zar
e
zarine.
Fu
l’imperatrice
Elisabetta
(1709-1762)
a
volerne
la
costruzione
ma
non
a
vederne
la
fine
(morì
nel
1762,
quando
fu
inaugurato)
né
la
vera
maestosità.
Infatti,
fu
sotto
Caterina
II
detta
la
Grande
(1729-1796)
che
il
Museo
vide
il
suo
maggior
sviluppo:
durante
il
suo
regno
vennero
costruiti
il
Piccolo
e il
Grande
Ermitage
e la
collezione
d’arte
venne
grandemente
ampliata.
Tra
le
sue
mura
sono
a
tutt’oggi
custodite
le
opere
di
alcuni
tra
gli
artisti
più
pregevoli:
si
passa
con
disinvoltura
da
Caravaggio
a
Leonardo
da
Vinci,
passando
per
Monet
e
arrivando
a
Picasso.
E i
gatti
marzolini
ne
sono
dei
custodi
eccezionali.
Sono
considerati
dei
veri
e
propri
dipendenti
del
Museo
che,
da
ormai
300
anni,
impediscono
ai
topi
ingordi
di
farsi
delle
grandi
scorpacciate
con
le
tele
dei
dipinti.
Sono
ben
voluti
da
tutti,
compresi
i
colleghi
umani
che
se
ne
prendono
cura,
facendo
in
modo
che
la
loro
dieta
non
si
basi
solo
su
carne
di
topo
(buona,
ma
non
sufficientemente
nutriente).
In
tutto
sono
cinquanta
e il
loro
capostipite,
un
olandese,
fu
introdotto
nel
Palazzo,
durante
il
Settecento,
da
Pietro
il
Grande
nel
mese
di
marzo
(da
qui
il
nomignolo
di
“gatti
marzolini”).
Fedot,
il
capogruppo
dei
custodi
della
Scuola
italiana,
era
davvero
un
gran
simpaticone
(un
gattone
grigio
dal
manto
tigrato,
con
gli
occhi
grandi
e
cerulei
e il
muso,
tondo,
un
po’
schiacciato)
e
volle
a
tutti
i
costi
farmi
da
guida.
Fu
lui
a
raccontarmi
la
storia
dell’Ermitage
e
del
Palazzo
d’Inverno
e
per
me
fece
uno
strappo
alla
regola:
uscì
dal
Museo
durante
il
turno
di
guardia.
In
fondo
era
mattina,
e i
topi
a
quell’ora
sono
restii
a
farsi
vedere.
Fuori
nevicava
piano,
di
quella
neve
leggera
e
acquosa
che
si
scioglie
appena
avverte
il
calore
di
un
corpo.
Il
Palazzo
e il
Museo
dominavano,
barocchi,
la
Neva
ghiacciata.
Fedot
e
io,
lasciataci
quella
meraviglia
alle
spalle,
scivolammo
lievi
lungo
le
strade
sanpietroburghesi.
Costeggiando
il
fiume
giungemmo
alla
seconda
tappa:
il
Palazzo
di
Marmo.
Di
stile
neoclassico
e
barocco,
l’edificio
fu
fatto
costruire
da
Caterina
II
per
il
suo
amante,
il
conte
Orlov,
impiegando
32
marmi
diversi.
Attualmente
è
una
filiale
del
Museo
russo.
Un
palazzo
che
ti
aspetteresti
massiccio
e
pesante,
sembra
una
nuvola.
Una
nuvola
gonfia
e
imponente,
certo,
ma
pur
sempre
una
nuvola,
pronta
a
essere
spazzata
via
dal
primo
alito
di
vento.
Ero
in
contemplazione
quando,
all’improvviso,
Fedot
drizzò
le
orecchie,
mi
guardò
sorridente
e mi
fece
segno
di
seguirlo.
Corremmo
spediti
tra
la
neve
e
più
correvamo
più
mi
perdevo,
ma
più
capivo
cosa
stavamo
inseguendo:
una
musica.
Arrivammo
in
un
cortile
dove
una
vecchia
radio
trasmetteva,
con
flauti
e
violini,
ciò
che
inseguivamo.
“Ascolta”
mi
disse
Fedot,
“questa
è
una
chanson
sulla
nostra
Piter”.
Dai
balconi
intorno
al
cortile
spuntavano
tante
teste
e
code
feline,
tutte
assorte
e
acciambellate.
E
poi
la
vidi,
una
bellissima
gattina
nera
e
bianca
sul
petto.
Occhi
verdi
chiarissimi
e
affusolati,
e un
pelo
folto
e
lucido.
Fedot
capì
al
volo:
“Polina”,
mi
sussurrò.
Polina,
ripetei.
Piter,
Piter
tu
sola
sai,
tu
sola
hai
visto
tanto,
e
tutto
quello
che
voglio
dirti
è
solo
una
parola.
Ho
comprato
di
nuovo
il
biglietto
del
treno.
Lui
era
un
po’
geloso
e un
po’
si
era
agitato.
Mi
ha
accompagnata
alla
stazione
[…]
Ti
saluto
città!
Passo lungo
le piazze
e le
cattedrali.
Da
te
si
trova
l'incrociatore
Aurora
e
tante
altre
navi.
[…]
Invece
io
vivo
su
un
altro
pianeta,
dove
c’è
poca
luce
e
vento
di
sera.
Polina
nel
frattempo
era
scesa
dal
balcone
e
ora
era
a
pochi
passi
da
me.
Mi
guardava
con
la
testa
un
po’
inclinata
verso
destra,
perplessa.
Fedot
le
fece
cenno
di
avvicinarsi
e ci
presentò.
Lei
continuava
a
guardarmi
in
quel
modo
strano,
adesso
però
era
curiosa.
Il
mio
compagno
di
avventura
non
la
smetteva
di
parlare,
di
raccontare
barzellette
e
aneddoti
divertenti
come
di
quella
volta
in
cui,
sicuramente,
il
cagnolino
del
Ritratto
di
coniugi
(L.
Lotto,
1524
ca.)
gli
avesse
abbaiato.
“Amici,
per
me
si è
fatto
tardi.
È
ora
che
torni
di
guardia
o
rischio
l’ammutinamento”,
esordì
Fedot
scherzoso.
E
aggiunse:
“Polina,
cugina
cara,
saresti
così
gentile
da
continuare
la
passeggiata
con
il
nostro
amico
italiano?”.
Cugina?!,
pensai
imbarazzato.
Avevo
fatto
proprio
la
figura
del
broccolo
e
Fedot
certamente
ne
avrebbe
riso
di
gusto
almeno
per
altre
tre
vite.
Polina
sembrò
non
accorgersi
del
mio
empasse
e si
disse
felice
di
continuare
a
farmi
da
guida
per
Piter.
“Mi
raccomando,
passa
a
salutarmi
al
Museo
prima
di
andartene
questa
sera!”,
urlò
Fedot
mentre
già
spariva
tra
la
neve.
Polina
e io
uscimmo
dal
cortile
e
capii
subito
dove
ci
trovavamo:
sulla
Prospettiva
Nevskij.
Lunga
4,5
chilometri,
secondo
lo
scrittore
russo
Nikolaj
Gogol’
è
“il
punto
universale
di
confluenza
di
Pietroburgo”.
Effettivamente,
il
Viale
della
Neva
è la
strada
principale
della
città
sulla
quale
si
stagliano
alcuni
degli
edifici
più
importanti
di
San
Pietroburgo
(il
Palazzo
d'Inverno,
ad
esempio).
Fu
Pietro
il
Grande
a
volerne
la
costruzione
per
collegare
Piter
all'attuale
capitale
Mosca
e,
in
considerazione
dei
150
anni
che
ci
vollero
per
completare
l'edificazione
dei
palazzi
che
vi
si
affacciano,
possiamo
dire
che
passeggiare
lungo
la
Prospettiva
Nevskij
significa
ripercorrere
buona
parte
della
storia
dell'architettura
russa.
"Nella
Biblioteca
nazionale
lavora
un
persiano
bianco
bellissimo,
amico
e
collega
di
Fedot.
Si
trova
lì
per
salvaguardare
i
libri
e
gli
incartamenti
dai
topi...
come
avrai
capito,
qui
a
Peter
i
gatti
sono
grandi
amici
dell'arte
e
della
memoria",
sottolineò
Polina
mentre
camminavamo
accanto
alla
Neva.
Da
come
si
guardava
intorno
nel
raccontarmi
di
quando
la
sua
bisnonna
Alisa
vide
la
messa
in
funzione
della
prima
linea
di
tram
proprio
su
quella
strada
(1853),
pensai
che
stesse
cercando
qualcosa
o
qualcuno...
"Amos,
Boris!"
urlò.
Ci
affacciammo
sul
fiume
e
vidi
una
scena
stranissima:
due
gatti
che,
dopo
aver
fatto
un
buco
nel
ghiaccio,
stavano
pescando.
"Sono
i
miei
ingegnosissimi
fratelli...
ho
fame
e
loro
pescano
il
pesce
migliore
di
tutta
la
zona",
mi
informò.
Raggiungemmo
i
due
e
gozzovigliammo
allegramente:
effettivamente
quello
fu
il
miglior
pesce
di
tutta
la
mia
vita.
"Simpatici
i
tuoi
fratelli",
dissi
mentre
avevamo
ripreso
la
nostra
camminata.
"Sì,
quasi
quanto
Fedot,
che
si
diverte
con
tutti
a
non
presentarmi
subito
come
sua
cugina...".
Beh,
almeno
non
sono
stato
l'unico
broccolo.
"Però
tu
devi
andargli
proprio
a
genio,
perché
di
solito
non
porta
nessuno
al
cortile,
e
figuriamoci
se
mi
fa
fare
da
guida
per
la
città
a
estranei!".
Grazie
Fedot,
pensai,
e le
sorrisi.
Ormai
il
sole
stava
tramontando
e il
ghiaccio
della
Neva
si
tingeva
di
arancione.
E fu
immersa
in
quei
colori
che
trovammo
la
chiesa
del
Sangue
Versato.
Fu
costruita
in
memoria
dell'imperatore
Alessandro
II,
ucciso
da
un
attacco
terroristico
(1881),
proprio
nel
luogo
dell'assassinio
e
completata
dopo
24
anni
(1883-1907).
Maestosa,
colorata
e
stilisticamente
riconducibile
al
Medioevo
russo,
sorge
sulle
rive
del
canale
Gribaedova
e al
suo
interno
sono
presenti
7.000
metri
quadri
di
mosaico.
La
sua
è
sicuramente
una
storia
dettata
dalla
pazienza:
nata
per
scopi
privati,
si
ritrovò
ad
accogliere
dapprima
centinaia
di
persone
(sotto
i
bolscevichi
che
l'aprirono
al
pubblico)
e
poi
a
divenire
un
magazzino
per
le
verdure,
un
obitorio
e
infine
ancora
un
magazzino
per
un
teatro.
Fu
solo
nel
1970,
scampando
negli
anni
a
vari
progetti
di
demolizione
e
subendo
però
molti
saccheggi,
che
s’iniziò
un'opera
di
restauro
durata
27
anni.
Oggi
è
ancora
una
chiesa
sconsacrata
e un
museo
dedicato
al
mosaico.
"Strano.
Vi
date
tanto
da
fare
per
preservare
dipinti
e
testi
anche
stranieri
e
invece
avete
quasi
rischiato
di
perdere
quest'opera
d'arte
intimamente
russa",
osai
dire
rompendo
quel
silenzio.
"Sarà
per
quella
storia
che
'l'erba
del
vicino
è
sempre
più
verde'.
Purtroppo
a
volte
siamo
ciechi",
mi
rispose,
amabile
e
assorta.
Riaccompagnai
Polina
al
cortile,
lei
salì
agile
verso
il
suo
balcone
e mi
guardò
fisso,
immersa
nel
tramonto.
Non
ci
dicemmo
nulla
quella
sera,
nulla
di
particolare
almeno
ma
in
qualche
modo
ci
addomesticammo.
Promisi
che
non
l'avrei
mai
dimenticata,
e
non
lo
feci.
Mentre
mi
allontanavo
percepii
il
suo
sguardo
su
di
me e
in
virtù
di
quello
sguardo
mi
piace
pensare
che
nemmeno
lei
mi
abbia
dimenticato.
Posso
dire
con
certezza
che
fu
una
delle
mie
amicizie
più
dolci
e
per
questo
sarò
sempre
in
debito
con
Peter.
Corsi
verso
il
Museo,
ora
immerso
nelle
luci
artificiali,
e
vidi
Fedot
che
mi
aspettava
all'entrata.
Stranamente
non
parlò,
ma
s’impettì
e mi
salutò
come
se
fossi
un
suo
superiore.
Ricambiai
il
saluto
e mi
allontanai
verso
la
Stazione.
Quella
fu
la
prima
e
unica
volta
che
vidi
San
Pietroburgo
e i
miei
amici.
Infine,
non
preoccupatevi,
non
avete
le
traveggole:
questo
racconto
l’ho
fatto
proprio
io,
un
bellissimo
gatto
semipersiano,
grazie
alla
mia
padroncina
che,
con
amorevole
pazienza,
ha
ascoltato
tutti
i
miei
miagolii.
Però…
beh,
tanto
vale
dire
la
verità.
In
realtà
il
mio
è un
racconto
di
seconda
zampa.
Il
padre
di
questa
storia
è un
altro
gatto,
regale
e
gentile
(il
più
regale
e il
più
gentile),
che
conobbi
tanto
tempo
fa e
che
ora,
mi
han
detto,
passi
giorni
migliori
in
un’altra
cuccia
calda
e
accogliente,
imparando
a
guidare
le
nuvole.
Non
mi
credete?
Tipico
di
voi
umani,
così
amabilmente
vuoti
di
fede
e
fantasia…