Ragazzi di vita
Pier Paolo Pasolini E il reportage
narrativo
di Riccardo Renzi
Una delle opere pasoliniane che
meglio racchiude lo sperimentalismo
linguistico pasoliniano, in
particolare nell’uso del dialetto è
senza dubbio Ragazzi di vita.
Il romanzo si compone di otto
capitoli attraverso i quali non
emerge una vicenda né la storia di
un solo personaggio, ma la
rappresentazione della vita del
sottoproletariato delle borgate
romane, che secondo l’autore
costituisce l’ultima rappresentanza
sociale della vera e autentica
italianità.
Nell’opera è narrata la vita di un
gruppo di "pischelli" di Pietralata,
quartiere dell’infernale periferia
romana degli anni ’50. Il Riccetto,
Marcello, Alduccio, il Caciotta, il
Lenzetta, Genesio, il Begalone, il
Pistoletta sono loro i “ragazzi di
vita”.
Il Riccetto abita con la famiglia in
una scuola divenuta centro di
raccolta per sfollati. Vive come
molti suoi coetanei di espedienti,
aggirandosi nei bassifondi della
città popolati di ladri, truffatori
e prostitute. Si forma vivendo per
strada e apprendendo dall’esperienza
di vita attraverso furti di vario
genere, il gioco d’azzardo e
l’incontro con la prostituta Nadia.
Riesce sempre a cavarsela tranne una
volta in cui accusato di un furto
non commesso viene condannato a tre
anni di galera. Il Riccetto è capace
però anche di slanci di generosità,
come quando si tuffa nelle acque del
Tevere col rischio di annegare per
salvare una rondine. Nell’avviarsi
alla maturità sceglie il lavoro e si
integra nella società consumistica.
Egli viene inglobato dalla società
omologatrice del boom economico.
Gli altri ragazzi di vita, che nella
seconda parte del romanzo acquistano
maggiore risalto, sono destinati al
carcere, alla prostituzione e alla
morte precoce. Alduccio è alle prese
con una famiglia disgraziata: padre
alcolizzato, madre epilettica,
sorella incinta con manie suicide.
Marcello muore sotto le macerie di
un edificio, Amerigo si uccide, il
Begalone è gravemente ammalato. Il
Piattoletta muore bruciato al palo
della tortura durante un gioco
feroce; Genesio, il più taciturno,
annega nelle acque dell’Aniene.
Il Riccetto assiste alla tragedia,
ma non interviene perché ora che ha
un lavoro vuole evitare guai. Questi
ragazzi sono gli ultimi “esemplari”
di una società rurale/suburbana che
stava scomparendo, poiché proprio in
quegli anni si comprende come o ci
si adegua alla nuova società, oppure
si soccombe come “i ragazzi di
vita”.
Pasolini iniziò la stesura del
romanzo agli inizi degli anni ’50 e
venne pubblicato nel 1955. Per
comprendere però tale opera bisogna
conoscere il rapporto dell’autore
con il proletariato urbano, con il
dialetto e con Roma. Partiamo però
proprio da quest’ultimo punto. Roma,
o meglio dire il rapporto con la
città, è uno dei temi ricorrenti
nella narrativa pasoliniana. Già nel
1957 Paolini stesso ha dichiarato
sulla rivista La Fiera Letteraria
come il rapporto con la città fosse
alla base della sua narrativa: «Roma
nella mia narrativa ha quella
fondamentale importanza (...) in
quanto violento trauma e violenta
carica di vitalità, cioè esperienza
di un mondo e quindi in un certo
senso del mondo».
Quello di Pasolini con la Capitale è
un rapporto intimo e carnale. Con
Ragazzi di vita, egli ha cercato
di porre più luce sulla realtà umana
e sociale di un ceto trascurato,
abbandonato quasi a se stesso, ma
che in questo stato conserva la sua
autenticità. Nel suo primo film,
Accattone, Pasolini descrive
Roma in un'intervista con parole che
rivelano la causa di questa
scrittura violenta: «A Roma,
tuguri, disoccupazione, caos,
bruttezza, centinaia di migliaia di
persone che vivono con cinquantamila
lire al mese. Io, coi miei occhi,
verifico ogni giorno che Tiburtino,
il Quarticciolo, Primavalle,
Pietralata e mille altri quartieri
sono gli stessi di dieci anni fa, la
gente vive allo stesso modo di dieci
anni fa».
In Ragazzi di vita, appare
questo rapporto nella scelta di
descrivere le avventure e le
sventure di personaggi anonimi del
popolo o della piccola borghesia
romana, in una Roma moderna e un po'
stralunata del primo decennio del
dopoguerra; una Roma libera e
insieme alienata; molteplice, vitale
e insieme deturpata, piena di
incontri, di imprevisti, di
avventure, ma anche di rassegnazioni
e di angosce.
Della città romana Pasolini
privilegia la vita notturna delle
prostitute, dei loro protettori e
clienti, dei ragazzi di vita in quei
luoghi non istituzionali come
l'estrema periferia delle borgate; e
dà maggiore importanza a una
"società" ai confini, ai margini,
fatta di faccendieri, profittatori,
ingenui, prostitute, ecc. Solo
partendo da tali presupposti è
spiegabile la scelta del dialetto
romanesco come lingua principale.
Ciò che colpisce è la notevole
padronanza del linguaggio delle
borgate romane che l’autore ha
studiato e maturato in soli cinque
anni di vita nella Capitale. L’opera
è in italiano, ma la struttura
sintattica utilizzata è spesso
quella del dialetto romanesco, con
frequente impiego di parole e
locuzioni dialettali e gergali.
Infatti, è interessante ricordare
come l’opera avesse in appendice un
glossario. Esso si compone di una
centinaia di parole nel gergo
romanesco.
Prima però di continuare il nostro
percorso all’interno dell’opera
pasoliniana per far comprendere
agevolmente al lettore l’operazione
compiuta da Pasolini, è bene
spiegare la differenza tra dialetto
e italiano standard. L’italiano per
secoli, a causa del suo prevalente
utilizzo scritto, è stata una lingua
stabile e poco soggetta a mutamenti.
La lingua letteraria prevedeva una
netta distinzione tra poesia e
prosa, dunque si erano venute a
creare due lingue standard scritte.
Si aggiunga a tutto ciò che l’uso
scritto consentiva una sostanziale e
abbondante polimorfia.
Nel corso del Novecento sino ad
arrivare ai giorni nostri,
l’italiano si è andato allontanando
da queste peculiarità della forma
scritta, con la rinuncia alla
polimorfia e l’abbandono di arcaismi
poetici. A ciò si aggiunga il fatto
che l’insegnamento scolastico, la
diffusione dei mezzi di
comunicazione e in parte il primo
conflitto mondiale hanno contribuito
alla diffusione di una lingua
standard che nel corso del tempo è
andata a levigare tutti i
particolarismi dialettali regionali.
Dunque, si è andati e si sta andando
sempre più verso una
standardizzazione della lingua, ma
cosa si intende con questo concetto?
La lingua standard, semplificando
molto, può essere definita come
l’uso linguistico che l’intera
comunità di parlanti riconosce come
corretto, dunque il modello di
lingua proposto dalle grammatiche,
quello utilizzato dalle persone
istruite sia nello scritto, che nel
parlato.
Il dialetto è invece una varietà
linguistica usata da abitanti
originari di una particolare area
geografica. Per prima cosa va
sottolineato come il dialetto vero
si differenzi dalle lingue regionali
degli anni Sessanta del Novecento,
quando, infatti, Pasolini ci parla
di dialetto romanesco in realtà si
riferisce alla lingua regionale.
L’italiano regionale come specifica
varietà dell’italiano è stato
individuato con chiarezza negli anni
Sessanta del Novecento da Giovan
Battista Pellegrini, che individua
quattro diverse tastiere che
costituiscono il repertorio
linguistico degli italiani:
-
l’italiano letterario;
-
l’italiano regionale;
- il
dialetto regionale;
- il
dialetto locale.
L’italiano regionale origina
dall’incrocio della lingua nazionale
con il dialetto e rappresenta una
novità dialettale del nostro paese.
Dal punto di vista linguistico i
dialetti italiani e la lingua
nazionale sono sullo stesso piano:
entrambi hanno avuto la stessa
"nobile" origine, cioè il latino.
Mentre dal punto di vista
sociologico italiano e dialetti
hanno un diverso ruolo: il primo è
la lingua della comunicazione
all'interno della Repubblica
Italiana; mentre i secondi hanno uso
più limitato, e, in qualche caso, si
limitano persino all'uso famigliare.
Parlando di questi anni
linguisticamente rivoluzionari,
Pasolini prospetta una «rivoluzione
nella storia dell’italiano, e
l’annunciava usando il suo stile
immaginoso; non è detto che un poeta
non intraveda la verità meglio di un
uomo di scienza, seppur in modo
diverso». Pasolini si era reso
immediatamente conto che stava
nascendo una nuova tipologia di
“italiano tecnologico” e che a
livello regionale il nuovo italiano
standard si stava andando a fondere
con i dialetti locali, andando anche
lì a generare una nuova tipologia di
lingua regionale. Egli però si
allarmò immediatamente per la
perdita dell’espressionismo
dialettale. La diffusione
dell’italiano standard però aveva
contribuito ad abbassare i dati
sull’analfabetismo. Nel 1861 vi era
in Italia il 75% di analfabeti; nel
1911 si erano ridotti al 40%; nel
1951 essi erano sotto al 14%, mentre
nel 1961 erano solo l’8,3%.
Il dialetto e le lingue regionali
continuarono però a essere sfruttati
e il dialetto più sfruttato a
livello cinematografico è il
romanesco, essendo privo di
caratteri formali molto spiccati,
oltre a essere compreso facilmente
da tutti gli italiani, tanto da
poter essere considerato una sorta
di parlata comune dell'Italia. Lo
sfruttamento del romanesco a livello
cinematografico lo ha preservato
dalle erosioni e modificazioni
linguistiche.
L’uso del dialetto per Pasolini si
rivelava fondamentale per
rappresentare più fedelmente la
realtà osservata nelle borgate
romane. Il romanesco era
l'espressione linguistica vera e
propria di questa realtà. Sarebbe
stato impossibile produrre lo stesso
effetto e ottenere la stessa
efficacia mediante l’uso
dell’italiano standard. Pasolini,
non essendo romano di origine,
appena giunto a Roma nel 1950 si
dedica fervidamente allo studio
dettagliato del gergo romano,
prendendo numerosi appunti, per
poterli sfruttare più tardi nel
romanzo.
Dietro all’opera risiede un
approfondito lavoro filologico,
poiché Pasolini non si ferma alla
lingua parlata allora nella
periferia romana (lingua regionale),
ma la ripulisce e va a ricostruire
il dialetto romanesco più autentico.
Un complesso lavoro di preparazione
era di fatti necessario non soltanto
perché lo scrittore era abituato a
parlare parallelamente sia in
italiano, che in dialetto friuliano,
ma anche perché non apparteneva alla
classe sociale descritta nel
romanzo, cioè il sottoproletariato,
ma invece alla borghesia. Questa è
una discesa verso gli inferi, verso
un mondo parallelo di cui la
borghesia non è a conoscenza. Lo
scendere al livello di un mondo
culturalmente inferiore al suo,
Pasolini lo spiega così: «Nell'immergersi
nel mondo dialettale e gergale della
"borgata" io porto con me una
coscienza che giustifica la mia
operazione né più né meno di quanto
giustifichi, ad esempio,
l'operazione di un dirigente di
partito: il quale, come me,
appartiene alla classe borghese, e
da questa si allontana, ripudiando
momentaneamente le necessità, per
capire e far proprie le necessità
della classe proletaria o comunque
popolare».
Pasolini inoltre apprezzava tanto
tale dialetto per la sua veridicità,
lo sentiva più autentico e vivace di
altri. Egli ha dedicato al gergo
dialettale alcuni suoi studi
giovanile nei quali lo considera
sempre più nobile e autentico
dell’italiano standard. Stando a
Pasolini, si tratta della: «concrezione
linguistica di una cultura
inferiore, tipica di classi dominate
a frequente contatto con le
dominanti: servili e irrispettose;
ipocrite e miscredenti; beneficiate
e spietate. È la condizione
psicologica di una plebe che è
rimasta per secoli "irresponsabile"».
Per Pasolini il dialetto
rappresentava l’ultima essenza pura
presente sulla terra, poiché era
parlato da gente semplice al di
fuori delle dinamiche economiche del
mondo capitalistico. C’è però
un’altra questione che non va
tralasciata legata alla scelta del
dialetto, cioè che dai neorealisti
era considerato l’unica modalità
autentica per raccontare la realtà.
L’opera di Pasolini va però oltre
poiché si presenta, sotto alla veste
del romanzo, come un reportage
etno-antropologico, dunque il
dialetto che va a utilizzare non è
quello circoscritto del Lazio, ma
quello delle borgate di Roma stessa.
Questa fu una scelta coraggiosa, ma
azzeccata per avvolgere di intenso
realismo il quadro, per non
disperdere la durezza e la
disperazione. Quello che descrive
Pasolini è un mondo di miseria,
caotico, ove prevale sempre la
violenza e dunque l’unico gergo che
può realmente rappresentare tutto
ciò è il romanesco di borgata.
L’assunzione da parte del narratore
del gergo parlato come lingua
ufficiale dell’opera rappresenta un
forte e aperto richiamo all’uso
verghiano di tale tecnica, inoltre
l’utilizzo dell’indiretto libero,
conduce a una regressione nei
personaggi dello scrittore stesso,
che ne imita il modo di parlare.
L’opera viene accolta immediatamente
come qualcosa di scandaloso e fuori
dalle righe e lo scrittore stesso è
additato dal Consiglio dei Ministri
come qualcuno di pericoloso, che
sarebbe stato meglio far tacere,
perciò il Consiglio invia il 21
luglio del 1955 un annuncio alla
Procura della Repubblica,
denunciando il libro per il suo
supposto carattere pornografico.
L'annuncio è seguito dal processo,
in cui l’intellettuale così
rispondeva alle accuse il 4 luglio
1956: «Io non ho inteso fare un
romanzo nel senso classico della
parola, ho voluto soltanto scrivere
un libro. Il libro è una
testimonianza della vita da me
vissuta per due anni in un rione a
Roma. Ho voluto fare un
documentario. La parlata in dialetto
romanesco riportata nel romanzo è
stata un'esigenza stilistica. Quando
antropomorfizzo la cagna ho voluto
dire che molte volte i ragazzi
purtroppo conducono la vita come
animali. Nel titolo "Ragazzi di
vita" ho inteso dire ragazzi di
malavita. Nel descrivere i tre
ragazzi che fanno il bisogno
materiale ho voluto richiamare quel
pretesto che ogni ragazzo sorpreso a
rubare negli orti mette in ballo, e
cioè era andato solo per un bisogno.
Nei dialoghi riportati ragiono con
la stessa mentalità dei ragazzi che
sono i protagonisti del romanzo;
anche nei discorsi indiretti, pur
essendo io a parlare, cerco di
pensare con la mentalità dei ragazzi
e riporto in modo indiretto le
battute dei ragazzi. Intendevo
proprio presentare con perfetto
verismo una delle zone più desolate
di Roma».
La posizione dello scrittore è più
quella di un reporter che quella di
un narratore, infatti non
interferisce nel racconto, ma lascia
scorrere la storia, come se fosse
dietro una cinepresa: si sofferma
sulla struttura del racconto,
affidando a essa ogni responsabilità
morale. Leggendo il romanzo si
comprende come i personaggi narrino
in prima persona le proprie
disavventure.
Nell’opera si può parlare di
quotidianità della disavventura. In
essa è presente una quotidianità del
male, un misto tra sfortuna,
ambiente di provenienza e
stratagemmi di sopravvivenza, che
portano i protagonisti ad agire a
fin di male, ma anche a farsi del
male. Pasolini è sempre attento a
ogni dettaglio, a ogni minuzia,
carattere che verrà portato
all’esasperazione nell’opera postuma
Petrolio. Proprio come i
veristi l’autore vuole raccontare la
realtà nella maniera più
rispecchiante possibile. Egli,
infatti, vuole «dare voce diretta,
non mediata dall'autore, a una
classe sociale geneticamente esclusa
dalla letteratura». Non si possono
raccontare certi contesti e realtà
omettendo la lingua utilizzata in
quei luoghi e da quella classe
sociale, poiché si rivelerebbe un
reportage parziale, lacunoso e
distante dal vero. Ecco dunque
spiegata la scelta del romanesco e
l’abbandono dell’italiano standard.
L’opera, come si è detto, nasce come
un reportage neorealista, ma i
caratteri narratologici sono del
tutto differenti, poiché la
narrazione è lineare e scorrevole.
Gli interventi dell'autore sono
scritti in italiano schematico e
semplice: «E qua e là si vedevano
le ombre delle ammaccature, color
marrone nel centro e con intorno una
coroncina di lenticchie, ch'erano
botte prese forse quand'era
ragazzino, o in gioventù, quando
faceva il soldato o il manovale,
cent'anni prima. E tutto come fuso
dal grigiore del digiuno e del vino,
più quello dei ciuffi della barbara
di quattro giorni».
I personaggi parlano invece un
romanesco di basso livello, che
rispecchia perfettamente il contesto
degradato di provenienza:
«Armandino fece "pzt" con la
lingua alzando con aria di
compassione le sopracciglia: – 'N
c'ha manco n'anno", – disse.
- Mbè? – fece il Roscetto – Che
deve da tené paura de n'antro cane?
- Ma quale paura, sì paura! Me
fai rabbia me fai, – sbottò
Armandino».
La grandezza di Pasolini sta
nell’aver portate il mestiere, con
le sue tecniche annesse, del
reporter nella narrativa, andando a
creare un’opera agile e scorrevole,
che però racconta la realtà come un
documentario sociologico e
antropologico.
Riferimenti bibliografici:
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I testi, Feltrinelli, Milano
2007.
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contemporaneo, Bologna, Il
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P.P. Pasolini, Nove domande sul
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n. 38-39, maggio-agosto 1959, p. 45.
P.P. Pasolini, in L. Martellini,
Ritratto di Pasolini, Laterza,
Bari 2006, p. 64.
P.P. Pasolini, Saggi sulla
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primo, Mondadori, Milano 1999, p.
696.
P.P. Pasolini: Cronaca
giudiziaria, persecuzione, morte,
Milano, Garzanti, 1977 (prefazione
in:
P.P. Pasolini, Petrolio,
Mondadori, Milano 2014.