N. 89 - Maggio 2015
(CXX)
PASCOLI E PUCCINI
UN’INTESA MANCATA - Parte I
di Claudia Antonella Pastorino
Quello
tra
Giacomo
Puccini
(1858-1924)
e
Giovanni
Pascoli
(1855-1912)
non
fu,
come
accade
di
solito
tra
musicisti
e
letterati,
un
rapporto
di
non
intesa
o
incomprensione
o di
ricerca
di
uno
scambio
per
combinare
insieme
qualcosa–
e
che
poi
magari
non
va
in
porto
per
una
ragione
o
per
l’altra
– ma
dobbiamo
porlo
sullo
sconfortante
piano
della
collaborazione
mai
nata.
Pascoli
la
voleva,
Puccini
per
niente,
per
cui
venne
incoraggiata
da
una
sola
parte
proprio
dal
poeta-bambino
così
tanto
schivo
e
riservato,
chiuso
nel
suo
mondo
votato
alla
campagna,
al
ricordo
della
famiglia,
alle
meditazioni
solitarie
attraversate
da
ombre,
larve,
fantasmi
:
quasi
un
ossario
alleggerito
dalla
sensibilità
un
po’
fiabesca
del
‘fanciullino’,
la
chiave
del
suo
pensiero
di
uomo
e di
poeta
a
cui
si
deve
il
lato
più
solare
dell’opera
sua.
Sulla
base
di
questo
dato
reale,
e
cioè
l’assenza
di
un
inizio,
è
chiaro
che
i
documenti
disponibili
al
riguardo
sono
assai
esigui
e
mostrano
di
seguire
perlopiù
una
linea
di
generica
cortesia
di
circostanza,
attestata
da
qualche
cartolina
di
saluti
e
uno
sporadico
scambio
epistolare,
ma
non
sono
del
tutto
alieni
da
possibilità
di
approfondimenti
che
possano
aiutare
a
comprendere
meglio
le
ragioni
del
mancato
sodalizio
(più
che
disinteresse,
impossibilità
di
definire
un
tracciato
in
comune).
Innanzitutto
dobbiamo
attenerci
alle
uniche
date
del
loro
incontro
nella
casa
del
poeta,
il
1908,
quando
Pascoli
aveva
53
anni
e
Puccini
50,
e il
1911,
56enne
l’uno
e
53enne
l’altro,
vale
a
dire
un’epoca
in
cui
erano
entrambi
molto
affermati
e
avevano
già
prodotto
il
meglio
dell’arte
loro.
Il
musicista
lucchese
aveva
scritto
e
dato
Le
Villi
(1884),
Edgar
(‘89
e
‘92),
Manon
Lescaut
(‘93),
La
Bohème
(‘96),
Tosca
(1900),
Madama
Butterfly
(1904),
La
Fanciulla
del
West
(1910),
al
Pascoli
per
essere
ricordato
sarebbero
bastate
le
due
raccolte
che
ancora
adesso
lo
consacrano
alla
letteratura,
Myricae
(1891,
ristampate
negli
anni
successivi)
e i
Canti
di
Castelvecchio
(1903,
riediti
nel
1907
e
nel
1913),
sebbene
sia
doveroso
ricordarne
altre
che
non
andarono
oltre
il
1911,
vale
a
dire
un
anno
prima
della
fine
:
Poemi
conviviali
(1904),
Primi
Poemetti
(1905),
Odi
e
Inni
(1906),
Poemi
italici
e
Canzoni
di
Re
Enzio
(1908-1910),
Nuovi
Poemetti
(1909),
Poemi
del
Risorgimento
(1911,
interrotti
dalla
morte).
In
un
discorso
a sé
si
collocano
i
Carmina
del
Pascoli
latinista,
raccolta
di
carmi
latini
composti
tra
il
1885
e il
1911
(prima
edizione
1914,
seconda
1930)
e
comprendenti
trentuno
poemetti
e
settantatrè
poesie
più
brevi.
Di
detti
poemetti
fanno
parte
alcune
delle
figure
di
donna
più
significative,
Thallusa
e
Pomponia
Graecina,
considerate
personaggi
drammatici
rispetto
alla
scarna
ritrattistica
del
mondo
femminile
pascoliano
dominato
da
vergini,
monache
e
fanciulle
che
muoiono
senza
mai
aver
avuto
il
tempo
di
sapere
e
capire
qualcosa
della
vita.
Ma
fu
anche
prosatore,
critico,
oratore,
latinista
e
grecista,
autore
di
antologie
scolastiche,
insomma
tutto
quel
che
all’opera
lirica
serve
a
poco
per
non
dire
a
niente.
Sappiamo
però
che
amava
la
musica,
il
melodramma
in
particolare.
L’inseparabile
sorella
Maria,
più
nota
come
Mariù,
ricorda
nelle
Memorie
che
il
fratello,
studente
universitario
con
pochi
quattrini
in
tasca,
si
recava
spesso
a
teatro
con
gli
amici
e,
quando
prese
con
sé
lei
e
l’altra
sorella
Ida,
festeggiò
l’evento
portandole
all’opera.
Continuò
a
coltivare
la
sua
passione
ascoltando
musica
dal
piano
melodico
della
Ditta
Racca
di
Bologna
collocato
nello
studio
della
casa
di
Castelvecchio,
strumento
donatogli
dall’amico
Giulio
Vita
al
quale
il
poeta
scrisse
di
avervi
sentito
l’Ave
Maria
di
Gounod,
«la
portentosa
sinfonia
della
Semiramide,
e
due
o
tre
volte
quella
divinissima
Prière
d’une
vierge,
che
mi
ha
suggerito
i
più
alti
e
profondi
pensieri.
Io e
Maria
siamo
risorti
a
nuova
vita.
Il
Racca
è un
benefattore
dell’umanità
a
più
buon
diritto
di
qualunque
scopritore
e
inventore
di
comodità
e di
medicine.
Egli
viene
in
soccorso
degli
appassionati
–
dei
bisognosi
–
della
musica,
i
quali,
come
molte
atre
cose,
così
non
poterono
da
ragazzi
apprenderne
l’arte
consolatrice
e
sublimatrice.
Vorrei
avere
il
ritratto
di
questo
industriale
per
metterlo
accanto
a
quello
dei
poeti
che
più
m’hanno
ispirato
e
giovato!
A me
pare
che
lì
dentro
ci
sia
del
mistero,
dell’oltreumano.
Insomma
dacché
ho
il
musico
strumento,
io
vivo
il
doppio
di
prima».
Mistero
e
oltreumano,
come
si
legge
in
questa
lettera
che
celebra
con
tanto
entusiasmo
gli
effetti
della
musica
ponendola
perfino
al
di
sopra
delle
conquiste
della
scienza
medica
e
del
benessere,
sono
motivi
tipicamente
pascoliani,
ma
lo
erano
anche
pucciniani?
Occorre
chiederselo
e
magari
si
obietterà
che
comunque
l’epoca
era
la
stessa
e
che
perciò
qualcosa
doveva
accomunarli.
Non
proprio.
Il
decadentismo
pucciniano
non
era
esattamente
quello
del
tempo,
anzi
non
lo
era
quasi
per
niente:
nulla
o
poco
di
misticismo,
nulla
o
poco
di
mistero,
nulla
o
poco
di
divagazioni
metafisiche,
morte
sì
ma
mai
ossessione
mortuaria
come
nel
Pascoli,
con
i
suoi
fantasmi
poetici,
il
nido
familiare
ricreato
a
Barga
prendendo
con
sé
Mariù,
le
meditazioni
dolcissime
sempre
intercettate
da
voci,
perlopiù
dei
propri
cari.
Non
che
Puccini
fosse
un
vanesio
– e
questo
lo
sappiamo
dalla
sua
musica
– ma
del
decadentismo
in
senso
stretto
non
ne
fece
un
mito,
la
nuova
religione
degli
sbigottimenti
e
dei
vaneggiamenti
se
la
girò
e
rigirò
come
volle,
traendone
e
affermandone
un’arte
personale.
Le
sue
inquietudini
e le
sue
frammentazioni
non
spezzano,
creano
pause,
lunghi
respiri
che
si
fanno
sospiri,
poi
le
illusioni,
la
giovinezza
che
si
consuma,
l’annullarsi
di
sé
mentre
si
vive
(non
mentre
si
pensa),
l’amore
che
angoscia,
sfugge
e
non
si
raggiunge
se
non
per
essere
dissolto,
la
fine
che
quasi
accarezza
senza
ghermire,
senza
violare.
Il
Lucchese
non
elaborava
a
freddo
la
propria
poetica
riandando
in
ricordi
o in
dimensioni
sospese
a
mezz’aria,
ma
la
filtrava
attraverso
la
vita
e le
sue
sciocchezze,
i
momenti
fatti
di
tutto
e di
niente,
cogliendo
ogni
attimo
fugace
non
solo
per
interiorizzarlo
ma
per
sfaldarlo
nella
fugacità
vitale
dell’esperienza.
Andava
a
caccia,
fumava
come
un
turco,
si
distraeva
con
donne,
il
club
della
bohème,
tressette,
briscola,
vestiti
e
automobili
all’ultima
moda,
biciclette,
camice
e
colletti
fatti
venire
da
Londra,
la
pelliccia
per
il
freddo
americano,
la
vita
lacustre,
le
notti
e i
giorni
al
pianoforte
a
comporre
quasi
sempre
con
gente
intorno
a
giocare
e
chiacchierare,
i
trasalimenti
che
lo
afferravano
quando
sapeva
di
aver
trovato
per
i
suoi
personaggi
le
parole
giuste
per
la
situazione
giusta.
E
poi
le
note
facevano
il
resto
perché
erano
già
lì
ad
aspettare
in
qualche
parte
di
sé.
La
tradizione
librettistica
epico-romantico-eroica
dell’800
era
un
lontano
ricordo,
vi
aveva
sostituito
cose
legate
alle
persone,
al
quotidiano,
a
una
certa
realtà
tangibile,
per
cui
nell’affannosa
ricerca
faceva
impazzire
gli
amici
librettisti,
tutti
uomini
di
lettere
e di
teatro,
come
la
genesi
della
Manon
Lescaut,
e
non
solo,
ampiamente
dimostra.
In
che
modo
e
con
quale
mezzo
tutto
questo
complicato
armamentario
di
far
arte
potesse
non
dico
conciliarsi,
ma
sperare
d’incontrarsi
con
le
regressioni
del
mondo
pascoliano
all’infanzia,
ai
tormenti
della
tragedia
familiare
segnata
dall’assassinio
del
padre,
alle
proiezioni
continue
di
un
immaginario
tutto
suo
–
sia
pure
mediato
dalla
luminosità
di
un
profondo
sentimento
per
la
natura
che
opera,
che
canta,
che
vive
–
direi
che
è
difficile
da
intravedere.
Per
questo,
mal
sopporto
leggere
di
qua
e di
là
assurdità
riferite
a
rapporti
di
stretta
amicizia
fra
i
due,
peraltro
impossibile
da
documentare
in
quanto
di
amicizia
non
si è
mai
trattata
e
forse
non
poteva
neppure
esserci
come
molti
vorrebbero,
essendosi
appena
sfiorati
con
garbo,
con
rispetto,
con
tatto,
senza
mai
arrivare
a
un’ipotesi
di
lavoro
insieme.
E
non
perché
non
si
fossero
capiti,
ma
per
l’esatto
contrario.
Si
obietterà
con
lo
sbandierare
la
famosa
poesiola
della
farfallina,
che
senz’altro
va
ricordata
in
seguito
al
crollo
di
Madama
Butterfly
alla
Scala
il
17
febbraio
1904,
quando
il
poeta
scrisse
e
spedì
per
cartolina
al
compositore
i
bei
versi
poi
pubblicati
sul
Giornale
d’Italia
il
20
aprile
di
quell’anno:
“Caro
nostro
e
grande
Maestro,
/ la
farfallina
volerà
: /
ha
l’ali
sparse
di
polvere,
/
con
qualche
goccia
qua
e
là,
/
gocce
di
sangue,
gocce
di
pianto
… /
Vola,
vola
farfallina,
/ a
cui
piangeva
tanto
il
cuore;
/ e
hai
fatto
piangere
il
tuo
cantore…
/
Canta,
canta
farfallina,
/
con
la
tua
voce
piccolina,
/
col
tuo
stridere
di
sogno,
/
soave
come
l’ombra,
/
dolce
come
una
tomba,
/
all’ombra
dei
bambù
/ a
Nagasaki
ed a
Cefù”.
Risposta
di
Puccini
:
«Caro
grande
poeta,
con
tanta
gioia
ho
letto
la
fine
sua
cartolina
e ne
la
ringrazio.
Anch’io
ho
così
fede
(sia
pur
tenue)
nel
volo
di
Cio
Cio
San!».
L’opera
per
fortuna
si
riprese
e
trionfò
tre
mesi
dopo,
il
28
maggio,
al
Teatro
Grande
di
Brescia
con
sette
bis
e la
giusta
rivincita,
ma
vorrei
far
notare
un
dettaglio
apparentemente
insignificante
del
biglietto
di
risposta
di
Puccini,
che
scrive
del
«volo
di
Cio
Cio
San»,
non
della
«farfallina»,
diminutivo
caro
al
lessico
pascoliano
non
solo
per
il
linguaggio
bensì
per
tutta
una
poetica
di
riferimento.
Puccini
invece
è
più
concreto,
per
lui
Butterfly
non
è
una
farfallina,
è
Cio
Cio
San.
Il
verso
dolce
come
una
tomba
è un
altro
motivo
dell’assillo
pascoliano
e
non
so
come
dovette
suonare
al
già
lacerato
spirito
del
musicista
dopo
la
disfatta
dell’opera;
fatto
sta
che,
se
per
il
poeta
romagnolo
la
morte
è
una
tomba,
per
il
Lucchese
è
una
dissolvenza
fra
le
nebbie
di
un
lago
all’alba
o al
tramonto,
un
vapore
che
non
produce
ossari
ma
soltanto
annientamento
dell’esistenza
già
da
vivi,
purché
passi
per
le
passioni
e le
densità
del
vivere,
non
per
il
niente.
Eccelsa
la
poesia
del
Pascoli
quando
viaggia
nel
liquido
amniotico
dell’infanzia
– le
ciaramelle,
la
befana,
la
ninna-nanna
– e
i
sapori,
gli
odori,
i
suoni,
il
lavoro
della
campagna
e
della
natura,
ed è
eccelsa
quando
bisbiglia
sogni,
parole
quasi
inarticolate,
modi
popolari
a
guisa
di
ritornello,
tormenti
della
domus
spezzata
che
brama
di
ricostituire
attraverso
le
sorelle
superstiti
con
le
quali
vivere
per
sempre
(ma
Ida
si
sposa
gettandolo
nel
più
cupo
sconforto,
mentre
Mariù
gli
rimarrà
accanto
fino
alla
morte,
custode
di
carte
e
memorie).
Genera
fantasmi,
si
popola
di
morti,
specchio
di
una
vita
chiusa,
spesa
fra
libri
e
cattedre
scolastiche
cui
gli
unici
affetti
a
fare
capolino
sono
quelli
familiari,
le
figure
del
padre
Ruggero
e
della
madre
Caterina
–
che
sopravvisse
da
vedova
poco
più
di
un
anno
al
marito
ucciso
-
inseguite
per
tutta
la
vita
a
promettere
loro,
come
a
risarcirle
delle
ingiustizie
patite,
in
una
personale
offerta
votiva,
il
suo
essere
poeta
che
ha
saputo
affermarsi,
essere
degno
di
loro.
Poteva
Puccini
attingere
materia
nuova
da
un
Pascoli
librettista,
il
poeta
che
inizia
‘Myricae’
con
un
camposanto
(Il
giorno
dei
morti)
e lo
stesso
fa
con
i
‘Canti
di
Castelvecchio’
(Tra
San
Mauro
e
Savignano),
per
non
parlare,
da
ambo
le
raccolte,
de
IlBrivido,
il
tremito
che
secondo
la
credenza
romagnola
si
prova
al
passaggio
della
morte,
La
voce,
Il
morticino,
Morte
e
Sole,
Morto,
La
civetta,
Lapide,
Il
bacio
del
morto,
La
notte
dei
morti
?
Vero
è
che
l’attitudine
del
Pascoli
a un
ripiegamento
così
angoscioso
nei
confronti
della
vita
e
soprattutto
della
morte,
deriva
anche
da
suggestioni
del
patrimonio
classico,
greco
e
latino
in
particolare,
con
la
sua
tragicità,
la
sua
sacralità
letteraria
perpetuatasi
da
millenni
nella
nostra
cultura
del
pensare
e
del
vivere.
Le
malinconie
del
poeta
passano
per
questo
retroterra
unito
alla
storia
della
cronaca
familiare
e
non
sono
le
malinconie
nevrotiche
di
Puccini
che
invece
nella
noia
ripone
e
rimesta
le
migliori
soluzioni
dell’arte
sua
: il
superfluo,
le
piccolezze,
sono
il
trionfo
di
questa
poetica,
quel
che
fa
imprimere
nel
profondo
le
sue
opere.
Un
esempio
per
tutti
La
Bohème.
La
cuffietta
rosa,
le
buffonate
dei
quattro
amici,
le
chiacchiere
alla
dogana,
i
litigi
fuori
campo
di
Musetta
e
Marcello,
la
vecchia
zimarra,
il
manicotto
e, a
un
passo
dalla
fine,
il
gesto
caritatevole
di
Musetta
che
pensa
a un
riparo
per
la
lampada
perché
la
fiamma
sventola
(e
vi
si
sentono
tutti
gli
spifferi
che
su
quella
povera
soffitta
dovevano
abbattersi),
sono
pulviscoli
di
grandezza
che
chiamano
a sé
tutta
l’opera
in
ogni
frammento
e
non
soltanto
nelle
pagine
più
note.
Se
manca
la
tipica
atmosfera
pucciniana
non
sarebbe
neppure
possibile
isolare
un’aria
o un
duetto
come
per
la
tradizione
del
passato,
perché
non
avrebbero
senso,
gli
stessi
personaggi
non
starebbero
in
piedi
nella
loro
dissolvenza
esistenziale.
Un
amico
in
comune
per
due
vite
agli
antipodi
S’incontrarono
in
Toscana,
in
casa
del
poeta,
dopo
alcuni
cenni
di
contatto
tentati
anni
addietro,
ma
sappiamo
che
Puccini
era
di
Lucca
e
che
al
periodo
di
Bohème
risale
la
scelta
di
stanziarsi
a
Torre
del
Lago,
mentre
Pascoli,
nativo
di
San
Mauro
di
Romagna
(oggi
San
Mauro
Pascoli),
in
Toscana
ci
andò
per
insegnare
latino
e
greco
a
Massa
negli
anni
‘84-’87
e a
Livorno
in
quelli
‘87-’95,
decidendo
di
stabilirsi
a
Castelvecchio
di
Barga,
in
provincia
di
Lucca,
nell’autunno
1895.
Lasciò
Livorno
il
15
ottobre
in
treno
insieme
alla
sorella
Mariù
(mancava
Ida,
l’altra
sorella,
che
si
era
intanto
sposata
il
30
settembre
andando
a
vivere
nella
zona
di
Rimini)
e
andò
a
stare
in
affitto
nella
nuova
casa
sul
colle
di
Caprona
– o
dei
Caproni
–
nella
Valle
del
Serchio,
in
Garfagnana,
lo
stesso
territorio
selvaggio
che
l’Ariosto,
in
qualità
di
governatore,
andò
a
liberare
dal
banditismo
nel
1522
rimanendovi
tre
anni.
Il
poeta
vi
rimase
per
tutta
la
vita,
lasciandola
solo
per
i
periodi
dell’insegnamento
universitario
a
Messina,
Pisa
e
Bologna
e
per
andare
a
curarsi
la
grave
malattia
allo
stomaco
nel
capoluogo
emiliano,
dove
giunse
ormai
allo
stremo
il
17
febbraio
1912
e
dove
morì
il 6
aprile.
Sappiamo
che
Puccini
fu
presente
ai
funerali,
quando
la
salma
venne
portata
a
Castelvecchio
da
Bologna
in
un
giorno
assai
piovoso,
vero
pianto
del
cielo,
il 9
aprile,
un
martedì,
tra
acqua,
vento
e
temporale,
con
sosta
a
Lucca,
arrivo
a
Fornaci
(all’epoca
unica
stazione
attiva
del
comune
di
Barga),
con
il
corteo
funebre
costretto
a
fermarsi
più
volte
nel
buio
a
causa
delle
strade
ridotte
ad
acquitrini,
in
direzione
del
cimitero
di
Barga.
Nella
casa
tanto
amata
dal
poeta
avvennero
i
due
incontri,
testimoniati
da
due
fotografie
:
quella
del
1908
venne
scattata
sull’altana
che
da
un
lato
affaccia
su
Barga,
dall’altra
sulle
Alpi
Apuane,
in
particolare
sulla
Pania
(la
dantesca
Pietrapana),
Puccini
elegante
come
sempre,
Pascoli
di
profilo
con
la
sua
pancia
prominente;
quella
del
1911,
un
anno
prima
della
morte
del
poeta,
li
ritrae
insieme
nel
giardino
detto
“chiusa”,
il
cui
viottolo
conduce
alla
chiesetta
di
San
Niccolò
celebrata
in
The
Hammerless
Gun
(il
nome
di
un
fucile
da
caccia
donato
al
poeta
nel
Natale
1896
da
Adolfo
De
Bosis,
traduttore
di
Shelley).
Si
vede
un
Pascoli
assai
pingue
e,
rispetto
all’altro,
con
il
solito
aspetto
dimesso,
da
sempliciotto
di
campagna,
tanto
che
di
sé
diceva
di
essere
«grosso
e
colorito
[…].
Non
un
indizio
esterno
ch’io
conosca
l’alfabeto.
Molti
si
sono
compiaciuti
di
affermare
che
sembro
un
fattore,
piuttosto
che
un
poeta».
Sappiamo
che
accolse
in
estate
l’illustre
ospite,
giunto
in
compagnia
del
comune
amico
Alfredo
Caselli,
lucchese,
omaggiandolo
con
l’ascolto
sul
piano
melodico
di
una
delle
sue
composizioni.
In
comune
avevano
sicuramente,
più
che
qualcosa,
qualcuno,
il
citato
Alfredo
Caselli
(1865-1921),
titolare
di
una
nota
drogheria
e
caffetteria
di
famiglia
nel
centro
di
Lucca,
uno
dei
componenti
il
club
della
Bohème
e
tra
i
loro
maggiori
referenti
epistolari,
tanto
che
entrambi
gli
indirizzavano
lettere
fra
le
più
significative
della
propria
attività.
Esiste
al
riguardo
un
fitto
carteggio
tanto
pucciniano
quanto
pascoliano,
perché
il
Caselli,
omosessuale
ben
accetto,
competente
di
musica,
viaggiatore,
persona
colta
e
raffinata,
era
amato
e
tenuto
in
considerazione
dall’uno
e
dall’altro,
come
dimostrano
tante
confidenze
anche
sulle
rispettive
poetiche.
Il
Pascoli,
che
lo
conobbe
nel
1898
e lo
frequentò
anche
perché
l’amico
soleva
trascorrere
la
villeggiatura
estiva
in
una
località
della
Garfagnana
(qui
fu
poi
trovato
morto
in
non
mai
precisate
circostanze,
a
mio
avviso
lo
scotto
della
sua
diversità,
come
oggi),
dedicandogli
nel
1902
l’ode
Ad
Alfredo
Caselli
e,
nelle
Note
alla
prima
edizione
dei
Canti
di
Castelvecchio,
nel
1903,
rivolgendogli
un
ringraziamento
per
aver
«tanto
fatto,
vegliato,
trepidato,
col
suo
gran
cuore
e
col
suo
gentile
intelletto,
per
noi».
Puccini
gli
scrisse
da
Londra,
da
Parigi,
si
fece
da
lui
fotografare
per
i
giornali
dopo
il
grave
incidente
d’auto
del
26
febbraio
1903,
lo
mise
al
corrente
della
messa
in
scena
e di
altri
dettagli
di
opere
come
Bohème
e
Butterfly,
gli
estese
le
sue
impressioni,
lo
annoverò
tra
i
membri
di
quel
circolo
bohèmienne
assai
pericoloso
per
ogni
genere
di
virtù
e
che
aveva
sede
dirimpetto
la
villa
del
musicista
a
Torre
del
Lago,
in
una
baracca
in
legno
col
tetto
di
paglia
che
oggi
definiremmo
una
sorta
di
prefabbricato.
Può
forse
sembrare
strana
tanta
condivisione
con
l’asetticità
pratico-esistenziale
del
Pascoli,
fatto
sta
che
nel
regolamento
del
club,
presieduto
da
Puccini,
i
soci
erano
obbligati
al
giuramento
di
bere
e
mangiar
bene,
a
non
ammettere
“immusoniti,
pedanti,
stomachi
deboli,
poveri
di
spirito,
schizzinosi
e
altri
disgraziati
del
genere”,
a
proibire
severamente
“tutti
i
giochi
leciti”,
a
vietare
il
silenzio,
a
bandire
la
saggezza
“non
ammessa
neppure
in
via
eccezionale”.
Unica
concessione
andava
al
cassiere,
avente
“facoltà
di
fuggire
con
la
cassa”.
Se
poi
si
lancia
un’occhiata
al
resto
della
combriccola,
in
particolare
ai
nomignoli
di
ognuno,
ci
si
può
fare
un’idea
più
precisa
dei
suoi
componenti
nonché
dello
spirito
che
dominava
l’attività
di
gruppo:
oltre
il
citato
Caselli
con
Alfredo
Catalani,
il
direttore
d’orchestra
Leopoldo
Mugnone,
Luigi
Illica,
Renato
Fucini,
perfino
un
sacerdote
don
Pietro
Panichelli,
meritano
menzione
personaggi
coloriti
come
i
pittori
Angiolino
e
Ludovico
Tommasi,
Ferruccio
Pagni
detto
“mi
strafotto”
e
“denti
di
ghisa”,
Ferruccio
Fanelli
il
“patata”,
il
giornalista
Carlo
Paladini
il “pelacane”,
il
riduttore
delle
partiture
pucciniane
Carlo
Carignani
il
“mestola”.
Di
costoro
il
presidente
si
circondava
anche
dentro
casa,
mentre
lavorava
a
Bohème,
forse
facendone
tesoro
mentre
pensava
ai
quattro
spiantati
della
soffitta
parigina
e
mentre
sentiva
schiamazzare
intorno
a
lui,
tra
le
note
che
venivano
fuori
da
risa,
scherzi,
carte
da
gioco,
facezie
scurrili,
racconti
di
avventurette,
proprio
come
nei
ritrovi
o
nelle
osterie.
Un
clima
da
bettola,
una
fucina
d’idee,
scenario
impossibile
e
assolutamente
impensabile
per
un
tipo
come
il
Pascoli,
i
cui
unici
frastuoni
graditi
erano
quelli
delle
cucine
di
campagna
intente
al
girarrosto,
alla
pentola
che
brontola
brontola
brontola
e
sfrigola
sfrigola
sfrigola,
alle
castagne
sul
fuoco,
alla
legna
che
scoppietta,
o
quelli
provenienti
dai
brontolii
della
natura,
insomma
quel
mondo
semplice
che
si
portava
dietro
fin
dall’infanzia.
Blindato
con
Mariù
e il
cane
Gulì
nell’eremo
che
si
era
creato
a
Barga,
riconosciuta
«la
patria
di
quasi
tutta
l’opera
mia»,
confiderà
al
Caselli,
in
una
lettera
dell’11
settembre
1900,
come
lui
e la
sorella
non
fossero
felici
«nella
loro
trista
vita
solitaria
[…]
ma
rassegnati,
rassegnati».
Puccini
stava
tutto
sommato
bene
in
quel
suo
veleggiare
in
libertà,
nelle
brevi
o
lunghe
relazioni
malcelate
ad
Elvira
e
che
confidava
alla
prediletta
sorella
Ramelde,
raccomandandole
di
stracciare
dopo
aver
letto
– un
andazzo
che
provocò
la
famosa
strigliata
di
Giulio
Ricordi
nella
lettera
del
31
maggio
1903
a
proposito
di
Corinna,
la
studentessa
universitaria
di
Torino
che
frequentava
da
qualche
anno
–, e
in
tal
disordine,
come
nel
crogiolarsi
annoiato
nello
sciocchezzame
di
ogni
giorno,
si
nutriva
la
fecondità
del
suo
comporre.
Siamo
nel
riscatto
eccellente
dell’arte,
lo
stesso
che
Pascoli
cercava
invece
di
trarre
dal
conforto
colloquiale
con
i
suoi
morti,
lieti
di
godere
delle
glorie
poetiche
del
congiunto
volte
a
ripagarne
il
destino
avverso
–
soprattutto
il
padre
invendicato
-
avuto
da
vivi.
C’è
da
chiedersi
dunque
che
spazio,
all’interno
della
progettualità
pucciniana,
poteva
trovare
la
pur
bella
lirica
del
poeta,
specchiante
così
bene
l’autore
con
il
suo
mondo
virginale-virgiliano
da
cui
non
era
mai
uscito.
Naturalmente
qui
non
si
vuole
indagare
e
moralizzare
il
modus
vivendi
di
ognuno,
bensì
l’ars
che
ne
poteva
derivare
se
vi
fosse
stato
un
principio
d’intesa
non
tra
le
due
persone,
ma
tra
le
due
poetiche,
solo
in
apparenza
simili
mentre
simili
non
erano
né
potevano
essere
(eppure
si è
scritto
tanto
a
vanvera
sul
contrario).
Sul
piano
concettuale
ed
espressivo
erano
anzi
assai
differenti
per
opposte
visioni
ed
elaborazioni
di
esperienze
tanto
biografiche
quanto
artistiche.
Inutile
dire
che
Puccini
era
rivolto
sempre
al
futuro,
il
Pascoli
era
rimasto
prigioniero
del
passato,
e
non
mi
si
dica
che
questo
non
ha
conseguenze
e
non
lascia
tracce
sull’opera
propria.