N°
173
/ MAGGIO 2022 (CCIV)
contemporanea
PASOLINI E GLI SCRITTI CORSARI
UN AFFRESCO SOCIALE, CULTURALE E POLITICO DEGLI ANNI
SETTANTA ITALIANI
di Alessio Guglielmini
«Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza:
se non quella che mi proviene paradossalmente dal
non averla o dal non averla voluta; dall’essermi
messo in condizione di non avere niente da perdere,
e quindi di non essere fedele a nessun patto che non
sia quello con il lettore».
È in questo passaggio di un editoriale uscito sul
Corriere della Sera, il 6 ottobre 1974, col
titolo “Chiesa e Potere”, che prende vita il senso
programmatico degli Scritti corsari di Pier
Paolo Pasolini, raccolta di articoli apparsi tra il
1973 e il 1975, principalmente sul Corriere,
a cui vanno aggiunti documenti e integrazioni che
nella nota introduttiva Pasolini affida alla
ricostruzione del lettore.
È dunque il lettore il silenzioso protagonista degli
Scritti corsari? Un lettore a cui Pasolini,
in quanto intellettuale che non ha nulla da perdere,
delega in piena coscienza la complessa analisi di
alcuni dei temi più scottanti della politica e della
società italiane della prima metà degli anni ’70 del
Novecento
Innanzitutto, il fascismo, quello nuovo e quello
vecchio. Pasolini delinea principalmente due trame
lungo i suoi interventi. Il fascismo classico,
quello del Ventennio, è sfociato direttamente nel
regime democristiano, ideale continuatore di una
politica accentratrice, paternalista, tutelare
dell’ordine. Ma, ravvisando il tramonto di una DC
sempre più amministratrice e burocratica – si veda
in tal senso l’editoriale del 18 febbraio 1975,
comparso sul Corriere con il titolo“Gli
insostituibili Nixon italiani” – Pasolini reclama
l’emergere di un nuovo fascismo, imperniato sulla
forza totalizzante dell’edonismo consumistico. Una
odierna e prossima dittatura, fondata sugli
interessi capitalistici e sul dominio delle masse
tramite le mode e le offertecommerciali, si
preannuncia negli Scritti corsari come la
vera egemonia a cui le forze tradizionali
devonoadeguarsi.
Tra queste forze tradizionali si colloca chiaramente
anche la Chiesa romana. Il Pasolini corsaro ne
investiga spesso lo stato di salute, rinvenendo
paradossalmente nella perdita di prestigio da parte
del Vaticano una grande opportunità di rinascita. A
ispirare questo pensiero è lo “storico discorsetto
di Castelgandolfo”, tenuto da Paolo VI l’11
settembre del 1974. Circa dieci giorni dopo,
l’articolo sul Corriere dal titolo “I dilemmi
di un Papa, oggi” ripercorre le parole sincere, fin
troppo sincere, del Pontefice in quel famoso
“discorsetto”, derubricato come tale perché nessuno
ha voluto dargli il peso che Pasolini gli ha, al
contrario, assegnato.
Ma cosa ha detto Paolo VI quell’11 settembre? Che la
Chiesa, citando Pasolini, “è stata superata dal
mondo; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo
incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più
bisogno della Chiesa”. Pasolini, di fronte a tanta
desolante consapevolezza, si ritrova quasi a tifare
per la Chiesa, invocando che essa, in quanto organo
millenario, trovi la forza di sopravvivere a una
liquidazione così ingloriosa.
In che modo? Passando finalmente all’opposizione,
ponendosi come guida di “tutti coloro che rifiutano
il nuovo potere consumistico che è completamente
irreligioso; totalitario; violento; falsamente
tollerante”. Il “marxista” Pasolini auspica qui una
sorta di alleanza contro un nemico comune, a
condizione che la Chiesa accetti di tornare alle
origini e alla rivolta rispetto al potere. Un potere
che del resto non la sostiene più: Pasolini, in
altre occasioni e a titolo emblematico, cita
l’irriverente caso dei jeans Jesus e del loro
slogan: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”.
Il regime democristiano, clerico-fascista, come lo
chiama Pasolini, un tempo sarebbe intervenuto ad
arginare, a censurare, mentre adesso è il Moloch
edonistico e consumistico a imporre le sue regole
destinate a uniformare le masse sotto un nuovo
credo.
Neanche il fascismo del Ventennio, sostiene
Pasolini, era riuscito a cambiare gli italiani, se
non alcuni di essi; si trattava al limite di una
vernice dietro alla quale la vitalità e la schietta
essenza del popolo erano rimaste invariate. Questo
nuovo fascismo, viceversa, va a toccare nell’intimo
l’individuo, va ad annichilire ogni tipo di
particolarismo culturale, dialettale, ancestrale.
È l’uniformazione, del resto, una delle prove
lampanti circa il fatto che il nuovo sistema
edonistico-consumistico abbia cancellato le
differenze, esteriori e interiori, omologando le
ambizioni di ceti e classi.
Uno dei passi più illuminanti, che apre peraltro la
raccolta degli Scritti corsari, è incentrato
sull’equivoco dei capelli lunghi. Il 7 gennaio 1973
Pasolini, sul Corriere, esamina l’evoluzione
del suo rapporto con i “capelloni”. In precedenza,
era dalla loro parte: i capelli lunghi nel ‘66-67
erano ancora un’apparizione, una novità, un
linguaggio che funzionava in silenzio, attraverso la
semplicità della mimica; il capello lungo non
implicava un’adesione politica puntuale,
rappresentava una ribellione antiborghese a tutto
campo.
Poi i capelloni cominciarono a tramutarsi in
emissari della sinistra e delle barricate
studentesche del 1968. Ma cos’erano già diventati
poco dopo, in seguito alla strage di piazza Fontana?
Una mimesi dietro alla quale si nascondevano anche i
provocatori neofascisti.
Proprio nella sovrapposizione della sottocultura di
sinistra e di quella di destra, oltre l’apparenza
fluente dei capelli lunghi, Pasolini rinviene
l’imporsi di un equivoco Destra-Sinistra che è anche
il termometro di una società confusa rispetto ai
suoi segni identificativi e alle sue ideologie
effettive.
Citare gli anni di piombo e le stragi, di Milano
come di Brescia, come dell’Italicus, equivale ad
aprire altre importanti finestre sulle riflessioni
del Pasolini di Scritti corsari. Da una parte
vige il rimpianto dell’intellettuale, che non si è
preso la briga di dialogare con i giovani
neofascisti. Sarebbe dovere suo, e degli altri
uomini di pensiero, provare a entrare in contatto
con queste figure incerte, ideologicamente ibride,
che possono essere riportate sulla retta via prima
che sia troppo tardi. Essi non sono nati fascisti:
“forse sarebbe bastata una sola piccola diversa
esperienza”, “un solo semplice incontro”, perché il
loro destino cambiasse. È questo che Pasolini annota
in una lettera aperta a Calvino, pubblicata l’8
luglio del 1974 su Paese Sera.
Citare quelle stragi per Pasolini è anche l’inizio
di un serrato J’accuse, materializzatosi nel
veemente articolo del 14 novembre 1974, sotto il
titolo “Che cos’è questo golpe?”, sempre dalle
pagine del Corriere. Qui Pasolini esordisce
con un lapidario “Io so”. Ossia, io conosco i
responsabili delle stragi, salvo non averne le
prove. Prove che un intellettuale non può avere,
mentre esse, inevitabilmente, potrebbero essere
nella disponibilità di giornalisti e politici,
insieme agli indizi.
Nel menzionare lo scandalo di Nixon, Pasolini chiude
quel suo intervento evocando una soluzione di
compromesso: ossia che i nomi dei responsabili
vengano fatti dai minori responsabili di quegli
eventi contro i maggiori responsabili. Questo, in
definitiva, sarebbe “il vero colpo di Stato”,
l’unico possibile all’interno di una nazione oramai
spaccata in due.
L’ennesimo argomento di divisione affrontato dal
Pasolini degli Scritti corsari è infine
quello dell’aborto. Se su altre dispute solidarizza
con Pannella, sull’aborto Pasolini si schiera a
favore della vita, a qualsiasi costo e
incondizionatamente. Il contributo di Pasolini è
delicato, sotto ogni prospettiva possibile, in parte
per via del dibattito che ne deriva con noti
intellettuali dell’epoca: Eco, Bocca, Moravia, la
Ginzburg, per citarne alcuni.
La difesa del feto è avvalorata da Pasolini anche
attraverso gli studi della psicanalisi, da Freud a
Ferenczi, nella ferma convinzione che la vita
sussista già in forma di embrione: «Io so che in
nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un
altrettanto furibonda, totale, essenziale volontà di
vita che nel feto. La sua ansia di attuare la
propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la
storia del genere umano, ha qualcosa di
irresistibile e perciò di assoluto e di gioioso.
Anche se poi nasce un imbecille».
La polemica di quel Pasolini è inoltre incentrata
sulla gestione del coito. Prima di arrivare alla
misura estrema dell’aborto, non sarebbe meglio
ragionare in termini di “anticoncezionali, pillole,
tecniche amatorie diverse” e non procreanti,
strumenti e informazioni da rendere accessibili,
tramite la stampa e la televisione, alle masse
piccolo-borghesi e popolari che non possono essere
chiaramente preparate in materia?
In questo, come negli altri dibattiti, si coglie
l’isolamento straordinario di un intellettuale che,
oltre a non aver voluto nessuna autorevolezza, non
ha nemmeno voluto/potuto posizionarsi su una
mattonella sicura, che fosse protetta e garantita da
un partito, che fosse pienamente appoggiata da una
redazione o abbracciata saldamente da una corrente
di pensiero.
Nemico dichiarato della Democrazia Cristiana, ma non
abbastanza appiattito e allineato per confortare l’intelligencia
comunista; troppo indipendente sul tema tabù
dell’aborto; troppo distante dalla cultura borghese,
a cui oppone ostinatamente il recupero della cultura
popolare; troppo dissonante rispetto al comune
pensiero. Un corsaro, appunto, senza alcuna bandiera
legittima e con un equipaggio altamente incerto al
seguito.
Riferimenti bibliografici:
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti,
Milano 2000.