C’era una volta la Parigi-Dakar, perché oggi non c’è
più.
Dopo le serie minacce ricevute dai terroristi islamici a
pochi giorni dalla partenza del rally 2008 e il
conseguente annullamento della manifestazione, tutta la
carovana si è spostata in Sud America, pronta a
ripartire il 3 gennaio del 2009.
Il nuovo rally si sviluppa per quasi diecimila
chilometri tra Argentina e Cile, ed è annunciato, dal
direttore di gara Etienne Lavigne, come la più grande
edizione della storia trentennale della “Dakar”, tra le
proteste annunciate dei proprietari terrieri della
Pampa.
Ma si può chiamare “Dakar” una corsa che non si svolgerà
più tra le dune del deserto del Sahara e tra i tortuosi
percorsi dell’Africa settentrionale?
Forse bisognerebbe trovarle un nuovo nome, o forse, più
coerentemente, bisognerebbe non correre più una gara che
nella sua storia ha mietuto, tra piloti, addetti ai
lavori e pubblico, ben 54 vittime, seconda solo, in
termini di pericolosità, al motociclistico Tourist
Trophy, che detiene il non invidiabile primato di 226
morti.
Il fascino della competizione estrema ha però sempre
spinto gli uomini verso nuovi traguardi e la Dakar di
fascino, non si può negare, ne ha da vendere.
La sfida, da sempre svoltasi tra i magnifici scenari del
continente nero, ha attirato nella sua storia nugoli di
appassionati provenienti non soltanto dal mondo dei
motori, vogliosi di cimentarsi in una gara dura, in una
lotta contro il tempo ma soprattutto contro i limiti
umani e meccanici dei mezzi; una corsa che da trent’anni
viaggia su quella sottile strada che separa il coraggio
dall’incoscienza.
Ogni concorrente iscritto conosce i rischi che corre e
sa che il deserto può non lasciare scampo, con le sue
tempeste improvvise, con le sue trappole disseminate in
ogni metro del percorso, con il suo caldo torrido e con
le sue notti gelide. Inoltre nelle cosiddette tappe “Marathon”,
quelle più lunghe, sono vietati l’assistenza esterna (in
pratica si deve essere non solo piloti ma anche bravi
meccanici) e, fino a qualche anno fa, i dispositivi
satellitari per orientarsi. Allora perché rischiare così
tanto?
Probabilmente non ha senso per i più, ma ha senso per
coloro i quali vi partecipano e ne fanno, da decenni,
una ragione di vita. Provando dunque a non giudicare, o
più precisamente sforzandoci di accettare le ragioni che
spingono i piloti ad affrontare una competizione così
pericolosa, andiamo a rivivere la sua affascinante
storia.
Cos’è, intanto, la Parigi-Dakar?
Questa corsa, che meglio sarebbe chiamare “Raid Dakar”,
in quanto il suo percorso è diventato vario e mutevole
di edizione in edizione, è una competizione per vetture
a quattro e due ruote, da sempre disputatasi nel mese di
gennaio.
è un
rally estremo, che si sviluppa su terreni a volte
simili, ma il più delle volte troppo duri, rispetto a
quelli affrontati dalle “normali” vetture WRC (quelle
che partecipano al Campionato Mondiale Rally) e che dura
in tutto tre settimane.
Il vecchio nome Parigi-Dakar era stato dato, come si
intuisce, in virtù del fatto che la partenza era
stabilita nella capitale francese, mentre l’arrivo in
quella senegalese. Così è stato per un quindicennio,
fino al 1995, anno dal quale il percorso ha iniziato ad
essere modificato di volta in volta.
La corsa nasce su idea del francese Thierry Sabine, che
nel 1977, durante il rally estremo tra Abidjan e Nizza,
si perse, rimanendo tre giorni nel deserto del Ténéré
prima di essere tratto in salvo.
è in quei
tre giorni solitari che Sabine matura la decisione di
provare ad organizzare una corsa ad orientamento, con
partenza dalla sua amata Parigi. Il sogno diventa presto
realtà quando, nel giorno di Santo Stefano del 1978,
numerosi equipaggi, dotati esclusivamente di rudimentali
bussole, sono pronti a partire dall’ombra della Torre
Eiffel alla volta della capitale del Senegal.
La prima Parigi-Dakar è un successo. Non tanto per
quello che riguarda l’organizzazione del rally, ancora
grezzo e caratterizzato da innumerevoli problemi tecnici
(tanto che i primi sette motociclisti classificati di
quell’anno si persero andando a finire in una miniera
d’uranio), quanto per l’entusiasmo che riesce a generare
soprattutto nei partecipanti.
La grande visibilità internazionale viene data al rally
soprattutto da un episodio. Nel 1982 tra gli iscritti
c’è anche Mark Thatcher, figlio del primo ministro
britannico, Margaret Thatcher.
Mark si perde nel deserto, emulando in un certo qual
modo l’episodio accaduto a Thierry Sabine e venendo
ritrovato anch’esso dopo tre giorni. La vicenda ebbe un
clamoroso risalto sulla stampa e sulle televisioni di
tutto il mondo, dando così grande visibilità alla
giovane manifestazione.
Mark non è stato che uno tra i primi partecipanti al
rally non proveniente dal mondo dei motori. Il caso più
clamoroso è quello di Luc Alphand, vincitore di una
coppa del mondo di sci e trionfatore dell’edizione 2006
della Dakar.
Personaggi provenienti dal mondo dello spettacolo hanno
invece avuto meno fortuna, come il famoso rocker
francese Johnny Halliday o l’attore italiano Renato
Pozzetto, entrambi relegati nelle retrovie.
Bisogna comunque sottolineare che la Dakar è da sempre
stata una corsa aperta a professionisti ma anche e
soprattutto a privati amatori che ad oggi rappresentano
circa l’ottanta per cento degli equipaggi iscritti e per
i quali la gioia più assoluta consiste nel portare a
termine la gara.
Molti, inoltre, sono stati i concorrenti nella storia
della Dakar a provenire da altre discipline motoristiche
lontane dal mondo dei raid estremi.
è il caso
di cinque campioni di Formula 1, come Jackie Ickx, Clay
Regazzoni, Patrick Tambay, Henri Pescarolo e Jacques
Laffite che si sono cimentati tra la sabbia e le rocce
africane con alterni risultati.
Il migliore è stato senza ombra di dubbio il belga Ickx,
che riesce ad affermarsi nel raid del 1983 e a
concludere altre due volte al secondo posto, mentre il
più sfortunato è di sicuro il francese Laffite, che nel
1989 si perde sulla tangenziale di Parigi e arriva in
ritardo alla partenza venendo squalificato prima ancora
di iniziare la gara.
Altro evento da sottolineare è la prima vittoria di una
donna in una corsa da sempre aperta a sfide al
femminile, da quando già nella prima edizione ben tre
centaure riuscirono a terminare la corsa. Nel 2001 la
tedesca Jutta Kleinschmidt, che già aveva partecipato al
rally su una moto, si afferma tra le auto con la sua
Mitsubishi precedendo i colleghi maschi e collezionando
nella sua carriera altri tre podi.
Di pari passo con i primi successi cominciano i primi
drammatici incidenti. Già nel 1979 perde la vita il
motociclista Patrick Dodin, mentre tentava di
allacciarsi il casco che gli si era allentato. Quello
sarà l’inizio di un tragico bollettino che conterà alla
fine 24 morti solo tra i piloti.
Il 14 gennaio 1986 a morire è il fondatore stesso della
manifestazione, Thierry Sabine, insieme agli altri
quattro componenti dell’equipaggio mentre seguiva la
corsa dall’elicottero della direzione di gara,
precipitato ai confini del Niger.
L’incidente, dovuto probabilmente a un’improvvisa
tempesta di sabbia, rimarrà quello col più tragico
bilancio nella storia della Dakar. Le ceneri di Sabine
saranno sparse sotto il celebre “albero perduto”, vicino
a dove smarrì la strada una decina di anni prima. In
quella edizione perde la vita anche il motociclista
giapponese Yasuo Kaneko, investito da un’automobilista.
Sarà la più tragica Dakar della storia con sei morti.
Nonostante le sempre più restringenti misure di
sicurezza e l’adozione del sistema Gps di navigazione
per evitare che i piloti finiscano fuori percorso ed
evitino rischi inutili, gli incidenti non sono mai
diminuiti.
Gli ultimi a lasciarci la pelle sono stati nel 2005 lo
spagnolo Josè Manuel Perez e l’italiano Fabrizio Meoni,
quest’ultimo già vincitore di due Dakar, e nel 2006
l’australiano Andy Cadelcott. L’insidia, in un rally del
genere, è sempre dietro l’angolo: una duna troppo
ripida, una roccia sporgente, una mina abbandonata sotto
terra.
Quando infatti il pericolo non è riconducibile
all’asprezza del tragitto è l’uomo che ci mette lo
zampino. Il percorso del raid, nonostante venisse
modificato ogni anno a seconda delle varie situazioni
politiche dei paesi da attraversare, si è sempre svolto
in un territorio, quello africano, disseminato di
conflitti, bande di predoni, guerriglieri, militari.
Nel 1991, ad esempio, Charles Cabannes, pilota francese
di un camion d’assistenza, viene ucciso da un proiettile
vagante partito dal fucile di un militare nel Mali. Nel
1998 due camion iscritti alla competizione furono
addirittura sequestrati dai predoni, che spararono coi
kalashnikov sugli altri concorrenti che passavano. Per
evitare situazioni analoghe nel 2000 viene organizzato
un ponte aereo per evitare il Niger. Nel 2003 invece un
camion di assistenza della KTM è saltato su una mina al
confine tra Libia ed Egitto, incidente dal quale
l’equipaggio è uscito miracolosamente illeso.
Non si conta il numero degli incidenti, non solo
mortali, che ogni edizione avvengono durante il
percorso. Il caso più celebre è quello di Hubert Auriol,
già vincitore della corsa in sella a una BMW nell’81 e
nell’83, che cade rovinosamente nell’edizione ’87
spezzandosi entrambe le caviglie. Auriol tornerà però a
disputare una Dakar su auto e vincerà nel 1992,
riuscendo a diventare il primo pilota a trionfare nel
massacrante rally, sia su due ruote sia su quattro.
Il secondo a riuscire nell’intento sarà Stephane
Peterhansel, che, risultati alla mano, si può
considerare il vero re della Dakar. Il francese vince
cinque volte su Yamaha tra il 1991 e il 1998, prima di
passare alla Mitsubishi con cui trionfa tra le macchine
nel 2004, 2005 e 2007.
A tentare l’impresa furono comunque altri bravi piloti,
tra cui Edi Orioli, italiano di Udine, che si afferma
quattro volte nelle moto e tenta l’impresa, senza
gloria, anche sulle quattro ruote. Orioli resta uno tra
i più affermati motociclisti della Dakar, battuto per
numero di vittorie nelle moto, solamente dal già citato
Peterhansel, con cui ha dato vita a memorabili sfide, e
dal francese Cyril Neveu, anch’esso con cinque
affermazioni.
Come detto, il percorso cambierà numerose volte, anche
se per un buon periodo di tempo verranno mantenute
fisse, con poche eccezioni, città di partenza e di
arrivo. Il rally transiterà per i primi anni
dall’Algeria, prima di doverla abbandonare a causa della
instabile situazione politica di quel Paese.
Si sceglieranno quindi percorsi alternativi di accesso
ai porti africani (infatti dopo i primi giorni di gara
in terra europea, tutti i concorrenti venivano
trasferiti via mare o via cielo sulle coste del Maghreb),
quali Tunisi e Tripoli.
Nell’edizione del 1992 la carovana attraverserà non
soltanto l’Africa settentrionale, ma anche parecchi
stati centrali e meridionali terminando la sua corsa a
Città del Capo. E’ nel 1995 che si cambia città di
partenza: Granada, in Spagna, per due anni.
Nel 1997 il percorso esclude l’Europa e la partenza è da
Dakar con giro di boa ad Agadez e arrivo ancora a Dakar.
Da qui in poi, tranne nel 2000 (Dakar-Cairo) e nel 2003
(Marsiglia-Sharm El Sheikh), si cerca di mantenere la
tradizionale città di arrivo in Dakar e si varia di anno
in anno la sede della partenza: Parigi, Granada, Arras,
Marsiglia, Clermont-Ferrand, Barcellona, Lisbona. Il
tutto fino alla cancellazione del 2008 e alla decisione
degli organizzatori di spostarsi in Sud America con
arrivo e partenza da Buenos Aires.
Con questo nuovo tragitto si perdono peculiarità e
luoghi storici della Dakar. Non si passerà più, ad
esempio, tra vecchi villaggi, dune sabbiose o davanti a
tribù di nomadi col chech in testa, tipico
copricapo in cotone che appare stilizzato anche nel logo
della manifestazione.
Si abbandona il deserto del Ténéré, luogo simbolo dove
spesso si transitava davanti allo storico “Albero del
Ténéré”, in realtà un totem in metallo eretto al posto
del vecchio albero abbattuto da un camionista ubriaco.
Non si rischierà più di incontrare sulla propria strada
mandrie di cammelli (magari sostituiti dai lama…), ma
d’altra parte si ridurranno di molto i rischi di
attentati e rappresaglie, sempre paventati durante tutta
la storia della manifestazione.
Si perderanno in ogni caso i luoghi che hanno fatto la
leggenda dei piloti più vincenti, come Ari Vatanen,
finlandese che vinse quattro edizioni del raid, o dei
vari Jean Louis Schlesser, Pierre Lartigue, René Metge e
Hiroshi Masuoka tra le auto, Gaston Rahier, Richard
Sainct, Cyril Despres, Nani Roma oltre ai già citati
Orioli e Neveu tra le moto, senza dimenticare il re
indiscusso di entrambe le categorie Stephane Peterhansel,
o i plurivincitori nella durissima categoria dei camion,
come il ceco Karel Loprais, sei vittorie, e il russo
Vladimir Chaugine, cinque.
Le marche che hanno vinto più edizioni sono la
Mitsubishi tra le auto, con dodici affermazioni, la
Yamaha tra le moto, con nove vittorie, sebbene tutte e
sette le ultime edizioni siano state vinte da piloti in
sella a una KTM, e la Kamaz, con sette successi tra i
camion. Vincere un Raid Dakar per queste case
costruttrici significa non soltanto prestigio, ma anche
visibilità e maggiori vendite, motivo per cui molte
importanti aziende si cimentano nella tortuosa gara
orgogliosi di vendere al pubblico auto che, se sono
riuscite a vincere la Dakar, sono adatte per ogni genere
di percorso.
Restano comunque nei libri di storia, imprese e aneddoti
di quasi trent’anni di corsa africana: nel 1988 venne
rubata la Peugeot 405 di Vatanen, leader della corsa, da
un garage di Bamako, salvo poi riapparire
successivamente, suscitando sospetti di furti
organizzati per apportare delle riparazioni, vietate dal
regolamento. L’episodio, volente o nolente, costerà col
senno di poi a Vatanen, il record di cinque
affermazioni.
L’edizione di quell’anno sarà poi vinta dal campione
mondiale di rally e connazionale Juha Kankkunen. L’anno
dopo è celebre l’episodio della monetina da 10 franchi
usata da Jean Todt, allora manager Peugeot, per decidere
quale dei suoi due piloti, tra lo stesso Vatanen e
Jackie Ickx, dovesse avere la precedenza sull’altro in
caso di arrivo appaiato. La sorte questa volta arrise al
finlandese che vincerà la sua terza Dakar.
Curioso anche l’episodio che vide protagonista nell’81
Cyril Neveu. Il centauro francese rimase a dir poco
stupito nel vedere, issata su un totem in un villaggio,
una motocicletta Yamaha. Era lo stesso mezzo abbandonato
in panne nel deserto l’anno prima dal connazionale
Marelle e ritrovato dagli abitanti della zona che la
elessero a divinità.
Si perderanno anche i cosiddetti balise, dei
segnali che potevano essere un palo, un cippo, una
gomma, posti in mezzo al nulla del deserto per
orientarsi, quando ancora il Gps era vietato dal
regolamento. Balise è anche diventato il nome della
piccola trasmittente in dotazione ai concorrenti, da
attivare solamente in caso di emergenza, pena la
squalifica. Nelle ultime Dakar comunque, per dare valore
ai piloti dotati di miglior senso di orientamento, sono
state organizzate alcune tappe “Marathon” particolari,
dove il segnale Gps veniva criptato ed era consentito,
per la felicità dei romantici, il solo utilizzo della
bussola.
La Dakar va dunque in archivio nel 2007, come già detto
a causa delle minacce dei terroristi l’edizione del 2008
non si è disputata.
Quella che comincia il 3 gennaio 2009, sebbene il nome
sia lo stesso, è un’altra corsa. Anch’essa rischiosa,
dura, forse osteggiata e contestata, ma che non potrà
mai avere in sé le caratteristiche di pericolosità, la
bellezza dei paesaggi e il senso di avventura assoluto
che il raid africano ha avuto ogni anno.
A chi ha sempre contestato una manifestazione tanto
pericolosa lo stesso Thierry Sabine rispondeva
fatalista: “C’est la Dakar”, come a dire, prendetela
com’è.
La Dakar è una sfida al mondo e ai propri limiti, è
provare emozioni forti e profonde, è il “succo della
vita”, secondo Ciro De Petri, che di Dakar ne ha
disputate undici in sella a una moto, aggiungendo che
proprio per questo suo non seguire una strada
predefinita “la Dakar è sinonimo di libertà”, una
libertà che non si trova in altre gare e che
probabilmente s’è persa per sempre con la decisione, in
ogni caso necessaria, di spostare il rally in un altro
continente.
La Dakar chiude con un bilancio di 54 morti e di
migliaia di “vivi”, che sono tutti coloro che vi hanno
partecipato almeno una volta, dando forse un senso alla
loro vita.
L’appuntamento per un’altra storia è il 3 gennaio a
Buenos Aires, ma questa, come forse avrebbe detto
Thierry Sabine se oggi fosse stato in vita, “N’est pas
la Dakar”.