N. 86 - Febbraio 2015
(CXVII)
PRIMA DI PIERSANTI
STORIA DI "UN ALTRO" DEMOCRISTIANO ONESTO
di Giuseppe Tramontana
La storia è nota. E, quindi, come direbbe il filosofo, poco
conosciuta.
È
una
storia
che
mi è
tornata
in
mente
in
questi
giorni.
A furia di parlare del neo Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella
e
del
fratello
buono,
vulcanico
ed
integerrimo
Piersanti
(un
po’
meno,
a
dire
il
vero,
dell’altro
fratello,
Antonino),
mi è
tornata
in
mente
la
storia
di
un
altro
democristiano,
un
democristiano
onesto
e
integerrimo.
Ed
uno
così
– in
Sicilia
specialmente
–
non
è
mai
stata
merce
a
buon
mercato.
L’hombre vertical di cui ci occupiamo ha – o meglio,
aveva
– un
nome
e un
cognome:
si
chiamava
Pasquale
Almerico,
era
scapolo,
aveva
quasi
43
anni.
E,
soprattutto,
era
una
persona
onesta.
Per questo la sua storia è degna di essere raccontata e
ri-raccontata.
Affinché
la
gente
sappia,
ricordi
e,
soprattutto,
capisca
che,
spesso,
in
Italia,
il
problema
dei
problemi
si
chiama
onestà.
O,
se
volete,
dirittura
morale.
La sera del 25 marzo 1957, Pasquale Almerico, 43enne, maestro
elementare,
da
circa
due
anni
sindaco
di
Camporeale,
comune
di
settemila
anime
alle
porte
di
Palermo,
e
segretario
cittadino
della
DC,
era
appena
uscito
dal
“Circolo
Italia”,
un
circolo
di
borghesi
masticatori
di
avvizzite
chiacchiere
paesane,
e
stava
percorrendo
Via
Minghetti,
in
pieno
centro.
Ormai ci andava di rado in quel circolo. Anche se, ultimamente,
aveva
deciso
di
rompere
quella
vita
da
quaresima
che
si
era
imposto
e
fare
quello
che
gli
piaceva
di
più:
stare
tra
la
sua
gente.
Che le cose andassero come dovevano andare: meglio morire
all’impiedi
che
vivere
in
ginocchio,
come
aveva
detto
un
grande
sindacalista
ucciso
una
decina
d’anni
prima.
E
Pasquale,
alla
fine,
aveva
scelto
la
strada
da
seguire.
Quella sera del 25 marzo 1957, la televisione trasmetteva -
ovviamente
in
bianco
e
nero
- le
immagini
della
storica
firma
del
Trattato
del
Mercato
Comune
Europeo,
il
cosiddetto
Trattato
di
Roma.
Ma, allora, ad avere i televisori in casa erano rari e la
gente
si
ritrovava
nei
circoli
o
nelle
sale
parrocchiali
per
non
perdersi
gli
spettacoli.
E quella sera proprio a quella storica firma aveva assistito
Almerico
davanti
alla
tv
del
Circolo
“Italia”. Certo, di preoccupato era preoccupato, ma, visto che era in
ballo,
doveva
ballare.
Lo stato d’ansia era cominciato quando, alcuni mesi prima,
si
era
presentato
in
segreteria
un
tipo
poco
raccomandabile,
don
Vanni
Sacco
si
chiamava.
Secco
come
un’acciuga,
coppola
nera,
scuro
di
vestiti
e di
sentimenti,
taciturno
e
sordido
come
un
rancore,
don
Vanni
era
il
boss
riconosciuto
della
mafia
di
Camporeale.
Pasquale Almerico lo sapeva. E come faceva a non saperlo?
Ecco
perché
quando
don
Vanni
aveva
tirato
fuori
dalla
tasca
della
giacca
quattrocento
domande
di
iscrizione
alla
DC,
lui
aveva
deciso
di
rifiutare,
d
non
accettarle.
Quattrocento iscrizioni, quattrocento tessere! Un successone
per
la
DC
di
Camporeale,
paese
in
cui
per
tradizione
era
forte
il
vecchio
notabilato
liberale
e
monarchico.
Eppure,
Almerico
non
aveva
esultato.
Anzi.
Lui sapeva cosa voleva dire quella mossa. Voleva dire che
don
Vanni
e la
sua
cricca
non
trovavano
più
attraente
i
vecchi
liberali
di
Vittorio
Emanuele
Orlando.
Non
lo
trovavano
attraente
perché
non
se
li
filava
quasi
più
nessuno.
I
tempi
erano
cambiato
e
anche
le
referenze,
i
garanti
e i
padrini
politici.
Di conseguenza, anche i voti e gli appoggi stavano cambiando
casacca
e
bandiera.
E,
così
stava
mutando
l’influenza
nella
vita
politica,
nell’amministrazione,
nell’assegnazione
degli
appalti
e
dei
subappalti,
nella
possibilità
di
condizionare
la
vita
di
centinaia,
migliaia
di
esseri
umani,
decretandone
la
sottomissione
e
l’infelicità.
Almerico sapeva tutto questo e sapeva che ormai era una
questione
di
tempo:
i
mafiosi
erano
passati
in
massa
dai
vecchi,
arrugginiti
partiti
monarchico
e
liberale
alla
nuovo,
rampante,
spregiudicata
DC,
il
nuovo
partito
di
governo
e,.
soprattutto,
di
potere.
Era lì che lo avevano fiutato, il potere, ed era lì che si
stavano
fiondavano.
Anzi
si
azzeccavano,
come
si
dice
in
siciliano.
Il segretario sapeva tutto questo. Avrebbe potuto far finta
di
nulla
e
accettare
le
iscrizioni,
ma
non
era
nella
sua
indole.
La
mattina,
lui,
voleva
continuare
a
guardarsi
allo
specchio
senza
vergogna
e
senza
conati.
Quindi,
tutto,
ma
di
far
finta
di
nulla
non
se
ne
parlava.
Era un cattolico praticante, uno di quelli che aveva scelto
di
fare
politica
per
passione
e
spirito
di
servizio
e
aveva
scelto
di
farla
nella
DC
perché
era
il
partito
che
incarnava
(o
avrebbe
dovuto
farlo)
gli
autentici
valori
cristiani.
I valori dell’aiuto ai più bisognosi, della solidarietà,
dell’altruismo,
della
lotta
alla
miseria.
E
questi
valori
non
si
piegano
al
potere
né
lui
si
sarebbe
sottomesso
ai
mafiosi
mettendo
il
paese
nelle
loro
mani.
E
così
aveva
detto
no.
Don Vanni e i suoi accoliti non l’avevano presa bene. Avevano
fatto
sapere
che
se
non
avesse
accettato
le
tessere,
per
lui
sarebbero
stati
problemi.
Problemi
seri.
Ma
Almerico
non
si
fece
impressionare.
Anzi,
pensò
di
informare
i
vertici
della
Dc.
Prima la DC provinciale e poi quella regionale. Lì gli avrebbero
dato
aiuti
e
consiglio,
avrebbe
trovato
sostegno
e
sponda.
Lì
avrebbe
trovato
solidarietà.
Male
cose
non
erano
andate
così.
Né Nino Gullotti, segretario provinciale, né Giovanni Gioia,
proconsole
fanfaniano
in
Sicilia,
avevano
dato
credito
all’allarme
di
Almerico.
O
meglio,
Gioia,
a
dire
il
vero,
gli
aveva
dato
credito
solo
che,
per
lui,
quella
di
Vanni
Sacco
era
tutt’altro
che
una
minaccia:
era
un’opportunità.
E l’aveva detto a chiare lettere al povero ex sindaco. Gli
aveva
telefonato
dal
suo
quartier
generale
palermitano
e
gli
aveva
impartito
la
più
classica
delle
lezioni
di
realismo
politico:
“Caro
Almerico,”
gli
aveva
detto,
con
paludato
tono
partenalistico,
“qui
a
Palermo
capiamo
i
suoi
dubbi,
le
sue
perplessità,
ma
sa
il
patito
ha
bisogno
di
partiti
con
cui
coalizzarsi.
Ha
bisogno
di
crescere,
se
vuole
affermate
i
suoi
valori,
le
sue
strategie.
Se
vuole
fermare
i
comunisti.
Lei
forse
non
si è
reso
conto
che
il
partito
ha
bisogno
di
compromessi:
senza
compromessi
non
si
va
da
nessuna
parte”.
E gli aveva consigliato, nel caso stentasse a capire o non
condividesse
la
linea
politica
di
Palermo,
di
farsi
da
parte:
che
se
ne
andasse
e
lasciasse
la
segreteria
a
qualcuno
di
più
duttile,
di
più
accomodante.
Amareggiato, minacciato, isolato, Almerico però a dimettersi
non
ci
aveva
nemmeno
pensato.
Anzi,
aveva
scritto
un
paio
dossier
nei
quali
cui
faceva
nomi
e
cognomi
e
nei
quali
avvertiva
del
proprio
eventuale,
probabile
assassinio.
I dossier li inviò a Palermo e a Roma. Poi iniziò a vivere
nell’attesa
della
morte.
All’inizio
alcuni
amici,
armati,
lo
accompagnavano
quando
uscivano.
Una
sera,
due
sere,
tre
sere,
una
settimana,
un
mese.
Poi,
si
sa
come
vanno
queste
cose,
la
gente
ha
anche
altri
impegni,
ha
famiglia,
moglie,
figli,
la
visita
ai
parenti,
il
suocero
all’ospedale,
l’appuntamento
dal
dottore…
e
alla
fine
si
ritrovò
da
solo.
E da
solo,
o
quasi,
andò
incontro
alla
morte.
Finita la trasmissione, uscì dal circolo insieme al fratello
Liborio.
La
sera
era
fresca,
in
giro
poche
anime.
Giunto
in
Via
Minghetti,
venne
circondato
da
cinque
uomini
a
cavallo,
cinque
cavalieri
dell’apocalisse
armati
di
lupare,
mitra
e
pistole.
Sul suo corpo lazzariato, il medico legale contò non meno
di
centoquaranta
colpi
d’arma
da
fuoco,
compresi
i
sette
colpi
di
grazia
sparati
a
bruciapelo.
Poi andò via la luce. Il silenzio che seguì agli spari,
rotto
solo
dai
rantoli
della
vittima,
fu
quello
della
morte,
quello
carico
degli
umori
malefici
che
aleggiano
su
un
luogo
di
sterminio.
In
lontananza,
il
rumore
degli
zoccoli
dei
cavalli
che
si
allontanavano.
Quando tornò la luce, accanto ad Almerico c’erano altre
vittime,
un
passante,
Antonio
Pollari,
colpito
a
morte,
Liborio
e
altre
tre
persone
– un
ragazzo,
una
ragazza
e un
anziano
–
tutti
feriti
in
maniera
non
grave.
A distanza di quasi trent’anni, nel 1984, una signora di
Camporeale,
Maria
Saladino,
divenuta
nel
frattempo
un’operatrice
sociale
capace
di
gestire
vari
centri
per
la
cura
di
bambini
disagiati,
così
raccontò
il
fatto
al
settimanale
“I
Siciliani”:
“Quando
arrivai,
avevano
già
caricato
Pasqualino
a
bordo
di
una
macchina,
perché
avrebbero
voluto
condurlo
all’ospedale
di
Palermo.
Nessuno
ancora
capiva
che
quel
povero
corpo
era
stato
ferito
da
centinaia
di
proiettili,
che
la
sua
vita
correva
via
irreparabilmente.
Riuscii
ad
infilare
la
testa
nel
finestrino:
era
pallidissimo
ed
aveva
sangue
dappertutto.
Pasqualino,
gli
dissi,
prega
insieme
a
me:
Gesù
mio,
misericordia,
Gesù
mio,
misericordia.
Lo
udii
ripetere
quelle
parole.
Poi
non
disse
più
nulla.
Gli
afferrai
la
mano,
probabilmente
morì
in
quell’attimo”.
E veniamo agli assassini. Anche secondo la prima Commissione
antimafia,
a
decretare
la
morte
del
sindaco
Almerico
era
stato
Vanni
Sacco,
a
cui
il
“piccolo”
maestro
elementare
aveva
osato
negare
le
famose
tessere.
Un oltraggio. Ma, più ancora, un ostacolo al processo di
penetrazione
della
mafia
nel
partito
scudocrociato
e
nel
Comune
di
Camporeale.
D’altra parte, che Vanni Sacco fosse abituato a spazzar via
gli
oppositori
a
colpi
di
lupara
non
era
una
novità:
la
stessa
cosa
aveva
fatto
1°
aprile
1948
col
segretario
della
Camera
del
lavoro,
il
socialista
Calogero
Cangelosi,
che
si
era
convinto
di
togliere
la
terra
agli
agrari
per
darla
ai
contadini.
Ma,
allora,
don
Vanni
l’aveva
fatta
franca.
Per l’omicidio Almerico, invece, almeno all’inizio le cose
sembrarono
andare
diversamente.
Il
capomafia
venne
arrestato
con
l’accusa
di
avere
ordinato
il
delitto.
Lo
portarono
all’Ucciardone,
ma
vi
rimase
solo
qualche
giorno.
Accusò vari disturbi fisici e venne trasferito all’ospedale
della
“Feliciuzza”
di
Palermo
(un
sorta
di
Hotel
di
lusso
per
pezzi
da
novanta),
fino
all’assoluzione
per
insufficienza
di
prove.
E
così
la
mafia
di
Vanni
Sacco
si
impossessò
di
Camporeale.
Lo confermò, nel 1976, Pio La Torre, nella relazione di
minoranza
della
Commissione
Antimafia:
“L’onorevole
Gioia
–
scrisse
il
parlamentare
comunista
-
non
batté
ciglio
e
proseguì
imperterrito
nell’opera
di
assorbimento
delle
cosche
mafiose
nella
DC”.
Vanni Sacco,
infatti,
venne
accolto
con
tutti
gli
onori
nel
partito
democristiano.
Sarebbe
morto,
da
uomo
libero,
nel
suo
letto,
il 4
aprile 1960.
Invece, solo nel 2001, l’Assemblea Regionale Siciliana ha
trovato
il
modo
di
ridare
“l’onore”
a
Pasquale
Almerico,
inserendolo
nel
lungo
elenco
dei
caduti
“per
la
libertà
e la
democrazia”
in
Sicilia.
Riferimenti bibliografici
Alfio
Caruso,
Da
cosa
nasce
cosa.
Storia
della
mafia
dal
1943
a
oggi,
Milano,
2008;
Giuseppe
Fava,
I
Siciliani,
Firenze,
1980;
Giuseppe
Fava,
Mafia.
Da
Giuliano
a
Dalla
Chiesa,
Catania,
1982
(II
ed.,
Roma,
1984);
Salvatore
Lupo,
Storia
della
mafia.
Dalle
origini
ai
nostri
giorni,
Roma,
2004;
Umberto
Santino,
Storia
del
movimento
antimafia,
Roma,
2000.