[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


moderna

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IL PARLAMENTO NAPOLETANO NEL SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO
TRE rappresentanza E RESILIENZA
di Mariagrazia Rossi

 

L’organizzazione politica per poter affermare la concentrazione del potere aveva bisogno di gruppi, sudditi che accettassero il principio della sovranità. I sovrani, dal canto loro non potevano governare con la forza, in questo modo non si riusciva a ottenere la fedeltà. La Spagna nel suo schema di governo nel Mezzogiorno d’Italia tra il 1503 e il 1507 si pose il problema di creare consenso, di far accettare la sovranità, di limitare i conflitti, forme di resistenza e forme di integrazione attraverso le quali si è realizzato lo Stato.

 

Il Regno di Napoli, sotto la dominazione spagnola sperimentò tale assetto. I sovrani spagnoli si posero il problema di governare questo territorio attraverso determinate strategie di governi, legate alle specifiche condizioni del contesto locale del Regno di Napoli. Da un lato gli spagnoli cercarono di dare omogeneità al complesso sistema imperiale, dall’altro cercarono di tener conto dell’assetto politico, istituzionale, giuridico, culturale e dei soggetti o ceti rappresentativi del territorio. Ne nacque, un sistema di compromessi, privilegi e un equilibrio fra dominio e consenso che si ruppe solo all’inizio del ‘700. Napoli era l’unica realtà cittadina che contava nel Mezzogiorno spagnolo e terrà il primato fino al 1700.

 

Napoli era il Regno, importante dal punto di vista politico, sede dell’amministrazione, dei pubblici uffici, del risparmio, della ricchezza del sud e centro importante di formazione professionale con la presenza dell’Università già dal 1066. In tal modo, essa riuscì a ottenere il riconoscimento di privilegi e immunità (tra i tanti privilegi concessi a Napoli vi era quello dell’esenzione dal pagare le imposte dirette) e a opporsi a qualsiasi tentativo di introdurre nel Regno strumenti di controllo e di coercizione, quali il tribunale dell’Inquisizione. Le notevoli dimensioni fisiche e demografiche della città, che ne facevano a fine Cinquecento una metropoli, la seconda dell’Europa occidentale dopo Parigi, accrescevano la complessità della sua stratificazione sociale e dell’organizzazione della sua vita politica, rendendone perciò sicuramente più impegnativa la gestione politica e amministrativa.

 

Il rapporto con la Spagna, comportò una intensificazione dei rapporti economici e finanziari, tanto da far diventare Napoli un grande mercato di consumo e l’emporio monopolizzatore del commercio di tutto il Mezzogiorno d’Italia, di cui rappresentava il principale accesso e come tale, oltre ai privilegi giurisdizionali e fiscali, che avevano reso la condizione dei suoi cittadini la più vantaggiosa, aveva ampliato le competenze e le basi sociali delle sue istituzioni municipali.

 

Queste ultime, nei loro organismi rappresentativi, crebbero grazie alle concessioni nel passato dei sovrani aragonesi, nel riconoscimento da parte di Carlo VIII del Seggio del Popolo e alle decisioni di Ferdinando il Cattolico e Carlo V di affiancare al viceré due giureconsulti che lo dovevano assistere nella direzione del viceregno: i reggenti collaterali.

 

Nel 1510 Napoli, venne declassata da Carlo V, in risposta alla ribellione generata dall’impianto dell’Inquisizione da parte della Spagna non con il consenso ma con la forza. La Spagna attuò una politica di compromesso volta a frenare il potere della feudalità con forza e con la concessione di privilegi in cambio del riconoscimento della sovranità.

 

Nel regno di Napoli, i feudatari, con l’avvento della dominazione spagnola, avevano perso il loro potere politico in merito alla gestione dello Stato, mentre avevano conservato il loro potere sui territori, sui feudi a loro soggetti. Si era sviluppata “una via napoletana allo stato moderno”, caratterizzata da compromessi, mediazioni tra Napoli e la Spagna, che condizionarono fortemente la vita sociale, burocratica, amministrativa e politica del regno di Napoli.

 

Le ribellioni del potere feudale, diventarono sempre più rare, anche se si rilevarono alcune rivendicazioni come nel 1547, ribellioni che mettevano in discussione il potere vicereale e non quello del sovrano, condite da un astio anche nei confronti dei nobili dediti alla corruzione. Una sovranità, che si esplicava anche attraverso la delega delle funzione monarchiche nella figura del Viceré, un alter ego del sovrano, che esercitava solo una funzione ridotta del potere regio (nomina dei funzionari, vendita degli uffici, concessione dei benefici ecclesiastici).

 

Il viceré era dipendente solo dal sovrano ed era affiancato nelle sue mansioni dal Consiglio Collaterale napoletano, organo con competenze legislative, amministrative e giudiziarie, dal Sacro Regio Consiglio e dalla Camera della Sommaria. Accanto a lui, il corollario di coloro che partecipano alla delega del potere (gentiluomini, aristocratici e ceti sociali che per ricchezza occupano una specifica posizione nell’ambito della società) e la plebe che viveva in condizioni di miseria e povertà estreme, sempre pronta alla sobillazione a ogni rialzo dei prezzi e al malfunzionamento dell’annona cittadina, in un rapporto tra società di governo e popolo napoletano, fondato su un elemento: la virtù, il grande motivo sul quale si fondava il potere, ancora prima della delega e che presiedeva la formazione dei ceti dominati.

 

A questi ceti, si annetteva, il problema dei nessi esistenti, tra la formazione dei modelli di governo e la trasformazione dei rapporti di dominio e delle relative articolazioni istituzionali in relazione a tutti i bisogni comuni del Regno. In Napoli, possiamo rintracciare un comportamento affine a una “monarchia parlamentare” e al «repubblicanesimo politico»; una società quella napoletana, articolata da uno scollamento tra la realtà virtuale e quella reale con la presenza di un Parlamento, rappresentante istituzionale di due soggetti: baroni e feudatari della città, che dovevano rapportare il complesso di imposte fiscali che i sovrani decidevano e lo ripartivano (il cosiddetto donativo dal quale la città di Napoli era esente) in cambio di privilegi, con nessuna funzione politica e legislativa, in un intreccio problematico tra poteri di diritto e poteri di fatto.

 

Questa forma di rappresentanza a Napoli, all’interno del sistema imperiale spagnolo, che si riuniva regolarmente ogni due anni e convocato dal sovrano, subirà un progressivo svuotamento di potere di rappresentanza (l’ultimo parlamento del Regno di Napoli verrà convocato nel 1642) e sarà sostituito sia da altre forme di rappresentanza di ceto (per esempio i Seggi), sia da forme di scambio politico di fatto. Verso la fine del XV secolo si delineò inoltre la capacità dei Seggi napoletani di rappresentare le istanze del regno nel suo complesso attraverso i Parlamenti generali.

 

Il sistema politico, durante la dominazione spagnola a Napoli, rimase invariato rispetto alla eredità della dominazione aragonese-angioina. Il regno di Alfonso I d’Aragona, così come quello dei suoi successori aveva dato un forte impulso allo sviluppo della città dotandola di istituzioni centrali di governo, con magistrature quali il Sacro Regio Consiglio, la Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte della Vicaria e il Consiglio Collaterale.

 

Il Collaterale era il più importante organismo politico-amministrativo del Regno. Nel Collaterale, afferivano le funzioni di cancelleria, quelle legislative (attraverso le prammatiche insieme con il viceré), quelle amministrative (nomine di ufficiali, controlli sulle province, questioni militari, di giurisdizione) e quelle giudiziarie (controllo sui tribunali, avocazione di processi). Il Sacro Regio Consiglio, invece, era la corte suprema di giustizia e aveva giurisdizione di appello da tutti i tribunali inferiori e giudicava in prima istanza sulle cause civili relative ai patrimoni feudali. La Regia Camera della Sommaria, era invece la massima magistratura con compiti di amministrazione attiva e di controllo su tutta la materia economico-finanziaria, con funzioni anche giudiziarie e giurisprudenziali, in tutte le cause intentate nel regno su questioni fiscali. La Vicaria attendeva alla giurisdizione civile e criminale in tutto il regno, fungendo inoltre da tribunale di polizia della capitale.

 

L’amministrazione civica era composta da una giunta di sei membri (gli Eletti), cinque designati dalla nobiltà e uno dal popolo. Ai Seggi e al Tribunale degli Eletti erano affidate le competenze e la presenza politica degli organi centrali dello stato, senza però una sovrapposizione o prevalenza dell’apparato statale su quello municipale, anche se non pochi erano i contrasti tra le due sfere per la gestione politica e il controllo sociale della capitale. Il sovrano, il viceré e i tribunali centrali nella gestione politica-amministrativa del regno dovevano tenerne conto, del ruolo politico svolto dall’apparato municipale cittadino.

 

Durante il viceregno di Pedro da Toledo (1532-1553), la designazione dell’assemblea civica dipese dal viceré trasformandola così in uno strumento di controllo politico-amministrativo del territorio. Nonostante, tra gli Eletti, vi erano rappresentati del popolo, tale rappresentanza era resa nulla dalla delibera secondo la quale il parere di quattro Eletti su sei aveva valore esecutivo. La presenza dei Comuni in parlamento, non fu molto pregnante, e i comuni non infeudati si limitavano a delegare i ministri regi al posto dei propri rappresentanti. Il Parlamento, comunque, conservò i propri poteri, determinando l’entità e la ripartizione del carico tributario.

 

L’assemblea degli Eletti, a differenza del Parlamento, non veniva convocata dal sovrano, ma si riuniva di sua iniziativa, e fu per tutta la dominazione spagnola un organo politico della nobiltà e del baronaggio, senza la cui approvazione non si potevano deliberare nuove imposte. Tale potere, cercò di essere arginato dai viceré, sostenendo che le riunioni degli Eletti e l’invio di ambasciatori dovevano essere preventivati dal re, ma il sovrano si oppose sempre a tale richiesta.

 

Con il regno di Filippo II, si aprì un nuovo canale di comunicazione tra Madrid e Napoli, tra centro e periferia quello del Consejo de Italia. Come sostiene Galasso, «il Consiglio d’Italia, non rappresentava un’istanza unificante dell’Italia spagnola». Galasso, rileva, la superiorità politica dei Consigli di Stato e di Guerra, la piena autonomia del viceregno napoletano, il potere del viceré. Galasso, concluse sostenendo la problematicità di identificare un «filo italiano» nella politica spagnola in Italia. Musi, invece, «sostiene che esista comunque la possibilità di individuare una relazione tra le linee direttrici della politica imperiale spagnola e gli aggiustamenti territoriali nel sottosistema Italia, che corrispondeva poi all’equilibrio complesso tra concentrazione e partecipazione al potere».

 

Con Filippo II, III e IV, si assistette a una messa in discussione ed erosione dei privilegi, soprattutto attraverso l’interpretazione dei loro contenuti in fase di applicazione a opera dei tribunali centrali. Con la crisi del sistema imperiale spagnolo, e l’intensificazione della pressione fiscale (1636-1647), venne a delinearsi nel regno di Napoli tra il 1620 e il 1647, una spaccatura tra le classi sociali con il dominio dell’aristocrazia a danno del popolo, privilegiando la nobiltà sia di seggio che delle provincie, in quanto rappresentava l’unico gruppo sociale in grado di garantire alla monarchia il potere. Tutto ciò, portò a un repentino accentramento del potere, così da dare più autorità alla rappresentanze locali.

 

Per limitare tale assetto, il sovrano spagnolo, conferì al viceré Duca d’Olivares il potere di agire indipendentemente dalle magistrature locali. Tutto ciò, portò alla rottura del vincolo di fedeltà al re e l’aumento vorticoso della pressione fiscale fece il resto. Il Parlamento napoletano, in questo contesto, come forma di resilienza, di desovranizzazione e di scavalcamento dell’autorità regia, cercò di tutelare i propri interessi individuali, corporativi, privatistici (gli interessi dei ceti che rappresentava) e di stabilizzarli a livello della decisione politica senza alienare la propria identità, registrando una sorta di iniziativa indipendentista interna, sfidando la monarchia spagnola. Poteri di diritto e poteri di fatto interagirono e condizionano il gioco della rappresentanza secondo la logica del compromesso sull’ideale di una «monarchia condizionata», resa possibile attraverso il superamento della differenza tra la nobiltà e il popolo di Napoli.

 

La via di comunicazione per il superamento di questo rigido schema, era la peculiarità dell’appartenenza alla Capitale, che conferiva la vera identità all’interno Regno. In questo ideale politico, all’interno del sistema imperiale spagnolo, si evidenziava la possibilità della realizzazione della «libera repubblica napoletana»; un modello caratterizzato dalla fedeltà all’Impero, per mantenere la quale occorreva un equilibrio interno, sotto l’aspetto istituzionale, tra poteri rappresentativi la città di Napoli; i Seggi, ovvero gli organismi di rappresentanza dell’aristocrazia e del popolo.

 

Nel caso del Regno di Napoli, sono riconoscibili quattro compromessi fondamentali: quello tra la monarchia e la feudalità, quello tra la monarchia e la capitale, quello tra sistema finanziario pubblico e operatori economici privati, infine il compromesso tra stato e chiesa, soprattutto sul fronte della fiscalità, senza dimenticare la collocazione geopolitica, culturale ed economica di Napoli al centro del Mediterraneo.

 

Un modello a cerniera che mise in collegamento e a confronto più storie, civiltà e culture, dove le singole identità e differenze non vengono perse, ma bensì esaltate, in una lunga storia di dominazioni attraverso la quale si sono realizzati fattori grazie ai quali si è costruito il senso di appartenenza (fedeltà al re) e l’identificazione in una unica autorità, capace di tenere insieme più realtà lacerate e discontinue. Il sovrano era l’unico punto di riferimento, l’unica autorità in grado di poter unificare il territorio.

 

Al di là delle differenze, ci fu un elemento di fondo unico nell’elaborazione strategica per il governo del territorio: la ricerca dei mezzi più adatti per neutralizzare il potere politico dell’aristocrazia feudale, ma al tempo stesso, la tendenza a mantenere o allargare la sua sfera di giurisdizione, la sua forza sociale ed economica. Questo fu il modello che si affermò nel Regno di Napoli.

 

Il meccanismo parlamentare era caratterizzato, dunque da un confronto politico e da una contrattazione continua e corrente tra soggetti istituzionali e potere regio definendone così uno spazio politico molto ampio nel quale la ricerca della preminenza e delle legittimazione costituiva una variabile rilevante per la gestione politica spagnola.

 

Il parlamento, venne a configurarsi, così, come uno spazio di approfondimento della mediazione, delle contrattualità politiche e di riproduzione costante del patto tra la corona e le élites della capitale per conseguire il controllo politico dei vari interlocutori sociali e istituzionali a Napoli e nel regno, tanto da divenire oggetto stesso di controllo politico e talora di intervento del potere centrale che rappresentava e fenomeno di criticità interessante la sovranità statuale.

 

Per il controllo di una realtà urbana come quella napoletana, era molto importante il rapporto con le élites locali rappresentate dai cinque Seggi nobili e dal Seggio del Popolo, che esercitavano un peso considerevole nell’ambito del Parlamento generale del regno. Il parlamento, tuttavia, non esauriva la gamma di rapporti e attenzioni tra il governo spagnolo e le élites della capitale nel loro insieme.

 

Restavano importanti le autonome vicende dei Seggi nobili o di quello popolare, anche al di là del confronto diretto con l’amministrazione spagnola, sebbene il loro andamento interno finisse comunque per ripercuotersi sugli equilibri politici perseguiti o raggiunti da Madrid.

 

 

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