N. 56 - Agosto 2012
(LXXXVII)
QUANDO IL DOTTORE DISSE NO
Il
dovere
e
l’onestà
secondo
Paolo
Giaccone
di Giuseppe Tramontana
L’11
agosto,
a
Palermo,
fa
caldo.
Già
di
mattina,
metti
intorno
alle
8,00/8,15,
il
sole
romba
nel
cielo
smaltato
di
azzurro.
Di
nuvole
nemmeno
l’ombra.
Neppure
di
quelle
sottili
ed
evanescenti
come
garza
portata
dal
vento.
L’11
agosto,
a
Palermo,
è
una
giornata
estiva
come
tante.
Con
la
voglia
di
fuggire
verso
Mondello
e il
mare
di
chi
rimane
in
città
a
lavorare
e i
progetti
di
chi,
stando
in
vacanza,
comincia
a
pensare
al
rientro.
La
città,
anche
l’11
agosto,
non
è
mai
vuota
del
tutto.
Forse
in
centro
circolano
meno
macchine,
ma
questo
solo
perché
la
gente
si
sposta
più
verso
il
mare.
Esala
vapori,
odori
Palermo,
sbandiera
colori,
reca
sulla
punta
della
lingua
i
suoi
sapori
arabeggianti,
fenici,
normanni,
spagnoli.
Anche
alle
8,15
di
mattina.
Ché
Palermo
– il
caldo
e
tutto
il
resto
– è
una
città
in
cui
ci
si
sveglia
presto:
per
preparare,
per
lavorare,
per
vendere
e
comprare,
per
vivere.
Per
uccidere.
Così
l’11
agosto
1982,
un
mercoledì,
proprio
alle
8,15,
un
distinto
signore
cinquantenne
o
poco
più,
alto,
dalla
larga
faccia
aperta
e
simpatica,
coronata
da
una
barbetta
compatta
e
lanuginosa
brizzolata,
sta
percorrendo
i
viali
alberati
del
Policlinico
di
Palermo.
Porta
una
borsa
in
pelle.
La
sua
borsa
di
lavoro.
Infatti,
questo
signore
si
chiama
Paolo
Giaccone
e
non
è un
signore
qualunque,
ma
il
dirigente
dell’Istituto
di
Medicina
Legale
del
Policlinico.
Non
solo.
È
uno
dei
maggiori
esperti
della
materia
a
livello
nazionale.
È,
va
da
sé,
consulente
del
Tribunale
di
Palermo
ed è
anche
presidente
dell’AVIS
siciliana
dal
1981.
È un
uomo
attivo,
capace,
preparato,
ma
soprattutto
onesto
e
integerrimo.
Nel
1963
insieme
al
Prof.
Ideale
Del
Carpio
aveva
fondato
l’AVIS
presso
l’Istituto
di
Medicina
Legale.
Era
un
tipo
straordinario,
Giaccone.
Parla
continuamente
con
i
pazienti
per
informarli,
cerca
di
convincere
la
gente
a
donare
il
sangue,
come
peraltro
fa
lui
stesso:
ché
donare
è un
atto
di
amore
e un
atto
rivoluzionario:
è un
colpo
all’egoismo
e ai
pregiudizi.
Proprio
la
settimana
precedente,
il
professore
ha
ottenuto
la
Medaglia
d’Oro
AVIS
per
la
sua
56esima
donazione
e ha
fatto
diventare
donatrici
persino
la
moglie
e la
figlia
maggiore,
Milly.
Si
racconta
che
una
volta
–
siamo
alla
fine
degli
anni
Settanta
–
aveva
donato
lui
del
sangue
a un
bambino
malato,
visto
che
la
madre
era
disposta
a
dargli
la
vita,
ma –
forza
dei
pregiudizi
o
delle
‘impressioni’
–
non
il
sangue.
È
grande
Giaccone.
Aveva
persino
messo
a
punto
una
tecnica
investigativa
adottata
anche
dall’FBI.
Non
solo.
È un
tipo
a
posto,
Giaccone.
È
uno
di
quelli
che
pensa
che
prima
venga
l’essere
umano,
il
suo
rispetto
e
poi
tutto
il
resto.
E
rispetto
per
l’essere
umano
significa
anche
rispetto
per
la
legalità,
per
la
giustizia,
per
le
leggi,
per
tutto
ciò
che
da’
dignità
all’uomo,
che
lo
libera
e
non
lo
schiavizza,
che
lo
fa
camminare
a
testa
alta
e
senza
paura.
Ma
prima
viene
l’uomo,
il
fine,
il
resto
è
solo
il
mezzo.
Quel
mercoledì
di
trent’anni
fa
il
Professor
Paolo
Giaccone
parcheggia
l’auto
lungo
i
viali
del
Policlinico
e
scende
per
avviarsi
al
lavoro.
Due
uomini
lo
attendono.
Uno
aspetta
dentro
una
126,
fuori
dall’Ospedale.
È il
palo.
L’altro,
invece,
si
aggira
tra
i
viali.
È
armato.
Appena
vede
il
professore,
si
avvicina,
forse
lo
chiama
persino,
e
poi
spara
un
paio
di
colpi.
Giaccone
cade
sulla
sua
sinistra,
il
killer
si
china
e
gli
dà
il
colpo
di
grazia,
in
testa.
Qualcuno
sente.
Un
uomo
in
camice
bianco,
forse
un
infermiere
accorre,
qualcuno
urla
“è
il
professor
Giaccone”.
E
poi,
nulla.
La
polizia,
i
rilievi,
il
pianto
delle
figlie
e
della
moglie,
la
rabbia
dei
colleghi,
la
paura
e il
senso
di
impotenza
di
vivere
in
una
città
dimenticata
da
Dio
e
dagli
uomini.
Ma
perché?
Si
potrebbe
rispondere
semplicemente:
perché
era
troppo
onesto.
In
qualità
di
consulente
del
Tribunale
aveva
ricevuto
l’incarico
di
effettuare
una
perizia
su
un’impronta
digitale
lasciata
da
Giuseppe
Marchese,
nipote
del
boss
di
Corso
dei
Mille
Filippo,
uno
dei
killer
della
cosiddetta
“strage
di
Bagheria”
del
Natale
1981,
che
lasciò
sul
terreno
quattro
morti.
Quell’impronta
era
l’unico
appiglio
che
i PM
avevano
contro
i
mafiosi,
solo
quell’impronta
avrebbe
potuto
dimostrare,
al
di
là
di
ogni
ragionevole
dubbio,
che
quella
di
Bagheria
era
stata
una
strage
mafiosa
e
che
i
colpevoli
erano
appunto
quelli
di
Corso
dei
Mille.
Immediatamente,
saputo
dell’incarico,
i
mafiosi
si
erano
mossi.
A
modo
loro.
Lo
avevano
fatto
chiamare
a
casa
dal
loro
avvocato
per
consigliargli
di
“ammorbidire”
la
perizia.
“Avvocato,
a me
certe
cose
non
me
le
deve
manco
chiedere.
Io
non
le
faccio!”
rispose
il
professore.
Da
quel
momento,
cominciò
a
vivere
la
sua
tribolazione.
Telefonate
notte
e
giorno
per
invitarlo
a
ripensarci
e
poi,
man
mano,
insinuazione,
‘raccomandazioni’
e
minacce
sempre
meno
velate.
Ma
lui
non
recedette.
Ammorbidire,
falsificare
avrebbe
significato
mettere
in
circolazione
un
assassino,
un
mafioso,
un
ladro
di
futuro.
E
come
avrebbe
potuto
guardarsi
allo
specchio
o
guardare
negli
occhi
le
figlie?
Disse
di
no.
L’assassino
venne
condannato
all’ergastolo;
lui
a
morte.
Quel
giorno
la
figlia
Milly,
studentessa
in
medicina,
avrebbe
dovuto
accompagnare
il
padre,
come
tutte
le
mattine,
ma
per
un
imprevisto,
rimase
a
casa:
sarebbe
uscita
più
tardi.
Racconta
che
quando
udirono
le
sirene
spiegate
della
polizia,
la
madre
sospirò:
“Ne
hanno
ammazzato
un
altro…”
non
sapendo
che
quell’altro
era
suo
marito.
Già
nell’aprile
del
1983
la
Prefettura
di
Palermo
con
una
raccomandata
comunicava
che
“la
commissione
consultiva
del
ministero
dell’Interno…
ha
ritenuto
sussistente
il
nesso
di
casualità
tra
l’azione
terroristica
e la
morte
del
coniuge…
per
la
concessione
della
speciale
elargizione…”.
Perché
citiamo
questa
informativa?
Semplice,
perché,
a
distanza
di
anni,
è
tornata
utile,
dopo
che,
in
stile
tipicamente
siciliano,
la
tragedia
si è
ribaltata
in
farsa
e il
paradosso
è
tornato
a
reggere
le
fila
del
destino
umano.
Infatti,
qui
si
innesta
un’altra
storia,
più
recente,
ma
non
meno
paradigmatica
–
benché
per
altri
versi
–
dell’Italia
attuale.
Cos’è
successo?
È
successo
che
proprio
Milly,
figlia
di
Paolo
e
medico
legale
pure
lei,
nonché,
dal
1989,
dirigente
medico
degli
“Ospedali
Riuniti
Cervello
e
Villa
Sofia”,
a 51
anni
ha
chiesto
di
potere
andare
in
pensione
ricorrendo
all’opportunità
che
la
Regione
Sicilia
riserva
alle
vittime
del
terrorismo
mafioso.
E
gliel’hanno
concesso.
Solo
che
dopo
un
paio
di
mesi
l’hanno
richiamata.
Perché?
Perché
suo
padre
non
è
stato
vittima
di
una
strage
terroristico-mafiosa
ma è
stato
una
“semplice”
vittima
di
Cosa
nostra.
Si
sa,
è
dai
tempi
di
Kafka
e
Koestler
che
sappiamo
come
il
freddo
linguaggio
burocratico
sia
l’anticamera
della
stupidità,
ma
creare
due
categorie
distinte
–
vittime
di
serie
A
(tipo
stragistico-mafioso)
e
vittime
di
serie
B
(solo
mafioso)
– è
da
follia
pura.
E
naturalmente
c’è
da
chiedersi,
quale
sia
la
differenza
per
i
familiari?
Essere
stati
uccisi
‘solo’
da
mafiosi
non
basta
più:
bisogna
morire
per
mani
di
stragisti
(oltre
che
mafiosi,
s’intende).
Così,
infatti,
la
Prefettura
di
Palermo,
il
28
marzo
2011,
ha
scritto
a
Milly
informandola
che
lei
è “familiare
di
vittima
della
criminalità
organizzata”.
Quanto
organizzata
non
si
sa,
ma
viene
il
sospetto
–
considerando
che
anche
la
raccomandata
del
1983
era
della
Prefettura
–
che
sia
quanto
meno
più
organizzata
dello
Stato.
Ovviamente
la
signora
Milly
non
si è
arresa
e ha
spedito
alla
Prefettura
e
all’Inpdap
(che
nel
frattempo
aveva
avviato
le
procedure
per
revocare
la
pensione)
la
raccomandata
ricevuta
nel
1983.
Sai
mai
che
rinsaviscono.
Non
solo,
negli
archivi
dell’Ufficio
provinciale
del
Lavoro
è
stato
scovato
un
certificato
a
nome
Giaccone
Camilla
–
ossia
Milly
–
rilasciato
in
ottemperanza
“all’art.
19
L.13.8.80
n.
466
per
i
familiari
delle
vittime
di
azioni
terroristiche.”
Come
ha
dichiarato
la
stessa
Milly
Giaccone
“non
è
tanto
per
la
questione
economica,
ma
la
storia
offende
chi
ha
sacrificato
la
propria
vita
per
la
legalità”.
Oggi
il
Policlinico
di
Palermo
è
intitolato
a
Paolo
Giaccone,
quell’uomo
mite
e
integerrimo
che
amava
suonare
il
piano
e
gli
uccellini
e
disse
no a
Cosa
Nostra.
E
per
il
suo
assassinio
sono
stati
condannati
Filippo
Marchese,
in
qualità
di
mandante,
e
Salvatore
Rotolo,
l’esecutore.
Nel
1995
la
corte
d’appello
ha
condannato
dieci
componenti
della
cupola
mafiosa
per
lo
stesso
omicidio.
Tra
costoro,
anche
l’avvocato
delle
telefonate.
Un
anno
fa è
stato
inaugurato
il
“Centro
Studi
Paolo
Giaccone”,
soci
fondatori
i
magistrati
Nico
Gozzo
e
Fabio
Licata,
il
preside
della
Facoltà
di
Medicina
Giacomo
De
Leo
e
altri
esponenti
del
mondo
scientifico
e
intellettuale
palermitano
e
siciliano.
Il
Centro,
attraverso
dibattiti,
seminari
di
studi,
convegni
pubblicazioni,
presentazioni
e
percorsi
didattici
rivolti
a
scuole
di
ogni
ordine
e
grado,
all’Università,
scuole
carcerarie,
centri
di
giustizia
anche
minorili
e
servizi
sociali,
vuole
contribuire
allo
sviluppo
della
cultura
antimafia
anche
promuovendo
analisi
e
ricerche
per
diffondere
la
conoscenza
dei
fenomeni
mafiosi,
criminali
e di
devianza
della
legalità.
Nel
frattempo
si è
anche
costituito
il
“Comitato
dei
Professionisti
Liberi”,
insieme
a
LiberoFuturo
e
Addiopizzo,
che
ha
redatto
uno
specifico
Manifesto,
il
quale,
come
recita
la
presentazione,
in
www.professionistiliberi.or,
“oltre
a
riprendere
quanto
già
regolato
dalle
norme
e
dai
codici
deontologici,
possa
essere
osservato
nell’ambito
più
specifico
della
lotta
al
racket
del
pizzo
e al
sistema
mafioso.
Tutti
coloro
che
sottoscriveranno
la
‘Dichiarazione
di
impegno’
entreranno
a
far
parte
di
una
lista
di
professionisti
che
sarà
resa
pubblica”.
La
speranza
non
muore,
la
speranza
non
si
ferma.
Anche
grazie
a
Paolo.
Riferimenti bibliografici:
Caruso,
Da
cosa
nasce
cosa.
Storia
della
mafia
dal
1943
a
oggi,
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Vita
e
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caduti
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