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N. 63 - Marzo 2013 (XCIV)

PAOLO VI E IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
I VIAGGI E L’ECCLESIAM SUAM

di Rita Mei

 

Nel momento in cui si apriva il Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962), il lungo cammino del dialogo interreligioso era iniziato già da alcuni decenni; già dai primi anni del 1900 stava nascendo, a poco a poco, all’interno di singole tradizioni religiose una diversa sensibilità nei confronti degli uomini che professavano una fede diversa.


Fu in questo clima che si formò il futuro Paolo VI: tutt’oggi la sua personalità, la sua indole e la sua formazione rimangono la chiave per comprendere pienamente l’indirizzo che il Concilio prese sotto la sua guida.


Già nel suo primo radiomessaggio del 22 giugno 1963, Qui fausto die, l’ex arcivescovo di Milano affermava di voler continuare i lavori del Concilio, affinché la Chiesa cattolica, con il rinnovamento delle sue strutture, potesse avvicinarsi a tutti gli uomini, provenienti da qualsiasi parte del mondo e professanti qualsiasi fede religiosa. Alla base del Concilio dovevano essere – affermava il nuovo papa – valori come la pace tra i popoli, la concordia e la comprensione.


Nel suo primo discorso da pontefice ai padri conciliari, inoltre, Paolo VI indicava quali sarebbero stati gli obiettivi principali del Concilio. Dopo aver omaggiato la memoria del suo predecessore, si soffermava sullo scopo del Concilio, da lui stesso definito come una “nuova primavera”, pronta a risvegliare all’interno della Chiesa, “energie e possibilità immense quasi latenti negli animi”.

 

Il papa evidenziava quattro finalità: “la definizione… di Chiesa, la sua riforma, la ricomposizione dell’unità tra tutti i cristiani e il dialogo della Chiesa con gli uomini contemporanei”. Con quest’ultimo scopo, Paolo VI spalancava letteralmente le porte del Concilio, non solo alle diverse confessioni cristiane, ma alle altre tradizioni religiose, “che conservano il concetto e la nozione di un Dio unico, creatore, provvido, sommo e trascendente la natura delle cose; che praticano il culto di Dio con atti di sincera pietà e che derivano da queste usanze e credenze i principi della vita morale e sociale”.


Egli era convinto che, se “la Chiesa cattolica scorge indubbiamente, e con suo dolore, lacune, insufficienza ed errori in tante espressioni religiose come quelle indicate, non può fare a meno di rivolgere anche ad esse un suo pensiero, per ricordare loro che la religione cattolica tiene nella dovuta stima tutto ciò che in esse è di vero, di buono e di umano, e che per conservare nella società moderna il senso religioso ed il culto di Dio – dovere e bisogno dell’intera civiltà – essa è in prima linea come la più valida sostenitrice dei diritti di Dio sull’umanità.”


In queste parole, pur non nascondendo gli errori fatti e le incertezze che avevano reso il clima conflittuale, per la prima volta, veniva evidenziato quanto di positivo la Chiesa cattolica poteva e doveva cogliere nelle altre tradizioni religiose.


Proprio per dare un risvolto reale e concreto – e non solo simbolico – all’apertura al mondo contemporaneo e alle sue sfaccettature, Paolo VI intraprese una serie numerosissima di viaggi: in Terra Santa nel gennaio 1964, in India, a Bombay, nel dicembre 1964, all’ONU nell’ottobre 1965, a Bogotà nell’agosto 1968, in Uganda nel luglio 1969, in Estremo Oriente, infine, nel novembre 1970.

 

Le peregrinazioni apostoliche di Paolo VI erano cariche di una molteplicità di significati: la missione, l’unità ecclesiale, il servizio ai poveri, il desiderio dell’incontro con l’altro, la ricerca della pace, intesa come bene comune e quindi missione della Chiesa, punti su cui, in numerose occasioni ufficiali, il pontefice insistette molto.


In particolare tre momenti del magistero di Paolo VI sembrano fondamentali per capire il ruolo da lui avuto all’interno del dialogo interreligioso, ed in particolare di quello islamo-cristiano.


È di grande rilevanza anche la lettera indirizzata, nel dicembre 1964, ai patriarchi orientali con sede nei paesi arabo-islamici, in cui Paolo VI si soffermava sul contatto diretto tra comunità cristiane e musulmane a Gerusalemme, ad Amman e nelle altre città della Giordania: non ignorava né le vicissitudini della storia che avevano portato a scontri diretti e spesso feroci tra i popoli arabi e quelli dell’occidente, né la spesso difficile coesistenza e collaborazione tra comunità cristiane e musulmane.

 

Questa realtà veniva vista ed analizzata con chiarezza da Paolo VI, considerandola come una condizione con cui confrontarsi per migliorare la situazione, evitando gli errori già commessi e sviluppando ed ampliando i contatti che avevano avuto successo. Paolo VI riconosceva quanto la cultura occidentale dovesse alla cultura araba e si impegnava non solo nel rispettarne le peculiarità, ma anche nell’incentivarla e nel sostenerla a tutti i livelli. Nelle diversità culturali, il pontefice vedeva un riflesso della legge della Provvidenza divina, secondo la quale una diversità sostanziale ed intrinseca non è finalizzata ad opporre gli uni agli altri, ma piuttosto a completare gli uni con la cultura degli altri e ad arricchire entrambi con le reciproche peculiarità.


Inoltre, in occasione della sua visita all’ONU, Paolo VI, dopo aver lodato l’impegno dell’organizzazione nell’accelerare il progresso economico e sociale, sfidando l’analfabetismo e migliorando l’assistenza sanitaria, sottolineava che l’azione internazionale doveva andare oltre gli scopi della coesistenza e della convivenza pacifica tra i popoli: “non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promuovete la collaborazione fraterna dei Popoli. Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l’appoggio concorde e ordinato di tutta la famiglia dei Popoli per il bene comune, e per il bene dei singoli. Questo aspetto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è il più bello: è il suo volto umano più autentico; è l’ideale dell’umanità pellegrina nel tempo; è la speranza migliore del mondo; è il riflesso, osiamo dire, del disegno trascendente e amoroso di Dio circa il progresso del consorzio umano sulla terra; un riflesso, dove scorgiamo il messaggio evangelico da celeste farsi terrestre.”


La volontà del pontefice di rivolgersi all’uomo contemporaneo, espressa nel suo discorso ai padri conciliari nel settembre del 1963, trovava in questi discorsi ulteriori conferme: il suo pensiero religioso e il suo intento di riformare la Chiesa non era staccato dalle questioni sociali, economiche e culturali affrontate dal mondo contemporaneo, ma viaggiava in parallelo con i grandi problemi di attualità.


Il 6 agosto 1964 Paolo VI rendeva pubblica la sua prima enciclica programmatica, l’Ecclesiam suam, interamente incentrata sulla Chiesa, sulla sua attualità, sul rapporto con il mondo contemporaneo e sulle vie con cui essa doveva attendere al suo mandato, specchio, ancora una volta, della nuova forma di approccio della Chiesa verso il mondo e verso le altre realtà religiose, che, come abbiamo visto, era il tratto distintivo del pontificato di Paolo VI.


L’Ecclesiam suam può essere considerata anche come la descrizione del ruolo assunto dai tre segretariati nati in quegli anni: quello dell’unità dei cristiani, quello per i non cristiani e quello per i non credenti. La struttura dell’enciclica infatti è composta da tre parti che corrispondono a tre gruppi di interlocutori della Chiesa, che formano tre cerchi concentrici. Del secondo fanno parte proprio gli esponenti delle religioni non cristiane, non solo gli ebrei, ma tutti quelli che professavano una fede monoteistica, primi tra tutti i musulmani, e poi i seguaci delle grandi religioni afroasiatiche.

 

Pur ribadendo la diversità delle varie espressioni religiose e pur continuando a manifestare la persuasione del mondo cristiano di essere l’unica religione portatrice di salvezza e verità, viene espresso un rispettoso riconoscimento dei loro valori spirituali e morali, proponendo un’alleanza nel promuovere e difendere gli ideali comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della cultura, della beneficenza sociale e dell’ordine civile.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Acerbi, Il pontificato di Paolo VI, in Storia del Cristianesimo 1878-2005, vol. V, Il Concilio Vaticano II, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005.

M. Borrmans, Le pape Paul VI et les musulmans, in “Islamochristiana” 4 (1978).



 

 

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