N. 78 - Giugno 2014
(CIX)
IL PAPATO IN ETÀ MODERNA
PARTE III - LA CURIA
di Silvia Mangano
L’italianizzazione
della
Curia
e
del
papato
fu
un
fenomeno
che
investì
la
Chiesa
tra
il
Quattrocento
e il
Cinquecento.
Dei
quarantasei
pontefici
che
si
contano
da
Martino
V a
Pio VII
soltanto
tre
papi
(i
due
Borgia,
Callisto
III
e
Alessandro
VI,
e
Adriano
VI)
non
erano
originari
della
penisola
italiana.
Ciò
si
spiega
in
base
a
fattori
storici,
politici
e
inerenti
all’organizzazione
interna
alla
Curia.
In
primis,
bisogna
considerare
l’impatto
psicologico
che
Avignone
e il
Grande
Scisma
avevano
provocato
nei
vertici
dello
Stato
ecclesiastico:
una
volta
stanziatasi
definitivamente
a
Roma,
la
Curia
diede
inizio
a
quel
lento
e
inesorabile
processo
di
italianizzazione
per
assicurarsi
una
sorta
di
“libertà”
della
Chiesa,
rispetto
all’influenza
di
un
monarca
straniero.
Due
autori
fanno
trasparire
dai
loro
scritti
la
necessità
che
il
papato
rimanga
in
mano
a un
italiano:
Enea
Silvio
Piccolomini,
futuro
Pio
II
(dal
1458
al
1464),
e il
cardinale
Decio
Azzolini.
Il
primo,
raccontando
della
sua
elezione,
mostra
quanto
abbia
influito
nella
scelta
del
collegio
la
paura
che
un
papa
straniero
potesse
recar
danno
all’autonomia
della
Chiesa.
Il
secondo,
ben
due
secoli
più
tardi
(fine
XVII
secolo),
parla
dell’italianità
del
papato
come
di
un
bene
necessario
e
“primario
da
conservare”.
È
innegabile
che
l’elezione
di
papi
italiani
costituisse
l’unica
garanzia
di
autonomia
per
la
Chiesa,
in
una
situazione
internazionale
molto
difficile
per
la
Santa
Sede.
I
curiali
erano
convinti,
forse
non
a
torto,
che
qualora
i
cardinali
avessero
eletto
un
papa
“ultramontano”,
la
Chiesa
sarebbe
stata
costretta
a
servire
il
re
della
nazione
da
cui
proveniva
il
pontefice.
In
quest’ottica
è
possibile
cogliere
con
più
facilità
un’altra
caratteristica
che
concorse
all’italianizzazione
del
papato:
la
frammentazione
politica
della
penisola
era
assai
funzionale
alla
Chiesa,
poiché
garantiva
allo
Stato
Ecclesiastico
che
un
papa,
anche
se
proveniente
da
stati
italiani,
non
avrebbe
potuto
costituire
un
pericolo
o
turbare
gli
equilibri
nella
penisola
per
via
dello
scarso
potere
che
le
entità
statuali
italiane
possedevano.
Difficile
è
dunque
districarsi
nel
sottile
reticolato
che
unisce
le
cause
agli
effetti
e ne
individua
i
ruoli
principali:
fu
l’influenza
della
Chiesa
a
incentivare
i
particolarismi
statuali
italiani
oppure
essa
si
limitò
a
sfruttare
una
situazione
geopolitica
autodeterminante?
C’è
anche
da
dire
che
gli
Stati
italiani
non
cercarono
mai
di
emanciparsi
dalla
Santa
Sede,
creando
Chiese
nazionali
o
autonome
da
Roma
(eccezion
fatta
per
Venezia);
anzi,
la
chiesa
italiana
diede
ampio
impulso
alla
formazione
di
un
serbatoio
di
alti
prelati.
Le
elites
della
penisola
promuovevano
alla
carriera
ecclesiastica
membri
della
propria
famiglia,
sperando
di
ottenere
in
cambio
fasti
e
favori,
venendo
però
spesso
disattese.
In
questo
senso,
appare
appropriato
sottolineare
che
se
in
questi
secoli
la
Curia
si
italianizzò,
tuttavia
non
si
romanizzò:
la
maggior
parte
dei
papi
provenivano
dallo
Stato
ecclesiastico,
non
da
Roma.
La
Corte
romana
o
“gran
teatro
del
mondo”,
come
venne
definita,
divenne
il
centro
di
formazione
per
le
elites,
in
cui
si
riunivano
esponenti
di
tutti
gli
stati
italiani.
Dietro
la
formazione
di
questa
aristocrazia
ecclesiastica
si
nascondevano
scelte
di
natura
prettamente
politica
e
organizzativa:
i
candidati
al
cardinalato
dovevano
dimostrarsi
abili
uomini
di
Curia,
con
una
preparazione
tecnica,
politica
e
diplomatica
che
difficilmente
poteva
coesistere
con
un
intenso
impegno
pastorale.
Per
questo
motivo,
già
Pietro
Querini
e
Paolo
Giustiniani
nel
Libellus
ad
Leonem
X
(1513)
si
scagliavano
contro
la
collazione
di
diocesi
ai
porporati:
i
cardinali,
soprattutto
dall’inizio
del
XVI
secolo,
erano
divenute
figure
essenzialmente
politiche,
la
cui
funzione
pastorale
era
inesistente
o
del
tutto
accessoria.
La
riforma
del
cardinalato,
portata
avanti
da
molti
papi
(tra
cui
possiamo
ricordare
quelle
di
Pio
II,
di
Paolo
III
e di
Pio
V),
cercava
di
regolarne
il
comportamento
e la
disciplina,
fissando
per
esempio
un
tetto
massimo
dei
familiares
e
delle
rendite
beneficiarie,
oppure
proibendo
la
partecipazione
a
cacce,
giochi,
festini...
Con
la
potente
scossa
della
Riforma
protestante,
che
percorse
la
cristianità
in
lungo
e in
largo,
la
Chiesa
romana
fu
costretta
ad
accelerare
il
percorso
di
rinnovamento
all’interno
delle
sue
fila.
Nel
1537,
il
Consilium
de
emendanda
ecclesia
ribadì
ciò
che
da
molto
tempo
aleggiava
in
molti
animi
della
Chiesa,
cioè
un
ritorno
alla
missione
originaria
della
cura
animarum,
e
sconsigliò
la
concessione
di
diocesi
ai
porporati.
Tuttavia,
nessuno
si
impegnò
a
indicare
in
che
modo
potesse
essere
portata
avanti
questa
riforma
e la
stessa
Curia
si
dimostrava
insensibile
alle
richieste
di
riorganizzazione,
soprattutto
per
l’evidente
perdita
di
potere
a
cui
i
cardinali
sarebbero
andati
incontro.
Il
pontificato
che
segnò
un
cambio
di
rotta
fu
proprio
quello
di
Leone
X,
il
quale
promosse
agli
onori
della
porpora
ben
trentuno
cardinali
(pur
essendo
stato
fissato
il
limite
a
ventiquattro).
Scompaginando
il
tessuto
del
collegio
con
la
creazione
di
così
tanti
cardinali,
a
cui
seguiranno
i
prescelti
dai
successori,
Leone
X
aveva
dato
inizio
a
quel
processo
di
trasformazione
dei
cardinali
in
un
“corpo
di
altissimi
funzionari
di
governo
e
dell’amministrazione
curiale”
(M.
Firpo).
Un’ulteriore
svolta
fu
impressa
dal
Sant’Uffizio,
con
Paolo
IV-Carafa
e il
domenicano
Pio
V:
se
prima
il
cardinalato
poteva
essere
un
riconoscimento
al
merito
conferibile
a
laici,
con
il
pontificato
di
questi
due
papi
il
cardinalato
si
trasformò
sempre
più
nel
compimento
di
una
carriera
religiosa
all’interno
delle
istituzioni
ecclesiastiche,
andando
progressivamente
a
escludere
la
presenza
del
laicato.
Scrive
A.
Menniti
Ippolito
citando
M.
Firpo:
“il
consesso
cardinalizio
si
caratterizzò
per
il
‘progressivo
irrigidimento
dottrinale
e
disciplinare’
e
per
la
‘sempre
più
netta
clericalizzazione
della
vita
religiosa’”.
Questa
svolta
influì
soprattutto
sulla
moralità
dei
papi,
oltre
che
dei
cardinali:
erano
finiti
i
tempi
dei
pontefici
con
figli
e
amanti,
si
richiedeva
un
nuovo
modello
di
pontefice.
Abbiamo
già
accennato
che
la
carriera
cardinalizia
e
quella
vescovile
difficilmente
potevano
ben
amalgamarsi.
Chi
voleva
fare
una
carriera
“curiale”
doveva
rinunciare
alle
responsabilità
diocesane.
È
necessario,
però,
puntualizzare
che
la
differenza
tra
i
cardinali
(nonché
i
papi)
e i
vescovi
era
che
la
carriera
dei
primi
si
svolgeva
in
Curia,
mentre
quella
dei
secondi
nelle
diocesi,
e
quindi
la
distinzione
non
si
fondava
sul
fatto
che
il
vescovato
prevedesse
–
all’atto
pratico
–
responsabilità
di
cura
d’anime.
Il
cardinalato
presupponeva
un
intensissimo
e
lunghissimo
lavoro
tra
le
fila
dello
Santa
Sede,
i
candidati
dovevano
essere
versati
nella
diplomazia
e
aver
speso
molto
tempo
al
servizio
della
Curia.
La
figura
del
vescovo
presupponeva
un’altrettanta
capacità
politica
e
burocratica,
ma
gli
aspiranti
dovevano
dimostrare
oltretutto
di
essere
in
grado
di
amministrare
una
diocesi.
Il
vescovo
non
era
un
pastore
di
anime,
ma
si
avvaleva
di
intermediari
(i
parroci)
per
istruire
il
popolo
dei
fedeli
in
materia
dottrinaria;
non
doveva,
perciò,
essere
un
teologo,
ma
uomo
di
governo,
capace
di
scegliere
con
cura
i
ministri
per
la
sua
diocesi,
doveva
essere
un
bravo
amministratore
e
saper
dirimere
questioni
giuridiche,
ed
era
necessario
fosse
aggiornato
sui
decreti
conciliari
(quelli
di
Trento
soprattutto)
e
costantemente
informato
sulle
attività
delle
Congregazioni.
Il
vescovo
deteneva
un
compito
molto
più
delicato
di
quello
del
cardinale
e la
scelta
doveva
ricadere
sul
candidato
più
idoneo.
A
tal
fine,
venne
istituito
il
processo
concistoriale
da
Gregorio XV.
Tale
processo
era
espressione
della
volontà
del
papa
di
eleggere
i
vescovi
delle
diocesi
italiane
(quelli
degli
altri
stati,
come
Francia
e
Spagna,
venivano
scelti
dai
monarchi):
il
candidato
veniva
interrogato
per
vagliarne
la
preparazione;
dopo
aver
superato
questa
prova,
si
istruiva
il
processo
vero
e
proprio
che
doveva
accertare
altri
requisiti
(sacramenti,
moralità,
studi,
esperienze
di
vita).
L’iter
era
molto
più
difficoltoso
in
Italia
che
all’estero,
questo
perché
nella
penisola
vi
erano
più
diocesi
che
altrove
e
perché
i
concordati
avevano
fissato
un
limite
al
potere
decisionale
del
Papa
nei
regni
“ultramontani”.
Secondo
il
cardinal
de
Luca,
eminente
studioso
del
XVII
secolo
che
scrisse
diversi
manuali
di
vita
“pratica”
(Il
cardinale
della
S.R.
Chiesa
pratico,
Il
vescovo
pratico,
ecc.),
la
formazione
richiesta
al
cardinale
e al
vescovo
non
era
molto
diversa
l’una
dall’altra,
ma
quella
del
vescovo
era
senz’altro
più
importante
e
delicata,
perché
rappresentava
figura
insostituibili,
responsabili
della
“Chiesa
bassa”,
della
selezione
dei
parroci
e
dell’organizzazione
ecclesiastica
sul
territorio.
Al
contrario,
i
cardinali
avevano
un
compito
delicato,
quello
di
scegliere
il
Papa,
ma
la
loro
funzione
era
prettamente
collegiale,
se
uno
sbagliava
o si
assentava
non
era
in
grado
di
ledere
all’insieme
del
collegio.
Il
ruolo
delicato
e
impegnativo
dei
vescovi
emerse
soprattutto
fuori
dell’Italia:
in
Germania,
in
Francia,
in
Spagna…
venivano
eletti
i
preferiti
dei
monarchi,
senza
prendere
in
considerazione
le
capacità,
né
la
preparazione,
divenendo
ambasciatori
e
ministri
personali
di
una
dinastia
e
rischiando
così
di
creare
divisione
all’interno
della
Chiesa
(scismi)
o
all’interno
della
Corte
romana.
La
realtà
istituzionale
presa
in
considerazione
fino
a
ora
ha
mostrato
una
Curia
molto
più
complessa
e
meno
appiattita
di
quanto
molta
storiografia,
fino
a
qualche
decennio
fa,
ha
voluto
presentare
al
pubblico
dei
lettori.
I
nuovi
filoni
di
studio
della
storia
della
Chiesa
in
età
moderna
hanno
messo
in
evidenza
quanto
in
questo
periodo
si
cercò
di
trovare
un
equilibrio
tra
le
“due
anime”
del
Papato,
una
tesa
verso
aspirazioni
spirituali
universaliste,
l’alta
occupata
nella
concreta
gestione
di
uno
stato
territoriale.