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N. 91 - Luglio 2015 (CXXII)

LA PARABOLA DI UN LEADER

SUCCESSI E INSUCCESSI DI ALEXIS TSIPRAS
di Massimo Manzo

 

Quando Syriza trionfò alle elezioni politiche nel gennaio scorso, molti credettero che fosse arrivata la volta buona per la Grecia. Secondo i più ottimisti dal piccolo e fiero paese mediterraneo, emblema della crisi europea, aveva cominciato ad alzarsi un fresco vento di novità in grado di rivoluzionare pacificamente le storture dell’Unione.

 

Simbolo del cambiamento era un giovane di nome Alexis Tsipras, il cui leitmotiv in campagna elettorale, salutato con speranza dai suoi concittadini, era efficace e sacrosanto: fine dell’austerity imposta dalla cosiddetta Troika, rea di aver impoverito tragicamente il paese, aiuto alle fasce più deboli della popolazione e rilancio delle prospettive di crescita. Al di là delle connotazioni fortemente ideologiche del suo partito, queste parole d’ordine ammaliarono tutti, anche perché pronunciate da un politico credibile, in quanto non responsabile dello sfacelo a differenza dei partiti tradizionali.

 

Oggi, a sei mesi da quella storica vittoria, lo scenario è ben più cupo.  Dopo un periodo interminabile di “tira e molla” sui tavoli di Bruxelles e un referendum dalla portata epocale, tutte le speranze di cambiamento dei greci si sono infrante sul muro di gomma dell’Europa a guida tedesca, che in spregio a qualsiasi sentimento democratico ha imposto al governo ellenico una serie di misure draconiane condannando il paese ad anni di indigenza e disperazione.

 

Da campione della lotta contro l’austerità, Tsipras si è dunque tramutato nel riluttante esecutore dei diktat europei, costretto a spaccare il suo partito e ad allearsi con le opposizioni pur di far passare in tempi brevi gli odiati provvedimenti.

 

Ma se le responsabilità e le gravissime colpe dell’Europa sono sotto gli occhi di tutti e avranno conseguenze letali sulla sua tenuta politica, che giudizio dare sulla figura di Tsipras? Di volta in volta, egli è apparso come uno statista in grado di imprimere una svolta positiva alle politiche europee, un populista senza spina dorsale  o (nella peggiore delle ipotesi) un dilettante allo sbaraglio chiamato a una trattativa per la quale risultava del tutto inadeguato. Di fronte a questi sferzanti giudizi è difficile mantenersi in equilibrio, date le rocambolesche capriole alle quali  si è prestato il personaggio in un brevissimo lasso di tempo e considerato il dramma di un’intera nazione.  Per evitare di cadere nel classico errore dei media nostrani, accecati da paraocchi ideologici o di parte,  bisogna ripercorrere in sintesi le tappe del personale “calvario politico” del premier greco.

 

Peccato originale. Nel corso delle vicende che lo hanno visto protagonista, dalla campagna elettorale fino all’indizione del referendum contro le proposte dei creditori, Tsipras è sembrato sempre animato da una sorta di aprioristica fiducia nella “bontà” delle istituzioni europee, non mettendo in discussione alcuni dei suoi paradigmi, come ad esempio l’unione monetaria. Appena eletto ha provato a guadagnare l’appoggio di leader che sembravano sulla sua stessa lunghezza d’onda (come il premier italiano Renzi), i quali non sono andati al di la di finti proclami di solidarietà, privi di qualsiasi effetto concreto.

 

Si è poi seduto al tavolo di Bruxelles senza una precisa strategia negoziale, né tantomeno un “piano B” da spendere nel caso fosse mancata l’intesa. È stato questo un primo grave errore di Tsipras: credere che l’investitura popolare ricevuta in patria potesse naturalmente aiutarlo a concludere un accordo vantaggioso, senza prepararsi alle conseguenze di uno stallo.

 

La mossa del referendum. Di fronte all’insensibilità dei creditori, per nulla interessati all’indispensabile taglio del debito (che lo stesso FMI ritiene insostenibile) né all’alleggerimento del programma di austerity, con il tempo ormai scaduto Tsipras si trova di fronte un pessimo accordo, il quale contraddice tutto il suo programma elettorale. Tutti sono convinti che firmerà, ma con mossa geniale e inaspettata il leader greco abbandona il tavolo delle trattative e indice un referendum con il quale sottopone direttamente ai greci l’accordo, dandogli l’ultima parola. In caso di vittoria del “No” da lui appoggiato, l’obiettivo è quello di continuare i negoziati in condizione di forza, spingendo almeno per ottenere la ristrutturazione del debito. L’appello col quale si rivolge ai greci è un discorso storico, degno di uno statista d’altri tempi. E tuttavia i più maliziosi dicono che sia stata Syriza a costringerlo a tanto; a fronte della firma di un accordo umiliante, i parlamentari del suo partito avrebbero minacciato la sfiducia, con l’ovvia conseguenza della caduta del governo.

 

 

Nel frattempo, la Grecia è letteralmente sotto assedio: in un clima di vero e proprio terrorismo mediatico la BCE di Draghi chiude i rubinetti della liquidità, costringendo il governo ellenico a serrare le banche, mentre le istituzioni europee, attraverso i loro organi ufficiali, in barba a qualsiasi doverosa neutralità spingono apertamente per il “Si”, minacciando disastri in caso contrario. Nonostante il clima tesissimo, i greci reagiscono senza disordini e fanno sentire in modo inequivocabile la propria voce: vince il “No”, con oltre il 60% dei consensi.

 

Per un momento, sembra che l’odiata l’austerità voluta dai burocrati di Bruxelles traballi, trafitta dalla democrazia.

 

Epilogo. Tsipras ha trionfato, ma dopo la vittoria le sue aspettative sono ancora vanificate. Le 17 ore di Eurosummit segnano la capitolazione della Grecia, alla quale sono imposte misure di austerità ancora più dure di quelle rifiutate con il referendum. Persino la stampa tedesca definisce l’accordo un “catalogo delle atrocità”. Tsipras firma, impegnandosi a fare approvare in fretta e furia le “riforme” al Parlamento. Il risultato è il definitivo collasso dell’originaria maggioranza di governo di sinistra in favore di una coalizione che include i vecchi partiti di opposizione e la vanificazione di tutto il programma con cui Syriza ha vinto le elezioni di gennaio.

 

Perfino l’ex ministro dell’economia greco Yanis Varoufakis (costretto stranamente a dimettersi dopo la vittoria del “No”) volta le spalle al governo, votando contro l’accordo e parlando esplicitamente di golpe dell’Europa. È proprio Varoufakis a svelare alcuni interessanti retroscena. Secondo lui, ancora una volta il premier era impreparato a sfruttare le conseguenze del “No”. Gli stessi drastici piani per “spezzare l’assedio” alle banche, come l’introduzione di una moneta parallela per evitare il collasso dell’economia, sono stati a suo dire scartati a priori da Tsipras, il quale inspiegabilmente ha smesso di lottare proprio nel momento in cui bisognava giocarsi tutto.

 

Ancora una volta, un atteggiamento ambiguo difficile da interpretare. Di certo, una totale rottura con i partner dell’Eurogruppo avrebbe aperto scenari imprevedibili, ed è stata forse l’immensa pressione psicologica a cui è stato sottoposto a far fare marcia indietro a Tsipras. La sensazione di avere sulle spalle il destino di un intero popolo e la consapevolezza di trovarsi con un paese troppo debole per non soffrire in ogni caso, ha sicuramente condizionato le sue scelte. Tuttavia, oggi egli ha perso qualsiasi credibilità sia sul fronte interno che su quello europeo, dando il colpo di grazia all’idea di un’Europa diversa per la quale si era battuto fino ad allora.

 

 

Un epilogo tragico, che ha dimostrato come i normali processi democratici dei singoli stati europei siano ormai incompatibili con l’impianto dell’unione economica e monetaria europea.



 

 

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