N. 90 - Giugno 2015
(CXXI)
PASCOLI E PUCCINI
UN’INTESA
MANCATA
-
Parte
II
di
Claudia
Antonella
Pastorino
Nel
ribadire
al
lettore
che
nessun
confronto
in
meriti
o
demeriti
si
vuole
qui
porre
tra
i
due
personaggi,
ma
soltanto,
sulla
base
di
quei
pochi
dati
certi,
alcune
valutazioni
e
approfondimenti
per
dimostrare
come
e
perché
non
si
sia
arrivati
a
una
volontà
unanime
di
collaborazione,
partirei
da
un
concetto
di
fondo,
forse
il
solito,
però
difficile
da
confutare
: il
pensare
per
il
teatro,
il
saper
fare
teatro.
E ci
risiamo.
Puccini,
come
Verdi
e
come
tutti
gli
operisti
che
si
rispettino,
era
un
uomo
di
teatro
e
con
i
librettisti
il
primo
punto
di
condivisione
non
poteva
che
essere
il
teatro.
Nei
tentativi
di
capirsi
con
D’Annunzio,
progettò
senza
esito
Parisina
d’Este,
La
Rosa
di
Cipro,
La
Crociata
degli
Innocenti.
Esplicita
la
lettera
del
16
agosto
1906
per
La
Rosa
di
Cipro,
laddove
informò
l’amico
Gabriele
di
non
volere
un
«realismo»vero
e
proprio,
bensì
«un
‘quid
medium’
che
prenda
possesso
degli
ascoltatori
per
i
fatti
dolorosi
e
amorosi,
i
quali
logicamente
vivano
e
palpitino
in
una
aureola
di
poesia
di
vita
più
che
di
sogno».
In
seguito
si
spingerà
a
chiedergli,
per
un’altra
idea,
due
o
tre
atti
«di
dolci
e
piccole
cose
e
persone.
[…].
Metti
dei
bimbi,
dei
fiori,
dei
dolori,
degli
amori”
(agosto
1912
da
Karlsbaden,
in
Germania).
Sembra
di
vedere
lo
schizzo
di
Suor
Angelica,
la
seconda
opera
del
Trittico
(1918),
al
centro
fra
Il
Tabarro
e
Gianni
Schicchi.
Si
rivela
chiaro
il
suo
guardare
al
concreto,
al
vissuto,
non
all’idea
o
all’illusione
o
alla
filosofia
del
vivere.
Se
l’idea
non
veniva
circostanziata
e
precisata,
non
poteva
esserci
musica.
Un’idea
vagheggiata
è
perfetta
per
la
poesia,
non
per
un
libretto.
Aveva
avuto
rapporti
difficili
con
il
D’Annunzio,
troppo
sofisticato
per
lui,
e
con
il
Verga
(per
La
lupa),
ma
resta
il
fatto
che
costoro,
prima
di
essere
uomini
di
teatro
e
letterati,
erano
uomini
d’azione,
uomini
che
amavano
la
vita
e le
donne,
dunque
naturalmente
preposti
a
una
forma
d’intesa,
a un
rapporto
di
scambi
con
l’incontentabile
compositore.
Con
loro
non
concluse
nulla,
ma
provò
a
imbastire
un
tipo
di
discorso,
mentre
invece
non
possiamo
sapere
come
sarebbe
stato
con
il
Pascoli
se
si
fosse
avviata
una
qualche
forma
di
collaborazione,
né
vogliamo
in
questa
sede
montare
congetture
o
pregiudizi
su
presunte
inadeguatezze
o
incomprensioni
che
potessero
sorgere
se
fosse
almeno
cominciata.
Tuttavia
non
può
passare
sotto
silenzio
il
fatto
che
un
poeta
tanto
grande
non
abbia
coinvolto
il
compositore
fino
al
punto
da
indurlo
a
provare.
Non
vorrei
di
certo
far
serpeggiare
il
dubbio
che
la
mancanza
di
frequentazioni
femminili
nel
vissuto
reale
pascoliano
possa
essere
stato
il
motivo
o
uno
dei
motivi
della
recusatio,
ma
non
si
può
e
non
si
deve
escludere
che
l’asessualità
pascoliana
riferita
alla
poetica
sia
stato
per
Puccini
elemento
di
valutazione
a
favore
della
rinuncia.
I
tentativi
di
caccia
da
parte
della
critica
e
dei
biografi
non
sono
mancati,
soprattutto
per
effetto
di
due
liriche
vagamente
intriganti
riferite
a
possibili
donne
presenti
nella
vita
del
poeta,
Per
sempre
e
La
tessitrice,
entrambe
da i
Canti
di
Castelvecchio,
ma
lo
sguinzagliamento
dei
curiosi
veniva
puntualmente
sbarrato,
nelle
conclusioni,
dalla
sorella
Mariù,
la
fide
custode
delle
memorie,
delle
carte
e
della
castità
non
solo
poetica
del
fratello,
al
quale
sopravvisse
fino
a
quasi
novant’anni
di
età,
nel
1953.
Puccini
la
conobbe
senz’altro
in
casa
del
poeta,
inseparabile
com’era
dal
fratello,
lei,
la
sorella
madre
dedicataria
di
diverse
poesie
negli
anni
di
Massa
e
Livorno,
dell’elegia
Sorella
in “Myricae”,
de
La
mia
malattia
e
Maria
nei
“Canti
di
Castelvecchio”,
presente
in
tutti
i
componimenti
del
ciclo
familiare.
Fu
lei
a
raccogliere
e a
dare
alle
stampe
il
volume
postumo
Poesie
varie,
la
raccolta
di
Traduzioni
e
Riduzioni
da
poeti
greci
e
latini,
i
Carmina.
Se
però
si
affacciava
all’orizzonte
il
sentore
che
l’innocenza
della
poesia
del
fratello,
la
stessa
che
si
era
tanto
affermata
per
purezza,
bucolicità,
pianto,
animo
e
stupore
di
fanciullo,
esortazione
alla
fratellanza,
canto
della
natura
e
degli
uccelli,
potesse
essere
adombrata
da
sospetti
di
aspirazioni
non
proprio
incorporee,
Mariù
vigilava
sulla
memoria
di
Giovannino
–
come
il
poeta
era
comunemente
chiamato
da
familiari
e
amici
-
come
il
drago
alla
custodia
del
vello
d’oro,
probabilmente
anche
per
proteggere
la
fortuna
dell’opera
pascoliana
e la
sua
eco
nel
mondo.
Per
La
tessitrice
si
fece
il
nome
di
Erminia
Tognacci,
concittadina
di
San
Mauro,
morta
fanciulla
a
Rimini
nel
1878,
e lo
farebbe
pensare
anche
il
fatto
che
il
componimento
venne
inserito
dall’autore
nel
ciclo
“Il
ritorno
a
San
Mauro”
(sempre
all’interno
dei
Canti
di
Castelvecchio).
Si
disse
che
il
progetto
di
matrimonio
venne
impedito
dalla
sorella,
fatto
sta
che
Mariù,
sulla
possibilità
di
amare
del
fratello
intervenne
a
dissipare
ogni
dubbio.
In
una
lettera
del
18
gennaio
1916
a
Luigi
Pietrobono
(1863-1960),
il
famoso
critico
noto
anche
come
dantista,
tenne
a
precisare
che
«la
poesia
d’amore
nell’opera
di
Giovannino,
intendo
d’amore
personale,
non
si
trova.
Egli
non
ne
scriveva
per
principio.
Diceva
che
la
poesia
d’amore
è
troppo
facile
e si
può
fare
anche
di
fantasia
senza
sentirla
affatto,
anzi
molto
spesso
i
poeti
che
l’hanno
fatta
hanno
avuto
di
mira
un
ideale
della
loro
mente».
E, a
proposito
di
Per
sempre,
evocante
in
prima
persona
un
amore
tradito,
aggiunge
sempre
al
Pietrobono
che
si
trattava
di
una
poesia
sognata
dal
fratello
durante
la
notte,
completa
dei
versi,
ma
siccome
il
sogno
non
aveva
fornito
versi
«perfetti»,
lui
«li
perfezionò
da
desto».
Si
dia
uno
sguardo
ai
primi
versi
del
componimento
(lui
che
parla)
:
Io
t’odio?!…Non
t’amo
più,
vedi,
/
non
t’amo…
Ricordi
quel
giorno
?
/
Lontano
portavano
i
piedi
/
un
cuor
che
pensava
al
ritorno.
/
E
dunque
tornai…
tu
non
c’eri.
/
Per
casa
era
un’eco
dell’ieri,
/
d’un
lungo
promettere.
E
meco
/
di
te
portai
sola
quell’eco:
/
Per
sempre!
Il
finale
(lui
e
poi
lei)
:
Risposi:
«Sei
bimba
e
non
sai
/
Per
sempre
che
voglia
dir
mai!»
/
Rispose:
«Non
so
che
vuol
dire?
/
Per
sempre
vuol
dire
Morire…
/
sì:addormentarsi
la
sera:
/
restare
così
come
s’era,
/
Per
sempre!».
Difficile
che
un
testo
del
genere,
pur
così
tenue
nella
sua
ambivalenza
amore-odio
già
di
reminescenza
catulliana
(cc.
75 e
85),
accenda
la
fiaccola
creativa
di
chi
deve
pensare
al
pentagramma
e,
soprattutto,
a un
personaggio
o a
dei
personaggi
dietro
quelle
note.
C’è
da
chiedersi
cosa
Puccini
potesse
rimestare
e
acciuffare
nel
baule
dei
simbolismi
del
poeta-bambino
che
si
stupisce
di
tutto,
che
piange
i
suoi
morti,
che
sorride
alla
vita
dei
campi
e ne
canta
oggetti,
animali,
suoni,
impressioni
come
se
li
scoprisse
per
la
prima
volta.
Il
compositore
toscano
non
incoraggiò
neppure
formalmente
un
inizio
di
collaborazione
perché
sapeva
che
sarebbe
stato
inutile,
che
non
avrebbe
funzionato,
sapeva
che
il
mondo
pascoliano
possedeva
fermenti
interessanti
alla
sua
poetica
ma
troppo
lontani
dal
suo
assillo
di
concretezza,
di
parole
giuste,
di
azioni
che
aderissero
alla
carne
e al
sangue
degli
umani:
tutto
ciò
che
era
chiaramente
sconosciuto
alla
sensibilità
e
all’esperienza
pascoliane.
La
poesia
di
Giovannino
bandiva
nel
suo
pudore
ogni
riferimento
casuale
od
esplicito
o
velato
a
presenze
femminili
che
non
fossero
figure
di
famiglia
o
personaggi
di
un’incorporeità
tale
da
impedire
di
guardare
alla
sua
vita
con
curiosità
morbosa.
Non
perché
dovesse
preoccuparsi
di
nasconderle,
ma
perché
non
v’era
nulla
da
dover
nascondere
: un
nulla
che
a un
campatore
come
Puccini
non
credo
potesse
sfuggire,
come
non
può
sfuggire
il
fatto
che
le
sue
donne
teatrali
non
fossero
–
per
quanto
acquerellate
dal
gusto
dell’epoca
-
così
tanto
sdegnose
di
attenzioni
maschili.
Potevano
incontrarsi
due
visioni
del
femminino
così
opposte
e
che
tipo
di
versi
il
poeta
poteva
offrire
alla
musica
di
Puccini,
una
musica
che
ha
bisogno
di
accendere
i
sensi
prima
di
divampare
in
estasi
di
amore
e di
morte
come
per
quel
“piccolo
Tristano”
denominata
Manon
Lescaut?
Se
Puccini
non
vedeva
e
non
sentiva
le
parole
di
un
libretto
farlo
scattare
infondendogli
la
smania
di
non
staccarsi
per
tutta
la
notte
dal
pianoforte,
l’ingordigia
di
provare
e
riprovare
a
centrare
l’attimo
o il
silenzio
giusti
per
una
frase,
non
poteva
mai
accadere
nulla
nella
trasfigurazione
musicale
così
pregna
di
umori
e di
languori.
Senza
dannazione,
vite
consumate,
giovinezze
che
si
logorano,
non
c’era
Puccini.
La
rarefazione
della
sua
musica
non
è la
rarefazione
della
poesia
pascoliana:
l’una
incarna
delle
realtà
e
delle
persone
che
non
vivono
soltanto
per
pensare,
sognare,
struggersi
in
ricordi
e
nostalgie;
l’altra
non
incarna
niente
e
nessuno,
evoca
e
simboleggia,
insegue
e si
perde,
trovando
spiraglio
e
conforto
nelle
meditazioni
sulla
vita,
la
morte,
la
natura
e le
sue
manifestazioni
(il
lavoro
dei
campi,
gli
uccelli,
le
mucche,
il
bosco,
il
mare,
il
temporale,
l’acqua,
l’alba,
il
tramonto,
il
vento,
gli
alberi,
le
montagne
e
via
di
seguito).
Vi
coglieva
tutti
i
suoni,
scandendoli
come
ritornelli
:
chiù
chiù,
gre
gre,
trr
trr
trr
terit
tirit,
sci
sci
sci,
tac
tac,
tin
tin,
zisteretetet,
rererere,
sii
sii,
tellterelltelltelltelltell,
finc
finc,
uid
uid,
don
don,
sì!
sì!,
sicceccè
sicceccè,
fru,
dlin
dlin,
cu
cu,
chio
chio
chio
chio,
tri
tri,
scilp,
vitt
videvitt
e
quelli
umani
del
lavoro
agricolo
o
dell’intimità
familiare:
tient’a
su
(il
taglialegna),
stacci!
stacci!
stacci!
(lo
stacciaio),
Zvanî
(il
nome
del
poeta,
il
Giovannino
in
dialetto
romagnolo
de
La
voce).
Compare
uno
dei
motivi
più
frequenti
della
sua
poetica,
la
simbologia
degli
uccelli
spesso
equiparata
alla
condizione
dell’orfano
– la
rondine
uccisa
di
X
agosto,
giorno
dell’assassinio
del
padre,
o
Il
nido
di
farlotti
- in
cui
si
era
trovato
insieme
a
fratelli
e
sorelle
dopo
la
tragedia
familiare,
un
tema
desunto
dalle
Operette
morali
di
Leopardi
(Elogio
degli
uccelli
e
Cantico
del
gallo
silvestre):
tanti
i
titoli
dei
componimenti
dedicati
a
molte
varietà
di
uccelli,
ma
in
Puccini,
al
di
fuori
del
pettirosso
che
dovrebbe
rifare
il
nido
per
la
speranza
di
Cio
Cio
San,
diventa
un
po’
arduo
trovare
un’assimilazione
del
genere
ai
soggetti
della
propria
poetica.
Quando
il
musicista
scrisse
al
Caselli
da
Parigi,
il
10
maggio
’98,
per
trasmettergli
il
fastidio
provato
a
contatto
con
la
grande
città,
aggiunse
di
amare
il
merlo,
il
capinero,
il
picchio
e di
odiare
il
cavallo,
il
gatto,
il
passero
dei
tetti,
il
cane
di
lusso.
Come
si
nota,
è
uno
spirito
del
decadentismo,
contenuti
compresi,
completamente
diverso.
Puccini
ha
un
approccio
diretto
con
la
vita
e
con
gli
altri,
compone
come
vive,
in
cerca
di
sensazioni
certe,
palpabili,
di
sentimenti
da
rappresentare,
di
momenti
da
definire,
non
da
evocare,
da
consegnare
ad
ombre
della
memoria.
Quell’angosciosa
vaghezza
non
precisata
doveva
dargli
ai
nervi
come
le
schermaglie
con
i
librettisti
dimostrano,
perché
ansioso
di
cose
vive,
di
perdizioni,
di
veleni,
non
di
malinconie
funeree.
Il
Pascoli
non
aveva
le
innervature
e le
nevrosi
del
teatro
che
lo
piegavano
dentro,
non
poteva
neppure
immaginare
di
cosa
vivesse
un
personaggio
d’opera,
essendo
il
suo
mondo
da
un’altra
parte,
in
un
sogno
ristretto
a
pochi
spazi,
gli
unici
varchi
da
cui
uscire
a
respirare,
gli
stessi
del
suo
universo
poetico.
Eppure
il
poeta
romagnolo
non
era
sempre
stato
un
fanciullone
innocuo.
Le
avversità,
i
lutti
familiari
a
catena,
la
morte
impunita
del
padre,
lo
avevano
inasprito
e,
come
tutti
i
timidi,
quando
sbottava
erano
guai
:
nel
1876
perse
una
borsa
di
studio
universitaria
per
aver
fischiato
Ruggero
Bonghi,
ministro
della
Pubblica
Istruzione
dal
’74
al
’76,
nel
’79
scontò
tre
mesi
nel
carcere
di
San
Giovanni
in
Monte
a
Bologna
per
aver
preso
parte
a
manifestazioni
socialiste
e
per
aver
esaltato
in
un’ode
Giovanni
Passannante,
attentatore
il
17
novembre
’78
alla
vita
di
Umberto
I.
Dopo
tanto
patire
per
ultimare
gli
studi
e
dopo
aver
peregrinato
a
motivo
dell’insegnamento,
Barga
gli
sembrò
il
paese
delle
favole,
dove
regnavano
il
«bello»
e il
«buono»
annunciati
ai
nuovi
concittadini
nel
suo
discorso
di
saluto
un
anno
dopo
l’insediamento
nella
casa
dei
sogni,
ma
ben
presto
dovette
fare
i
conti
con
la
realtà
e
con
le
amarezze
che
ne
avrebbe
ricevuto
:
con
i
contadini,
con
don
Archimede
Mancini
per
le
nuove
campane,
con
i
protagonisti
della
vita
politico-amministrativa
locale,
con
i
proprietari
della
casa,
i
Cardosi-Carrara,
per
ottenerne
a
fatica
l’acquisto.
Fu
un
susseguirsi
di
guerre
intervallate
dai
periodi
dell’insegnamento
universitario
a
Bologna
(‘95-’98,
1905-’12),
Messina
(’98-1902),
Pisa
(1903-1905),
e le
tensioni
non
risparmiarono
neppure
i
rapporti,
dapprima
buoni,
con
il
suo
mezzadro
sul
podere
annesso
alla
casa,
Giovanni
Arrighi
detto
il
Mère,
il
padre
di
Valentino,
il
contadinello
scalzo
vestito
di
nuovo
celebrato
dall’omonima
poesia
del
‘98
che
ha
accompagnato
credo
tutti
fin
dalle
elementari.
Anche
con
questa
famiglia,
definita
«nido
di
vipere»,
vi
furono
aspri
contrasti
negli
anni
successivi
al
1900
(il
giovane
Valentino
emigrerà
poi
in
America
come
tanti
a
quell’epoca).
In
mezzo
alle
burrasche
coi
vicini
e
nella
solitudine
personale,
il
rifugio
di
Barga
divenne
una
fucina
di
ripiegamento
interiore,
ottima
per
far
poesia,
ma
che
non
s’affacciava
sul
mondo
degli
altri
e
non
lo
faceva
dialogare
se
non
con
se
stesso,
con
le
voci
dei
familiari
defunti,
con
la
nostalgia
dei
ricordi,
con
la
contemplazione
della
natura,
con
la
definizione
di
quel
linguaggio
animale
da
molti
ritenuto
“zoologico”
per
la
sua
precisione.
Non
così
Torre
del
Lago
che
Puccini
adorava
perché
gli
permetteva
di
vivere
come
voleva,
oltre
che
di
comporre
in
libertà,
nel
caos
e
nel
silenzio,
di
andare
a
caccia
di
uccelli
lacustri,
avviare
contatti,
stendere
intese,
insomma
un
luogo
di
brume
come
già
Sant’Agata
per
Verdi,
ritenuta
dallo
stesso
Bussetano
zona
non
bella
ma
indispensabile
per
farsi
venire
le
migliori
idee
musicali.
Tutto,
perfino
la
morte,
si
trasforma
in
una
componente
del
vivere
e
dell’amare
:
anche
se
fosse
stata
un’ossessione
come
per
il
Pascoli,
Puccini
la
fa
passare
per
i
sensi,
per
tutti
i
capillari
del
corpo
e le
strade
della
vita,
per
quanto
oscene
siano.
Se
le
case
di
poeti
e
letterati
sono
biblioteche
e
archivi
viventi,
quelle
dei
musicisti
hanno
perlopiù
i
libri
che
a
loro
occorrono,
a
cui
attingere
soggetti
nati
o
mai
nati,
per
il
resto
sono
bazar
di
ogni
genere
e
gusto,
idem
la
villa
di
Torre
così
descritta
ad
Illica
il 4
agosto
’93,
per
invogliarlo
a
raggiungerlo
:
«In
casa
mia,
qui,
esistono
letti
soffici,
polli,
oche,
anitre,
agnelli,
pulci,
tavoli,
sedie,
fucili,
quadri,
statue,
scarpe,
velocipedi,
cembali,
macchine
da
cucire,
orologi,
una
pianta
di
Parigi,
olio
buono,
pesci,
vino
di
tre
qualità
(acqua
non
se
ne
beve),
sigari,
amache,
moglie,
figli,
cani,
gatti,
rhum,
caffè,
minestre
di
varie
forme,
una
scatola
di
sardine
andate
a
male,
pesche,
fichi,
due
latrine,
un
eucaliptus,
pozzo
in
casa,
una
scopa,
tutto
a
vostra
disposizione
(tranne
la
moglie).
Vieni».
È il
disordine
della
sregolatezza
quotidiana,
l’inventario
di
cose
pensate
alla
rinfusa,
senza
apparente
importanza
eppure
così
ricco
di
vitalità,
di
azione,
di
progetti
–
come
indica
la
pianta
di
Parigi,
preparatoria
di
Bohème
–
una
conferma
di
simpatica
canaglieria
e di
aderenza
allo
spirito
da
vagabondo.
Tanti
oggetti
anche
inutili
diventano
nelle
sue
opere
non
pezzi
di
arredo,
ma
cellule
stesse
dei
personaggi,
l’anima
dell’ambiente
in
cui
si
muovono.
I
contatti
Puccini,
come
ogni
compositore
che
si
rispetti,
era
sempre
in
cerca
di
novità
e
molte
furono
le
idee
per
soggetti
mai
realizzati.
Spesso
su
consiglio
di
Illica
e
dell’amica
inglese
Sybil
Seligman,
pensò
ad
autori
italiani
ma
soprattutto
stranieri:
Pelléas
et
Mélisande
di
Maurice
Maeterlinck,
Notre-Dame
di
Victor
Hugo,
La
Faute
de
l’abbé
Mouret
di
Emile
Zola,
Tartarin
di
Alphonse
Daudet,
Teodora
di
Victorien
Sardou,
Mauvais
bergers
di
Octave
Mirbeau,
Enoch
Arden
di
Alfred
Tennyson,
La
femme
da
La
femme
et
le
pantin
di
Pierre
Louÿs
(da
affidare
ai
versi
di
Maurice
Vaucaire
con
il
titolo
Conchita),
The
Duchess
of
Padua
e
A
Fiorentine
Tragedy
di
Wilde,
Hanneles
Himmelfahrt
e
Tessitori
di
Gerhardt
Hauptmann,
Anima
allegra
di
Serafin
e
Joaquin
Alvarez
Quinterno,
Don
Pablo
di
Segovia
di
Francisco
de
Quevedo,
La
locandiera
e
Le
baruffe
chiozzotte
di
Carlo
Goldoni,
Lea
di
Felice
Cavallotti,
Margherita
da
Cortona
di
Valentino
Soldani,
un
soggetto
sugli
ultimi
giorni
di
Maria
Antonietta,
uno
da
Paul
de
Kock
e,
ancora,
Poe,
Dumas
padre,
Balzac,
Shawe.
Sul
Tartarin
scrisse
ad
Illica
che
il
soggetto
gli
piaceva
perché
il
pubblico
era
stanco
di
lacrime
e
avrebbe
voluto
ridere,
impressione
che
lo
indusse
ad
accantonare
l’Hanneles
di
Hauptmann
perché
«troppo
triste
e
uniforme»,
ma
di
fatto
li
scartò
tutti
non
rispondendo
–
come
si
evince
dai
tipi
di
soggetto
– al
suo
sentire
lontano
da
ideali
epici
e
romantici,
tragedie
storiche
e
commedie
dell’arte.
Con
il
Pascoli
un
primo
contatto
si
ebbe
nel
1898,
quando
il
compositore
chiese
e
ottenne
per
la
morte
dell’amico
lucchese
Guglielmo
Lippi,
giovane
medico,
un
epitaffio,
al
che
il
poeta
a
sua
volta
richiese
la
musica
per
l’Inno
alla
Sicilia,
un
coro-inno
dedicato
agli
studenti
di
Messina.
Puccini
lo
ringrazierà
il
15
dicembre:
«Ho
letto
la
magnifica
epigrafe
e
l’ho
trovata
sublime
per
concezione
e
affettuosità.
Bravo
col
cuore.
Per
l’inno
ben
venga
da
parte
sua
e
sarò
onorato
farci
la
musica».
Di
fatto
però
non
accadde
nulla
e
l’inno
venne
poi
musicato
da
Giovanni
Zagari.
Unico
precedente
di
teatro
giunse
con
il
poemetto
Il
sogno
di
Rosetta,
azione
scenica
musicata
da
Carlo
Alfredo
Mussinelli
(1871-1955),
nativo
di
La
Spezia,
definito
dal
poeta
cieco
veggente
(era
infatti
cieco
dall’infanzia),
lavoro
rappresentato
con
successo
il
14
agosto
1901
al
Teatro
dei
Differenti
di
Barga,
poi
al
Teatro
del
Giglio
di
Lucca
e a
La
Spezia.
Composizione
poetica
destinata
a
collocarsi
in
appendice
a
Odi
e
inni,
divenne
dramma
riproposto
di
recente,
in
occasione
del
centenario
della
prima
rappresentazione,
il
25
agosto
2001
nel
giardino
di
Casa
Pascoli
su
iniziativa
della
Fondazione
Pascoli
in
collaborazione
con
la
Misericordia
di
Castelvecchio,
protagonisti
il
soprano
Nicoletta
Zanini,
il
tenore
Leonardo
de
Lisi,
il
Coro
di
Voci
bianche
della
Chiesa
di
Santa
Rita
di
Viareggio,
l’Orchestra
Sinfonica
“Carlo
Alfredo
Mussinelli”
diretta
da
Marco
Balderi.
Spettacolo
divenuto
poi
un
Cd
della
Bongiovanni,
etichetta
sempre
benemerita
per
le
rarità.
Lo
stesso
poemetto
venne
musicato
nel
1902
da
Zandonai,
mentre
l’inno
latino
Corda
Fratres
glielo
musicò
Mascagni
nel
marzo
dello
stesso
anno
e
Renzo
Bossi,
figlio
del
più
noto
Marco
Enrico,
fece
altrettanto
per
il
dramma
Nell’Anno
Mille
che
però
non
vide
mai
le
scene.
Soddisfazioni
vicine
al
genere
teatrale
ne
ebbe,
sia
pure
di
corta
gittata,
ma
puntare
su
Puccini
avrebbe
rappresentato
davvero
molto,
benché
avesse
le
sue
idee
in
materia
di
libretti
quando
con
il
Caselli
affermò
che
«il
dramma
musicale
non
deve
essere
ridotto
dal
dramma
prosaico
e
dal
romanzo;
ma
deve
essere
concepito
a
sé».
Non
poté
mai
sapere,
essendo
scomparso
già
da
sei
anni,
come
la
pensasse
Puccini
nel
1918,
quando
a
Carlo
Clausetti
scrisse
che
«il
Poeta
porta
male
al
teatro
lirico.
Vi
manca
sempre
il
vero
e
spoglio
e
semplice
senso
umano.
Tutto
è
sempre
parossismo,
corda
tirata,
espressione
ultra
eccessiva.
La
parola
bella
e
varia
che
in
musica
non
si
sente
lascia
via
libera
al
dramma,
e
questo
è
quello
che
non
deve
essere».
Intanto
il
poeta
si
era
assestato
con
la
nuova
casa,
riuscendo
ad
acquistarla
nel
1902
con
il
ricavato
della
vendita
delle
medaglie
d’oro
vinte
tredici
volte
con
i
Carmina
al
concorso
internazionale
di
poesia
latina,
bandito
annualmente
dall’Accademia
Hoefftiana
di
Amsterdam.
Ne
fece
fondere
sei
di
250
grammi
ognuna
e le
vendette,
assicurandosi
così
il
possesso
dell’amata
dimora
di
Castelvecchio.
Con
il
compositore
volle
tornare
alla
carica,
ma
di
librettisti
nuovi
l’altro
non
aveva
bisogno
e,
sempre
in
quell’anno,
gli
rispose:
«Ascriverei
a
grande
fortuna
il
poter
collaborare
con
lei!
Ma
l’argomento?
Questo
è il
nocciolo
duro!».
Pretesto
o
no,
il
diniego
è
palese
sul
fatto
sostanziale,
l’argomento,
“il
nocciolo
duro”
che,
sulla
scorta
di
una
buona
conoscenza
di
Pascoli
poeta,
appare
insormontabile.
Troviamo
in
una
lettera
al
Caselli
del
3
aprile
1903
l’accenno
di
Puccini
a un
invito
rivolto
al
poeta
a
raggiungerlo
a
Torre
del
Lago,
ma
in
realtà
non
c’era
sotto
alcuna
volontà
di
collaborazione,
solo
di
ottenere
un
discorso
pubblico
a
Lucca
poi
tenuto
dal
concittadino
Giovanni
Rosadi
(1863-1925),
avvocato,
deputato
e
sottosegretario
alle
Belle
Arti.
Eppure
Pascoli
orazioni
ufficiali
ne
fece
diverse,
di
natura
politica,
sociale,
patriottica.
Tuttavia
non
finì
lì.
Il
poeta
gli
chiese
la
musica
per
il
poemetto
sul
ritorno
di
Ulisse,
probabilmente
L’ultimo
viaggio
dai
“Poemi
conviviali”
del
1904,
però
non
ebbe
nulla.
I
versi
sulla
farfallina
di
quello
stesso
anno
avrebbero
forse
voluto
muovere
qualcosa,
far
crollare
delle
riserve,
ma
personalmente
non
riesce
ad
abbandonarmi
il
sospetto
–
quasi
un
indizio
–
che
Puccini
ritenesse
il
Pascoli
un
poeta
di
cose
mortuarie
e
che
dunque
l’ipotesi
di
lavorare
su
versi
così
distanti
dalla
realtà
di
un
pubblico
di
teatro
fosse
davvero
remota.
Mi
pare
che
questa
distanza
sia
oltremodo
attestata
da
un’altra
circostanza
analoga,
il
desiderio
di
Puccini,
trasmesso
al
poeta
nel
1907,
di
avere
un’epigrafe
per
i
propri
genitori
Michele
e
Albina,
sepolti
nel
cimitero
di
Lucca,
ma
questa
volta
Pascoli
la
prese
per
le
lunghe
indugiandovi
fino
al
1909
senza
mai
concludere,
come
sostenne
Mariù
nelle
Memorie
confermando
che
le
due
epigrafi
rimasero
allo
stato
di
abbozzo.
Se
ne
deduce
che
quelle
tuttora
esistenti
sulle
tombe
dei
genitori
del
musicista
e
attribuite
per
tradizione
al
Pascoli,
non
lo
siano.
L’oggetto
delle
uniche
richieste
avanzate
riguarda
dunque
epigrafi
funerarie.
Si
badi
pure
al
particolare
della
richiesta
del
poeta
concentrata
su
un
inno
e su
un
soggetto
omerico,
temi
troppo
distanti
da
sentimenti,
suggestioni,
figure
presenti
nello
scenario
cui
s’ispira
di
norma
il
teatro
lirico.
Non
so
fino
a
che
punto
Puccini
conoscesse
l’opera
del
Pascoli,
ma
se
si è
allungato
per
ben
due
volte
nella
casa
di
Castelvecchio
un’idea
doveva
essersela
fatta
e,
del
resto,
il
poeta
come
si è
detto
aveva
già
dato
alle
stampe
i
maggiori
lavori
e
fatto
rappresentare
Il
sogno
di
Rosetta,
andato
in
scena
anche
al
Teatro
del
Giglio
di
Lucca,
la
città
del
musicista
: un
particolare
che
a
questi
non
poteva
essere
sfuggito.
Quello
fu
l’unico
libretto
di
Giovannino,
che
nella
sua
produzione
sfiorò
appena
la
donna,
inserendola
come
la
vedeva
lui,
nell’inconsistenza
di
larve,
di
fanciulle
che
non
hanno
avuto
il
tempo
di
vivere,
che
passano
dal
limbo
dell’adolescenza
all’unica
esperienza
adulta
della
morte,
ad
essa
arrivando
all’improvviso
senza
aver
conosciuto
null’altro.
Come
lui.
Forse
qualcosa
vi
fu
ad
attirare
l’attenzione
di
Puccini,
un’idea
che
si
concretizzò
parecchi
anni
più
tardi
quando
il
poeta
era
già
morto
e lo
spinse
a
sbirciare
ne
I
Poemetti
del
1897,
in
terzine,
che
poi
divennero
i
due
volumi
distinti
dei
Primi
Poemetti
(1905)
e
Nuovi
Poemetti
(1909).
In
essi
il
poeta
aveva
sviluppato
il
ciclo
di
Rosa
e la
vita
della
sua
famiglia,
tutti
contadini,
padre,
madre,
quattro
figli,
una
storia
d’amore
tra
lei,
figlia
maggiore,
e il
cacciatore
Rigo
su
uno
sfondo
di
verde
natura
e il
ciclo
di
stagioni
che
accompagna,
nel
suo
evolversi,
quello
dell’amore
nella
nascita,
nello
sboccio,
nella
fioritura
delle
nozze.
Rosa
dalle
bianche
braccia
doveva
chiamarsi,
nella
bozza
di
progetto
del
1891,
Reginella,
di
cui
si è
trovato
fra
le
carte
di
Castelvecchio
il
documento
programmatico.
Molly
del
poemetto
Italy
–
dai
“Nuovi
Poemetti”
– è
invece
una
bambina,
protagonista
di
una
vicenda
sul
dramma
dell’Italia
che
emigra.
Vi
si
narra
il
ritorno
di
una
famiglia
di
contadini
di
Castelvecchio
dall’America
al
luogo
d’origine,
storia
vera
di
Molly,
una
delle
nipotine
di
Bartolomeo
Caproni,
lo
Zi
Meo
del
Ciocco,
fattore
e
amico
del
poeta.
Molly
era
Isabella
Caproni,
figlia
di
Enrico
–
uno
dei
figli
di
Zi
Meo
–
che
a
Cincinnati
nell’Ohio
mise
su
un
ristorante
e
rientrò
poi
in
Italia
con
la
figlioletta
malata,
per
farla
curare.
Il
poeta
si
adoperò
molto
e
con
affetto
per
concorrere
al
risultato,
ma
la
poverina
morì
nel
gennaio
1906,
tre
mesi
prima
di
lui.
Il
poemetto
invece,
risalendo
al
1904,
ha
un
lieto
fine,
la
piccola
guarisce
e
gli
emigranti
fanno
ritorno
in
America.
Diverse
le
eroine
dei
Carmina,
poemetti
scritti
interamente
in
latino.
Thallusa
è
una
schiava
cristiana
alla
quale
è
stato
rapito
il
figlioletto
e si
affeziona
ai
figli
dei
padroni,
venendone
poi
allontanata
per
i
sospetti
sulla
sua
fede
Con
questo
componimento
il
poeta
vinse
per
l’ultima
volta
ad
Amsterdam
nel
marzo
1912,
aggiudicandosi
il
primo
premio.
Anche
Pomponia
Graecina,
moglie
di
un
flamine,
è
cristiana
e
avrà
un
nipote
ucciso
nelle
catacombe,
ma
per
non
essere
separata
dal
figlioletto
continua
a
fare
offerte
ai
Lari.
Nei
“Canti
di
Castelvecchio”
ritroviamo
una
fanciulla,
La
figlia
maggiore,
colei
che
fa
da
madre
ai
fratelli
senza
che,
dell’essere
madre,
conosca
l’atto
generante.
Morirà
prematuramente
come
la
sorella
del
poeta,
Margherita,
uccisa
dal
tifo
a
diciotto
anni
(ché
seppe,
misera,
un
giorno,
come
si
muore!).
La
tessitrice,
che
rammenta
alla
lontana
la
Silvia
leopardiana
che
fila
ma
almeno
canta,
più
che
una
donna
è
un’ombra,
un
silenzio,
un
fantasma
che
evapora,
un
tassello
delle
tante
visioni
incorporee
che
attraversano
le
ossessioni
pascoliane:
E
non
il
suono
d’una
parola;
/
solo
un
sorriso
tutto
pietà.
/
La
bianca
mano
lascia
la
spola.
Tutto
però
è
muto,
lei
è
muta,
la
spola
è
muta,
il
pettine
è
muto,
lei
non
fa
che
piangere,
lui
fa
domande
finché
l’altra
non
si
decide
a
parlare
per
dirgli
che
è
morta
e
che
vive
soltanto
nel
cuore
di
lui:
Morta!
Sì,
morta!
Se
tesso,
tesso
/
per
te
soltanto;
come,
non
so;
/
in
questa
tela,
sotto
il
cipresso,
/
accanto
alfine
ti
dormirò.
Nessuna
di
costoro
è
donna
e
nessuna,
come
La
figlia
maggiore,
sa
come
si
nasce
avendo
l’umile
cuore
che
non
sa
nulla!
Pure
vi
fu
un
momento
dell’animo
pucciniano
ad
avvertire
l’esigenza
della
purezza
che
non
è
necessariamente
quella
virginale,
bensì
quella
dell’espiazione,
della
ricerca
di
altrui
perdono
o
comunque
del
rimpianto
di
qualcosa.
Uno
scenario
siffatto
venne
aperto,
in
“Myricae”,
da
Le
monache
di
Sogliano,
suore
agostiniane
di
Sogliano
sul
Rubicone
dove
nel
’74
si
ritirarono
per
diversi
anni
le
sorelle
del
Pascoli
Ida
e
Maria,
prima
di
ricongiungersi
al
fratello,
docente
a
Massa,
nell’87.
Il
poeta
si
chiese
:
Oh!
qual
colpa
macchiò
l’anima
/
di
codeste
prigioniere?
/
qual
dolor
poté
precorrervi
/
la
fiorita
del
piacere?
/
Queste
bimbe,
queste
vergini
/
in
che
offesero
Dio
santo,
/
che
perdòno
ne
sospirano
/
con
sì
lungo
inno
di
pianto?
Con
Suor
Virginia,
considerato
il
componimento
migliore
dei
“Primi
Poemetti”
queste
idee
si
fecero
più
nette
e,
nella
capacità
della
musica
di
armonizzare
in
mirabili
sintesi
tutte
le
immagini
e
tutti
i
pensieri,
divennero
con
molta
probabilità
Suor
Angelica,
un
personaggio
atipico
per
una
produzione
come
quella
che
Puccini
aveva
fino
a
quel
momento
realizzato.
La
fine
di
Suor
Angelica,
se
ben
si
riflette,
è
forse
la
più
deprimente
di
tutta
l’opera
sua,
dove
cioè
si
avverte
un’oppressione
molto
simile
a
quella
espressa
dal
Pascoli,
che
vi
introdusse,
similmente
allo
spirito
del
finale
in
Le
monache
di
Sogliano,
apparizioni
larvali
e
premonizioni
di
morte
(l’incessante
tum
tum…
tum
tum…
della
morte
che
bussa
all’uscio,
finché
Suor
Virginia
comprende
e le
corre
incontro).
Il
nesso
sembra
quasi
certo.
Sappiamo
che
per
il
Pascoli
la
vita
coincideva
con
la
morte
e,
per
una
volta,
Puccini,
avvezzo
ad
associare
alla
morte
non
la
vita
ma
l’amore
più
corrosivo,
fu
d’accordo.
E
poi?
Sarà
un
azzardo,
ma a
me
pare
difficile
non
pensare
a
Il
sogno
di
Rosetta
senza
il
bel
sogno
di
Doretta
da
La
Rondine
(1917,
1920),
la
meno
fortunata
delle
sue
opere
in
popolarità,
ma
non
dispongo
di
elementi
per
sostenerne
la
fondatezza.
In
conclusione,
sia
chiaro
che
non
si
vuol
far
passare
il
pericoloso
sospetto,
men
che
mai
da
un’estimatrice
del
Pascoli
come
la
scrivente,
che
la
sua
letteratura
sia
tutta
incentrata
sul
funereo
–
poiché
questo
motivo
va
sempre
inquadrato
ed
esaminato
all’interno
di
una
più
vasta
poetica
- ma
è
indubbio
che
dalla
morte
fosse
largamente
pervasa
e
che
questo
aspetto
sia
stato
determinante
al
defilarsi
di
Puccini,
i
cui
personaggi
stavano
a
dir
poco,
e
per
fortuna,
agli
antipodi.
C’è
anche
tanta
poesia
del
Pascoli
più
serena,
come
quella
d’ispirazione
georgico-bucolica
o
quella
delle
meditazioni
o
dei
ricordi
d’infanzia,
ma
probabilmente
a
Puccini
non
interessavano
o
non
ne
sentiva
il
richiamo,
circondato
com’era
da
collaboratori
più
che
collaudati
e
più
che
mai
in
sintonia
con
le
sue
esigenze
di
teatro.
Sì,
in
lui
musicista
c’è
dissolvenza,
giovinezza
che
si
sfalda,
vite
che
bruciano
in
un
soffio,
passioni
dalle
ali
tarpate,
ma
tutto
è
dentro
la
vita,
tutto
si
combina
con
la
vita,
di
cui
la
morte
è
solo
un
afflato
e
non
può
essere
così
invasiva
da
avvelenare
l’esistenza
per
impedirsi
di
vivere.
Sarebbe
bastato
comprendere
questo
per
intendersi,
ma,
se
anche
Puccini
vi
si
fosse
provato,
Pascoli
non
avrebbe
potuto
capire:
per
lui
la
vita
era
e
restava
mistero,
stupore
avvolto
dal
sogno,
accarezzato
dai
fantasmi
dei
ricordi,
dalla
voce
dei
morti
e da
quella
del
fanciullino,
vera
indole
del
vero
poeta.
Puccini
la
vita
se
la
spese
come
volle
e ne
fece
teatro.