moderna
.
IL PARLAMENTO NAPOLETANO NEL SISTEMA
IMPERIALE SPAGNOLO
TRE rappresentanza
E RESILIENZA
di Mariagrazia Rossi
L’organizzazione politica per poter
affermare la concentrazione del potere
aveva bisogno di gruppi, sudditi che
accettassero il principio della
sovranità. I sovrani, dal canto loro non
potevano governare con la forza, in
questo modo non si riusciva a ottenere
la fedeltà. La Spagna nel suo schema di
governo nel Mezzogiorno d’Italia tra il
1503 e il 1507 si pose il problema di
creare consenso, di far accettare la
sovranità, di limitare i conflitti,
forme di resistenza e forme di
integrazione attraverso le quali si è
realizzato lo Stato.
Il Regno di Napoli, sotto la dominazione
spagnola sperimentò tale assetto. I
sovrani spagnoli si posero il problema
di governare questo territorio
attraverso determinate strategie di
governi, legate alle specifiche
condizioni del contesto locale del Regno
di Napoli. Da un lato gli spagnoli
cercarono di dare omogeneità al
complesso sistema imperiale, dall’altro
cercarono di tener conto dell’assetto
politico, istituzionale, giuridico,
culturale e dei soggetti o ceti
rappresentativi del territorio. Ne
nacque, un sistema di compromessi,
privilegi e un equilibrio fra dominio e
consenso che si ruppe solo all’inizio
del ‘700. Napoli era l’unica realtà
cittadina che contava nel Mezzogiorno
spagnolo e terrà il primato fino al
1700.
Napoli era il Regno, importante dal
punto di vista politico, sede
dell’amministrazione, dei pubblici
uffici, del risparmio, della ricchezza
del sud e centro importante di
formazione professionale con la presenza
dell’Università già dal 1066. In tal
modo, essa riuscì a ottenere il
riconoscimento di privilegi e immunità
(tra i tanti privilegi concessi a Napoli
vi era quello dell’esenzione dal pagare
le imposte dirette) e a opporsi a
qualsiasi tentativo di introdurre nel
Regno strumenti di controllo e di
coercizione, quali il tribunale
dell’Inquisizione. Le notevoli
dimensioni fisiche e demografiche della
città, che ne facevano a fine
Cinquecento una metropoli, la seconda
dell’Europa occidentale dopo Parigi,
accrescevano la complessità della sua
stratificazione sociale e
dell’organizzazione della sua vita
politica, rendendone perciò sicuramente
più impegnativa la gestione politica e
amministrativa.
Il rapporto con la Spagna, comportò una
intensificazione dei rapporti economici
e finanziari, tanto da far diventare
Napoli un grande mercato di consumo e
l’emporio monopolizzatore del commercio
di tutto il Mezzogiorno d’Italia, di cui
rappresentava il principale accesso e
come tale, oltre ai privilegi
giurisdizionali e fiscali, che avevano
reso la condizione dei suoi cittadini la
più vantaggiosa, aveva ampliato le
competenze e le basi sociali delle sue
istituzioni municipali.
Queste ultime, nei loro organismi
rappresentativi, crebbero grazie alle
concessioni nel passato dei sovrani
aragonesi, nel riconoscimento da parte
di Carlo VIII del Seggio del Popolo e
alle decisioni di Ferdinando il
Cattolico e Carlo V di affiancare al
viceré due giureconsulti che lo dovevano
assistere nella direzione del viceregno:
i reggenti collaterali.
Nel 1510 Napoli, venne declassata da
Carlo V, in risposta alla ribellione
generata dall’impianto dell’Inquisizione
da parte della Spagna non con il
consenso ma con la forza. La Spagna
attuò una politica di compromesso volta
a frenare il potere della feudalità con
forza e con la concessione di privilegi
in cambio del riconoscimento della
sovranità.
Nel regno di Napoli, i feudatari, con
l’avvento della dominazione spagnola,
avevano perso il loro potere politico in
merito alla gestione dello Stato, mentre
avevano conservato il loro potere sui
territori, sui feudi a loro soggetti. Si
era sviluppata “una via napoletana
allo stato moderno”, caratterizzata
da compromessi, mediazioni tra Napoli e
la Spagna, che condizionarono fortemente
la vita sociale, burocratica,
amministrativa e politica del regno di
Napoli.
Le ribellioni del potere feudale,
diventarono sempre più rare, anche se si
rilevarono alcune rivendicazioni come
nel 1547, ribellioni che mettevano in
discussione il potere vicereale e non
quello del sovrano, condite da un astio
anche nei confronti dei nobili dediti
alla corruzione. Una sovranità, che si
esplicava anche attraverso la delega
delle funzione monarchiche nella figura
del Viceré, un alter ego del sovrano,
che esercitava solo una funzione ridotta
del potere regio (nomina dei funzionari,
vendita degli uffici, concessione dei
benefici ecclesiastici).
Il viceré era dipendente solo dal
sovrano ed era affiancato nelle sue
mansioni dal Consiglio Collaterale
napoletano, organo con competenze
legislative, amministrative e
giudiziarie, dal Sacro Regio Consiglio e
dalla Camera della Sommaria. Accanto a
lui, il corollario di coloro che
partecipano alla delega del potere
(gentiluomini, aristocratici e ceti
sociali che per ricchezza occupano una
specifica posizione nell’ambito della
società) e la plebe che viveva in
condizioni di miseria e povertà estreme,
sempre pronta alla sobillazione a ogni
rialzo dei prezzi e al malfunzionamento
dell’annona cittadina, in un rapporto
tra società di governo e popolo
napoletano, fondato su un elemento: la
virtù, il grande motivo sul quale si
fondava il potere, ancora prima della
delega e che presiedeva la formazione
dei ceti dominati.
A questi ceti, si annetteva, il problema
dei nessi esistenti, tra la formazione
dei modelli di governo e la
trasformazione dei rapporti di dominio e
delle relative articolazioni
istituzionali in relazione a tutti i
bisogni comuni del Regno. In Napoli,
possiamo rintracciare un comportamento
affine a una “monarchia parlamentare” e
al «repubblicanesimo politico»; una
società quella napoletana, articolata da
uno scollamento tra la realtà virtuale e
quella reale con la presenza di un
Parlamento, rappresentante istituzionale
di due soggetti: baroni e feudatari
della città, che dovevano rapportare il
complesso di imposte fiscali che i
sovrani decidevano e lo ripartivano (il
cosiddetto donativo dal quale la
città di Napoli era esente) in cambio di
privilegi, con nessuna funzione politica
e legislativa, in un intreccio
problematico tra poteri di diritto e
poteri di fatto.
Questa forma di rappresentanza a Napoli,
all’interno del sistema imperiale
spagnolo, che si riuniva regolarmente
ogni due anni e convocato dal sovrano,
subirà un progressivo svuotamento di
potere di rappresentanza (l’ultimo
parlamento del Regno di Napoli verrà
convocato nel 1642) e sarà sostituito
sia da altre forme di rappresentanza di
ceto (per esempio i Seggi), sia da forme
di scambio politico di fatto. Verso la
fine del XV secolo si delineò inoltre la
capacità dei Seggi napoletani di
rappresentare le istanze del regno nel
suo complesso attraverso i Parlamenti
generali.
Il sistema politico, durante la
dominazione spagnola a Napoli, rimase
invariato rispetto alla eredità della
dominazione aragonese-angioina. Il regno
di Alfonso I d’Aragona, così come quello
dei suoi successori aveva dato un forte
impulso allo sviluppo della città
dotandola di istituzioni centrali di
governo, con magistrature quali il Sacro
Regio Consiglio, la Regia Camera della
Sommaria, la Gran Corte della Vicaria e
il Consiglio Collaterale.
Il Collaterale era il più importante
organismo politico-amministrativo del
Regno. Nel Collaterale, afferivano le
funzioni di cancelleria, quelle
legislative (attraverso le
prammatiche insieme con il viceré),
quelle amministrative (nomine di
ufficiali, controlli sulle province,
questioni militari, di giurisdizione) e
quelle giudiziarie (controllo sui
tribunali, avocazione di processi). Il
Sacro Regio Consiglio, invece, era la
corte suprema di giustizia e aveva
giurisdizione di appello da tutti i
tribunali inferiori e giudicava in prima
istanza sulle cause civili relative ai
patrimoni feudali. La Regia Camera della
Sommaria, era invece la massima
magistratura con compiti di
amministrazione attiva e di controllo su
tutta la materia economico-finanziaria,
con funzioni anche giudiziarie e
giurisprudenziali, in tutte le cause
intentate nel regno su questioni
fiscali. La Vicaria attendeva alla
giurisdizione civile e criminale in
tutto il regno, fungendo inoltre da
tribunale di polizia della capitale.
L’amministrazione civica era composta da
una giunta di sei membri (gli Eletti),
cinque designati dalla nobiltà e uno dal
popolo. Ai Seggi e al Tribunale degli
Eletti erano affidate le competenze e la
presenza politica degli organi centrali
dello stato, senza però una
sovrapposizione o prevalenza
dell’apparato statale su quello
municipale, anche se non pochi erano i
contrasti tra le due sfere per la
gestione politica e il controllo sociale
della capitale. Il sovrano, il viceré e
i tribunali centrali nella gestione
politica-amministrativa del regno
dovevano tenerne conto, del ruolo
politico svolto dall’apparato municipale
cittadino.
Durante il viceregno di Pedro da Toledo
(1532-1553), la designazione
dell’assemblea civica dipese dal viceré
trasformandola così in uno strumento di
controllo politico-amministrativo del
territorio. Nonostante, tra gli
Eletti, vi erano rappresentati del
popolo, tale rappresentanza era resa
nulla dalla delibera secondo la quale il
parere di quattro Eletti su sei
aveva valore esecutivo. La presenza dei
Comuni in parlamento, non fu molto
pregnante, e i comuni non infeudati si
limitavano a delegare i ministri regi al
posto dei propri rappresentanti. Il
Parlamento, comunque, conservò i propri
poteri, determinando l’entità e la
ripartizione del carico tributario.
L’assemblea degli Eletti, a
differenza del Parlamento, non veniva
convocata dal sovrano, ma si riuniva di
sua iniziativa, e fu per tutta la
dominazione spagnola un organo politico
della nobiltà e del baronaggio, senza la
cui approvazione non si potevano
deliberare nuove imposte. Tale potere,
cercò di essere arginato dai viceré,
sostenendo che le riunioni degli
Eletti e l’invio di ambasciatori
dovevano essere preventivati dal re, ma
il sovrano si oppose sempre a tale
richiesta.
Con il regno di Filippo II, si aprì un
nuovo canale di comunicazione tra Madrid
e Napoli, tra centro e periferia quello
del Consejo de Italia. Come
sostiene Galasso, «il Consiglio
d’Italia, non rappresentava un’istanza
unificante dell’Italia spagnola».
Galasso, rileva, la superiorità politica
dei Consigli di Stato e di Guerra, la
piena autonomia del viceregno
napoletano, il potere del viceré.
Galasso, concluse sostenendo la
problematicità di identificare un «filo
italiano» nella politica spagnola in
Italia. Musi, invece, «sostiene che
esista comunque la possibilità di
individuare una relazione tra le linee
direttrici della politica imperiale
spagnola e gli aggiustamenti
territoriali nel sottosistema Italia,
che corrispondeva poi all’equilibrio
complesso tra concentrazione e
partecipazione al potere».
Con Filippo II, III e IV, si assistette
a una messa in discussione ed erosione
dei privilegi, soprattutto attraverso
l’interpretazione dei loro contenuti in
fase di applicazione a opera dei
tribunali centrali. Con la crisi del
sistema imperiale spagnolo, e
l’intensificazione della pressione
fiscale (1636-1647), venne a delinearsi
nel regno di Napoli tra il 1620 e il
1647, una spaccatura tra le classi
sociali con il dominio dell’aristocrazia
a danno del popolo, privilegiando la
nobiltà sia di seggio che delle
provincie, in quanto rappresentava
l’unico gruppo sociale in grado di
garantire alla monarchia il potere.
Tutto ciò, portò a un repentino
accentramento del potere, così da dare
più autorità alla rappresentanze locali.
Per limitare tale assetto, il sovrano
spagnolo, conferì al viceré Duca d’Olivares
il potere di agire indipendentemente
dalle magistrature locali. Tutto ciò,
portò alla rottura del vincolo di
fedeltà al re e l’aumento vorticoso
della pressione fiscale fece il resto.
Il Parlamento napoletano, in questo
contesto, come forma di resilienza, di
desovranizzazione e di scavalcamento
dell’autorità regia, cercò di tutelare i
propri interessi individuali,
corporativi, privatistici (gli interessi
dei ceti che rappresentava) e di
stabilizzarli a livello della decisione
politica senza alienare la propria
identità, registrando una sorta di
iniziativa indipendentista interna,
sfidando la monarchia spagnola. Poteri
di diritto e poteri di fatto
interagirono e condizionano il gioco
della rappresentanza secondo la logica
del compromesso sull’ideale di una
«monarchia condizionata», resa possibile
attraverso il superamento della
differenza tra la nobiltà e il popolo di
Napoli.
La via di comunicazione per il
superamento di questo rigido schema, era
la peculiarità dell’appartenenza alla
Capitale, che conferiva la vera identità
all’interno Regno. In questo ideale
politico, all’interno del sistema
imperiale spagnolo, si evidenziava la
possibilità della realizzazione della
«libera repubblica napoletana»; un
modello caratterizzato dalla fedeltà
all’Impero, per mantenere la quale
occorreva un equilibrio interno, sotto
l’aspetto istituzionale, tra poteri
rappresentativi la città di Napoli; i
Seggi, ovvero gli organismi di
rappresentanza dell’aristocrazia e del
popolo.
Nel caso del Regno di Napoli, sono
riconoscibili quattro compromessi
fondamentali: quello tra la monarchia e
la feudalità, quello tra la monarchia e
la capitale, quello tra sistema
finanziario pubblico e operatori
economici privati, infine il compromesso
tra stato e chiesa, soprattutto sul
fronte della fiscalità, senza
dimenticare la collocazione geopolitica,
culturale ed economica di Napoli al
centro del Mediterraneo.
Un modello a cerniera che mise in
collegamento e a confronto più storie,
civiltà e culture, dove le singole
identità e differenze non vengono perse,
ma bensì esaltate, in una lunga storia
di dominazioni attraverso la quale si
sono realizzati fattori grazie ai quali
si è costruito il senso di appartenenza
(fedeltà al re) e l’identificazione in
una unica autorità, capace di tenere
insieme più realtà lacerate e
discontinue. Il sovrano era l’unico
punto di riferimento, l’unica autorità
in grado di poter unificare il
territorio.
Al di là delle differenze, ci fu un
elemento di fondo unico
nell’elaborazione strategica per il
governo del territorio: la ricerca dei
mezzi più adatti per neutralizzare il
potere politico dell’aristocrazia
feudale, ma al tempo stesso, la tendenza
a mantenere o allargare la sua sfera di
giurisdizione, la sua forza sociale ed
economica. Questo fu il modello che si
affermò nel Regno di Napoli.
Il meccanismo parlamentare era
caratterizzato, dunque da un confronto
politico e da una contrattazione
continua e corrente tra soggetti
istituzionali e potere regio definendone
così uno spazio politico molto ampio nel
quale la ricerca della preminenza e
delle legittimazione costituiva una
variabile rilevante per la gestione
politica spagnola.
Il parlamento, venne a configurarsi,
così, come uno spazio di approfondimento
della mediazione, delle contrattualità
politiche e di riproduzione costante del
patto tra la corona e le élites
della capitale per conseguire il
controllo politico dei vari
interlocutori sociali e istituzionali a
Napoli e nel regno, tanto da divenire
oggetto stesso di controllo politico e
talora di intervento del potere centrale
che rappresentava e fenomeno di
criticità interessante la sovranità
statuale.
Per il controllo di una realtà urbana
come quella napoletana, era molto
importante il rapporto con le élites
locali rappresentate dai cinque
Seggi nobili e dal Seggio del Popolo,
che esercitavano un peso considerevole
nell’ambito del Parlamento generale del
regno. Il parlamento, tuttavia, non
esauriva la gamma di rapporti e
attenzioni tra il governo spagnolo e le
élites della capitale nel loro
insieme.
Restavano importanti le autonome vicende
dei Seggi nobili o di quello popolare,
anche al di là del confronto diretto con
l’amministrazione spagnola, sebbene il
loro andamento interno finisse comunque
per ripercuotersi sugli equilibri
politici perseguiti o raggiunti da
Madrid.
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