N. 77 - Maggio 2014
(CVIII)
IL PAPATO IN ETÀ MODERNA
PARTE ii - TRA CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ
di Silvia Mangano
È
un
dato
storicamente
provato
che
i
vescovi
e i
cardinali
che
ruotavano
attorno
alla
Curia
avessero
pochissima
esperienza
pastorale.
Questo
può
sorprendere
la
sensibilità
contemporanea,
ma
non
costituiva
un
fatto
straordinario
nella
Roma
dell’età
moderna.
Sebbene
non
si
possa
parlare
in
termini
generali
prendendo
in
considerazione
ben
quattro
secoli
di
storia
del
Papato,
è
necessario
ricorrere
a
suddivisioni
cronologiche,
sicuramente
non
esaustive,
per
osservare
la
tipologia
di
cursus
che
i
vescovi
e i
cardinali,
dunque
anche
i
futuri
Papi,
intraprendevano
in
vita.
Fino
al
concilio
di
Trento,
si
poteva
essere
vescovi
eletti,
ma
non
titolari;
si
poteva,
dunque,
percepire
la
rendita
di
una
o
più
diocesi
senza
essere
investiti
dell’onere
della
cura
delle
anime,
oppure
senza
essere
stati
neanche
ordinati
sacerdoti:
il
vescovo
non
era
vincolato
all’attività
pastorale.
Questo
stato
delle
cose,
però,
si
protrasse
oltre
lo
stesso
Concilio,
andando
a
scontrarsi
co
gli
stessi
decreti
tridentini.
È
interessante
a
questo
proposito
la
sollecitazione
che
Roberto
Bellarmino
inviò
a
Paolo
V,
in
cui
il
Papa
venne
spronato
a
imporre
ai
vescovi
che
operavano
nella
Curia
di
ritornare
alla
loro
residenza
e
assumersi
il
proprio
incarico
diocesano,
oppure
rinunciare
alla
carica.
Considerazioni
del
genere
erano
già
state
proposte
all’epoca
di
Lutero,
quando
l’autore
del
Libellus
ad
Leonem
X
sostenne
il
giusto
divieto
di
possedere
una
diocesi
per
i
membri
del
Collegio,
ma
ottennero
scarsa
risonanza.
Vennero
accolte
dai
lavori
del
Concilio,
ma,
come
si
nota
dagli
scritti
di
Bellarmino,
la
consuetudine
costituiva
ancora
uno
scoglio
difficile
da
superare.
Nonostante
ciò,
l’incompatibilità
tra
l’attività
pastorale
e le
carriere
curiali
era
una
verità
conclamata.
A
partire
da
Martino
V (Oddone
Colonna,
papa
dal
1417
al
1431)
fino
a
Paolo III
(Alessandro
Farnese,
papa
da
1534
al
1549),
quasi
nessun
Papa
fu
impegnato,
durante
la
sua
carriera,
in
attività
pastorali.
Il
modello
che
ottiene
più
riscontri
alla
disamina
della
vita
dei
pontefici
di
questo
periodo
è
quello
del
curiale
detentore
di
rendite
ecclesiastiche,
che
riceveva
gli
ordini
sacri
solo
in
una
fase
molto
avanzata
del
cursus.
Un’eccezione
a
questa
consuetudine
è
costituita
da
Pio
III
(Francesco
Todeschini
Piccolomini,
papa
per
pochi
mesi
nel
1503)
e da
Leone
X
(Giovanni
dÈ
Medici,
papa
dal
1513
al
1521),
i
quali
vennero
ordinati
sacerdoti
prima
dell’incoronazione
papale.
La
maggior
parte
dei
futuri
papi
erano
arrivati
a
Roma
perché
introdotti
da
un
parente,
che
possedeva
già
una
posizione
affermata
all’interno
della
Curia,
oppure
perché
inviati
da
un
sovrano.
Per
proseguire
la
carriera
ecclesiastica
era
fondamentale
aver
fatto
esperienza
al
di
fuori
dello
stato
ecclesiastico,
rivestendo
ruoli
di
particolare
rilievo
come,
per
esempio,
la
nunziatura
presso
la
corte
imperiale.
Questo
internship
–
per
usare
una
terminologia
molto
moderna
–
divenne
un
presupposto
imprescindibile
per
aspirare
al
trono
di
Pietro
dal
XV
secolo.
I
papi
che
si
susseguono
lungo
l’arco
cronologico
che
va
dal
XVI
al
XVII
secolo
presentano
alcune
caratteristiche
comuni,
inquadrabili
perfettamente
nel
contesto
storico
in
cui
si
vanno
a
configurare.
Prima
di
tutto,
i
pontefici
nominati
durante
(e
subito
dopo)
il
concilio
di
Trento
parteciparono
attivamente
ai
lavori
della
Congregazione
del
Sant’Uffizio.
Quest’ultima
ebbe
particolare
peso
nella
scelta
dei
candidati
per
molti
decenni
a
seguire,
considerato
il
delicato
ruolo
di
cui
era
stata
investita,
soprattutto
dal
1555
(anno
dell’elezione
di
Paolo
IV,
Gian
Pietro
Caràfa,
papa
dal
1555
al
1559).
Anche
i
papi
di
questo
periodo
privilegiarono
l’attività
politica
svolta
nella
Curia
piuttosto
che
quella
pastorale
nelle
proprie
diocesi.
Nel
Cinquecento,
solo
Gregorio
XIV
(Niccolò
Sfondrati,
papa
dal
1590
al
1591)
e
Innocenzo
IX (Giovan
Antonio
Facchinetti,
papa
per
due
mesi
alla
fine
del
1591).
Riguardo
all’argomento,
prima
ancora
di
diventare
papa
con
il
nome
di
Clemente
IX,
Giulio
Rospigliosi
scrisse
al
fratello
nel
1652,
giustificando
la
sua
rinuncia
all’arcidiocesi
fiorentina
con
le
seguenti
parole:
“nessuno
mi
consiglierebbe
a
lasciare
in
Roma
maggior
entrate
senz’obligo
di
cura
d’anime
per
diminuire
in
altra
parte
la
rendita
e
crescere
il
debito
della
cura
pastorale”.
La
scelta
era
dettata
da
una
considerazione
molto
pratica:
l’arcidiocesi
avrebbe
comportato
troppi
oneri
e
pochi
“onori”.
A
caratterizzare
ancor
più
l’ambiente
curiale
come
una
fucina
di
prassi
politica
più
che
di
speculazione
teologica,
era
la
formazione
che
possedevano
i
vescovi
e i
cardinali.
Quasi
tutti
i
pontefici
avevano
intrapreso
studi
giuridici
e
solo
in
pochissimi
casi
avevano
affiancato
a
essi
gli
studi
teologici.
Più
comuni
erano
curiali
laureati
in
utroque,
cioè
in
diritto
civile
e in
diritto
canonico.
Come
si è
detto
in
precedenza,
contavano
moltissimo
le
esperienze
internazionali,
soprattutto
le
missioni
diplomatiche
(ora
in
particolar
modo
in
Spagna
e
non
più
nell’Impero),
per
le
quali
era
necessaria
una
solida
preparazione
politica
e
diplomatica.
Dunque,
era
considerato
nella
norma
ricevere
gli
ordini
sacri
solo
in
età
avanzata,
soprattutto
poco
prima
di
essere
nominati
vescovi
o di
ricevere
la
berretta
cardinalizia.
Non
era
tanto
importante
aver
ricoperto
cariche
pastorali,
quanto
piuttosto
l’aver
fatto
carriera
come
funzionario
papale:
nel
XVII
secolo,
per
esempio,
quasi
il
60%
degli
eletti
al
pontificato
proveniva
aveva
esercitato
tale
funzione.
Un’altra
buona
percentuale
aveva
fatto
il
suo
ingesso
nella
Curia
grazie
alla
venalità
degli
uffici.
Ciononostante,
bisogna
tenere
presente
che
per
diventare
Presidente
della
Camera
Apostolica,
Chierico
di
Camera
o
Reggente
di
Cancelleria
era
necessario
ricevere
il
placet
papale
all’acquisto
della
carica,
ma
ciò
non
assicurava
assolutamente
successivi
avanzamenti,
che
potevano
essere
garantiti
solo
da
qualità
e
intraprendenza
personali.
Altro
supporto
determinante
era
l’essere
protetti
da
un
sovrano
o
far
parte
di
una
famiglia
regnante:
Callisto
III
Borgia,
sostenuto
da
Alfonso
V di
Napoli,
e
Adriano
VI,
favorito
dall’imperatore
Carlo
V,
sono
esempi
eloquenti,
ma
si
potrebbero
nominare
anche
Leone
X,
Clemente
VII
e
gli
altri
papi
appartenenti
alla
casata
dÈ
Medici.
La
soppressione
del
nepotismo
e
l’abolizione
della
pratica
dell’acquisto
delle
cariche
sotto
il
pontificato
di
Innocenzo
XII
mutò,
senza
ombra
di
dubbio,
la
situazione:
i
pontefici
non
potevano
più
servirsi
come
prima
dell’appoggio
dei
propri
parenti,
ma
dovevano
affidarsi
ai
curiali
di
carriera,
i
quali
per
altro
non
potevano
più
comprare
una
carica
per
garantirsi
un
avanzamento
di
carriera.
Il
Segretario
di
Stato
acquisì
nuova
importanza
e
centralità
nel
governo.
I
papi
del
Settecento
non
necessitavano
più
di
una
formazione
diplomatica,
Roma
aveva
dato
inizio
al
lento
processo
di
isolamento
dal
contesto
europeo,
e
risulta
chiaro
dal
fatto
che
solo
Innocenzo
XIII
ebbe
un
ruolo
nelle
relazioni
internazionali
della
Santa
Sede.
Mentre
per
Benedetto
XIII
e
XIV
e
Clemente
XIII
fu
l’esperienza
diocesana
a
condurli
verso
il
pontificato,
un
teologo
benedettino
come
Pio
VII
rappresenta
l’ultimo
eccezionale
esempio
di
personalità
divenute
pontefici
senza
mai
ricevere
un
incarico
a
Roma.
La
scarsa
importanza
che
la
formazione
teologica
e
pastorale
avevano
nel
carriera
dei
papi,
rispetto
alle
competenze
giuridiche
e
burocratiche,
vanno
messe
in
rapporto
con
l’ingombrante
presenza
del
Sant’Uffizio
nella
Curia.
La
Congregazione
vantava
una
lunga
serie
di
papi
fuoriusciti
dalle
sue
fila
e le
sue
direttive
avevano
un
certo
peso
quando
si
trattava
di
vagliare
i
candidati
al
pontificato.
Alcuni
storici
hanno
sostenuto
che,
lungo
la
storia
del
papato
dell’età
moderna,
si
sarebbe
tentato
di
rendere
il
papato
ereditario.
Tali
considerazioni
potrebbero
essere
suffragate
da
alcuni
esempi
risalenti
soprattutto
al
Quattrocento
e al
Cinquecento,
in
cui
il
pontificato
sarebbe
passato,
anche
se
non
il
linea
diretta,
nelle
mani
di
più
esponenti
della
stessa
famiglia
(es.
Callisto
III
e
Alessandro
VI,
Pio
II e
Pio
III).
L’interpretazione
sembra,
però,
forzata,
soprattutto
perché
in
molti
di
questi
casi,
si
tende
il
più
delle
volte
a un
pontificato
personalistico
piuttosto
che
dinastico.
In
secondo
luogo,
si
deve
considerare
che
quasi
tutte
le
famiglie
nobili
o
patrizie
procuravano
di
investire
moltissimo
denaro
nell’istruzione
di
almeno
uno
dei
figli
per
assicurargli
una
carriera
cardinalizia.
La
massiccia
ingerenza
delle
famiglie
costituì
un
vero
e
proprio
“ariete
di
sfondamento”
per
le
carriere
e le
strategie
familiari
veicolavano
ogni
fase
dell’avanzamento
in
Curia.
Oltretutto,
le
norme
per
l’elezione
papale
(fissate
nel
IV
concilio
Lateranense
del
1215)
vietavano
nella
maniera
più
assoluta
il
coinvolgimento
del
morente
pontefice
nella
scelta
del
suo
successore.
La
norma
secondo
cui
“papa
non
potest
sibi
successorem
eligere,
et
si
eligeret,
irrita
esset
electio”
rendeva
impossibile
ai
consanguinei
succedersi
al
trono
come
una
dinastia.
La
complessa
questione
venne
esaurita
con
Gregorio
XV
(Alessandro
Ludovisi,
papa
dal
1621
al
1623),
che
con
la
bolla
Aeterni
Patris
Filius
(1621)
definì
le
modalità
d’elezione
e
con
la
bolla
Decet
Romanum
Pontificem
(1622)
regolamentò
le
cerimonie
del
conclave.
Le
votazioni
per
la
nomina
potevano
avvenire
in
tre
modi:
per
acclamazione;
per
compromissum,
ovvero
quando
la
scelta
veniva
affidata
a un
gruppo
ristretto;
per
scrutinio.
Gregorio
XV
mantenne
tutte
e
tre,
ma
approfondì
e
formalizzò
lo
scrutinio.
Il
conclave,
infatti,
doveva
essere
chiuso
a
influenze
esterne
e
segreto,
mentre
la
maggioranza
richiesta
veniva
fissata
al
minimo
di
due
terzi.
Tutto
ciò
andò
a
discapito
delle
altre
due
tipologie
di
voto,
soprattutto
quella
per
acclamazione.
Per
concludere,
potremmo
dire
che
le
elezioni
dei
papi
furono
spesso
dettate
da
istanze
politiche
interne
allo
Stato
Ecclesiastico
o
sotto
la
spinta
degli
avvenimenti
che
investivano
l’Europa
e il
mondo
allora
conosciuto.
La
comprensione
di
questo
meccanismo
ben
spiega
la
formazione
così
prettamente
politica
e
così
poco
pastorale
che
i
cardinali,
e
quindi
anche
i
pontefici,
possedevano
e
pretendevano
per
gravitare
all’interno
della
Curia.