N. 51 - Marzo 2012
(LXXXII)
la torrida tristezza nel deserto di un campione
le ultime lettere di marco pantani
di Piero Nabisso
Marco Pantani nasce a Cesenatico il 13 gennaio 1970. È considerato uno dei più grandi ciclisti italiani, straordinario scalatore e vincitore nel 1998 delle due più grandi corse a tappe del panorama ciclistico internazionale (Giro d’Italia e Tour de France) e soprannominato il Pirata, per la bandana che indossava durante le corse e che gettava a terra nel momento in cui le pendenze della salita aumentavano e alzandosi sui pedali decideva di scattare.
Nel
dicembre
2003,
durante
il
suo
secondo
ed
ultimo
soggiorno
a
Cuba,
Pantani
ha
preso
il
suo
passaporto
e lo
ha
trasformato
in
una
sorta
di
diario
sul
quale
ha
annotato
le
sue
“memorie”,
ovvero
una
serie
di
amare
riflessioni,
di
accuse
verso
il
suo
mondo,
quello
del
ciclismo,
dal
quale
si è
sentito
abbandonato,
tradito
e
utilizzato
come
capro
espiatorio
di
un
sistema
malato
fino
all’osso.
Il
passaporto
è
quel
documento
che
stabilisce
in
maniera
chiara
e
burocratica
l’identità,
per
certificarla
di
fronte
al
mondo,
ma
quello
del
Pirata
risulta
essere
un
certificato
d’identità
sfigurato,
è
una
straordinaria
metafora
di
una
devastazione
ormai
irrimediabile
già
avvenuta
nell’inconscio.
Questa
distruzione
del
passaporto
potrebbe
rappresentare
un
chiaro
indizio
della
sua
volontà
di
annullare
ogni
legame
con
il
mondo
oltre
che
con
se
stesso,
una
distruzione
che
si
ripercuote
nelle
pagine
del
documento,
strappate
e
gettate
in
un
cestino
ma
recuperate
dall’amico
Michel
Mengozzi
che
si
era
recato
sull’isola
caraibica
per
riportarlo
a
casa,
anche
se a
causa
proprio
di
questo
passaporto
danneggiato
Pantani
rischiò
di
non
poter
far
ritorno
in
Italia
se
ai
controlli
doganali
non
avesse
trovato
un
poliziotto
cubano,
suo
tifoso.
Questa
fonte
epistolare
è
costituita
da 9
pagine
di
appunti
scritti
in
maiuscolo,
contenenti
diversi
errori
di
ortografia,
caratterizzate
da
frasi
sgrammaticate,
scritte
di
getto,
confuse
e
molte
sconclusionate,
nelle
quali
esplodono
vergogna,
disagio
e
sofferenza...frasi
che
aveva
già
utilizzato
per
difendersi
in
molti
tribunali
dalle
accuse
di
doping
a
lui
rivolte.
Il
ciclista,
con
questo
scritto,
sembra
che
voglia
raccontare
perché
è
fuggito
da
tutti,
isolandosi,
e
quali
fossero
i
fantasmi
che
lo
inseguissero
e
tormentassero.
Descrive
la
fuga
di
un
uomo
che
attende
ancora
la
verità,
che
venga
fatta
luce
sulla
sua
situazione
di
uomo,
ancor
prima
che
di
ciclista;
si
sente
stanco
di
essere
stato
“umiliato
per
nulla”
ed
esausto
degli
ultimi
4
anni
in
cui
ha
dovuto
affrontare
tante,
troppe,
aule
di
tribunali
(ben
7
procure
stavano
indagando
su
di
lui)
piuttosto
che
le
sue
amate
salite
di
montagna
sulle
quali
scattava,
lasciandosi
alle
spalle
il
gruppo
dei
corridori
che
molto
spesso
rivedeva
soltanto
all’arrivo
dopo
aver
tagliato,
a
braccia
alzate,
il
traguardo...mentre
adesso
questi
scatti
non
gli
erano
più
possibili.
Non
si
sente
più
uno
sportivo,
si
considera,
invece,
l’imputato
unico
al
processo
sul
mondo
del
ciclismo
pieno
di
tarli;
l’avevano
fatto
sentire
l’unico
responsabile
di
una
moltitudine
di
problemi
caratterizzanti
un
ambiente
che
aveva
perso
la
speranza
nella
giustizia,
un
ambiente
in
cui
i
ciclisti
erano
diventati
delle
cavie
da
laboratorio,
che
avevano
subito
e
che
continuavano
a
subire
numerose
umiliazioni,
che
avevano
visto
la
loro
vita
privata
violentata
e
distrutta
a
seguito
di
continui
prelievi
di
sangue
e di
numerosi
controlli
della
polizia,
anche
nelle
ore
notturne
e
anche
con
l’utilizzo
di
telecamere
nascoste,
senza
alcun
preavviso
e
senza
alcun
rispetto
nei
confronti
di
sportivi,
che
prima
di
tutto
sono
degli
esseri
umani,
ma
che
venivano,
invece,
trattati
come
se
fossero
i
peggiori
criminali,
spacciatori
e
drogati
presenti
in
circolazione.
Ammette
la
sua
colpevolezza,
ammette
“di
aver
sbagliato
con
prove”,
ma
non
precisa
quali
esse
siano.
Anche
lui
è
consapevole
di
aver
subito
troppe
violenze
sia
in
ambito
sportivo
sia
in
ambito
privato
e
questo
gli
ha
fatto
perdere
tante
cose
(fra
tutti
molti
tifosi
e
molte
vittorie,
fama,
credibilità,
la
fidanzata
danese
Christine
e
diversi
amici)
ma
non
casualmente
si
trova
a
Cuba
con
la
voglia
di
dire
che
“Asta
la
vittoria”
(Hasta
la
Victoria)
deve
essere
non
soltanto
uno
stile
di
vita
ma
anche
“un
grande
scopo
per
uno
sportivo”
che
deve
avere
sempre
come
ultimo
traguardo
la
vittoria
e
deve
combattere
per
raggiungerla,
nello
sport
come
nella
vita.
Non
accetta
di
essere
il
bersaglio
unico,
non
accetta
di
essere
stato
messo
alla
gogna
da
fette
consistenti
di
quei
media
che
prima
lo
osannavano
e
che
adesso,
invece,
lo
accusano
pretendendo
la
sua
confessione
di
colpevolezza
(in
particolar
modo
il
presidente
della
Federciclismo
Giancarlo
Ceruti)
e
per
questo
cerca
comprensione
e
giustificazione
al
proprio
declino
e al
rifugio
nella
cocaina:
dice
di
aver
dato
il
cuore
al
suo
sport,
nonostante
parecchi
infortuni
ed
incidenti,
anche
abbastanza
gravi
(primo
fra
tutti
la
frattura
di
tibia
e
perone
della
gamba
sinistra
nel
1995
causata
dall’investimento
da
parte
di
una
vettura),
ma
malgrado
ciò
dice
di
aver
sempre
avuto
la
forza
di
reagire
e di
ripartire
tornando
in
sella
più
forte
di
prima.
È
caduto
e si
è
rialzato
tante
volte
ma,
anche
se
espressamente
non
la
cita,
Madonna
di
Campiglio
gli
ha
creato
una
tale
ferita
che
non
è
riuscito
a
sanare
mai
del
tutto,
non
essendo
stato
da
quel
giorno
più
in
grado
di
ripartire
veramente,
consapevole
di
aver
toccato
moralmente
il
fondo
(il
5
giugno
1999
a
Madonna
di
Campiglio
venne
fermato
poco
prima
della
partenza
della
penultima
tappa
di
un
Giro
d’Italia,
ormai
stravinto,
a
causa
di
un
controllo
sanguigno
che
aveva
rivelato
un
livello
di
ematocrito
troppo
elevato
rispetto
ai
parametri
sportivi),
e da
quel
momento
ha
avuto
inizio
una
lunga
odissea
di
torture,
una
torbida
ed
inesorabile
discesa
senza
freni
in
un
baratro
fatto
di
solitudine,
eccessi,
depressione
e
droga.
Dopo
Madonna
di
Campiglio,
assalito
da
sentimenti
di
rabbia
e di
tristezza,
ha
sentito
di
non
aver
più
fiducia
nella
giustizia,
non
potendo
credere
ancora
che
essa
fosse
equa
dopo
tutte
quelle
violenze
che
aveva
subito,
ma
nonostante
tutto,
dopo
più
di 4
anni,
riesce
a
vedere
ugualmente
un
barlume
di
speranza,
vuole
e
spera
che
la
sua
storia
diventi
di
esempio
per
tutti
gli
sport,
perché
ritiene
giusto
che
ci
siano
delle
regole,
anche
se
precisa
“devono
essere
uguali
per
tutti”,
e
reputa
inammissibile
che
per
fare
ciclismo
si
debba
“dare
il
sangue”
subendo
prelievi
improvvisi
ed
essendo
sempre
sotto
il
controllo
della
giustizia
sportiva,
la
quale
deve
essere
sempre
informata
degli
spostamenti
dei
ciclisti,
delle
gare
alle
quali
partecipano
e
dove
e
per
quanto
risiedono
in
una
determinata
località.
Questa
è la
causa
principale
che
lo
ha
portato
a
perdere
la
serenità,
controllato
dalla
guardia
di
finanza
o
dalle
telecamere,
di
giorno
o di
notte,
in
casa
o in
albergo,
finendo
col
perdere
la
sua
di
tranquillità
ma
anche
quella
di
molte
delle
persone
che
gli
gravitavano
attorno
(i
suoi
genitori,
la
sua
fidanzata
che
lo
lascia
facendo
ritorno
in
Danimarca)
e
finendo
col
farsi
del
male,
piombando
nel
baratro
della
droga.
Pantani
non
si
nasconde,
anzi
ammette
apertamente
di
essersi
drogato,
ma
tiene
a
precisare
che
gli
stupefacenti
hanno
fatto
pesantemente
il
loro
ingresso
nella
sua
vita
solo
“dopo
la
mia
vita
da
sportivo”,
come
se
volesse
puntualizzare
che
ha
fatto
sì
uso
di
droghe,
ma
solo
per
cercare
di
reprimere
un
malessere
psicologico,
una
sorta
di
aiuto
di
fronte
a
tale
disagio,
e
non
per
migliorare
le
sue
prestazioni
sportive.
Rintraccia
nella
droga
la
causa
di
distruzione
dei
suoi
“sogni
di
uomo”
che
l’ha
fatto
precipitare
ed
intrappolare
in
un
ossimorico
stato
d’animo
di
“torrida
tristezza”,
consapevole
di
aver
sbagliato
come
uomo,
ma
di
aver
donato
il
cuore
al
ciclismo,
alla
sua
famiglia,
alla
sua
donna
e a
tutti
quei
milioni
di
tifosi
che
lo
hanno
sempre
sostenuto
ed
osannato.
Con
molta
caparbietà
e
fermezza
il
ciclista
non
ha
alcun
dubbio
nel
ritenere
che
tutto
quello
che
ha
scritto
rappresenti
la
“verità”
perché
lui
“non
è un
falso”
e
spera
che
ci
sia
“un
uomo
vero
o
una
donna”
che
leggendo
queste
frasi
comprenda
tale
verità
e si
dimostri
in
grado
di
porsi
in
difesa
del
ciclismo,
rendendolo
giusto,
pulito
e
con
regole
uguali.
L’ultimo
appello,
un
Pantani
profondamente
ferito,
lo
rivolge
a
tutte
quelle
persone
che
credevano
in
lui
e
nella
sua
onestà
e
che
adesso
invita
a
parlare
perché
solo
così
sarebbe
stato
possibile
debellare
tutte
queste
ingiustizie
ridando
dignità
alla
sua
persona,
alla
sua
figura
di
sportivo
e a
quella
del
ciclismo
intero.
Il
14
febbraio
2004,
due
mesi
dopo
la
confusa
scrittura
di
queste
frasi,
Marco
Pantani
verrà
trovato
morto
a
causa
di
un
overdose
di
cocaina,
all’interno
di
una
stanza
d’albergo,
presso
il
Residence
Le
Rose
di
Rimini,
in
completa
solitudine.
L’amico
Michel
ha
consegnato
le
pagine
di
questo
passaporto
alla
magistratura
dopo
aver
accuratamente
ricopiato
ogni
frase
che
vi
era
scritta;
questa
trascrizione
l’ha
direttamente
consegnata
alla
famiglia
del
ciclista
che
l’ha
resa
pubblica
attraverso
la
lettura
che
la
manager
del
ciclista,
Manuela
Ronchi,
ha
fatto
il
18
febbraio
2004,
dal
pulpito
della
chiesa
di
S.
Giacomo
Apostolo
a
Cesenatico
in
occasione
del
funerale
del
ciclista.
Questo
scritto
di
Pantani,
alla
luce
degli
accadimenti
successivi,
rappresenta
la
mappa
del
disagio
che
lo
ha
portato
a
perdere
il
contatto
con
la
realtà,
con
i
legami
affettivi,
con
la
vita
e
risuona,
allora,
come
un
testamento,
con
la
volontà,
nel
lungo
viaggio
verso
il
nulla
e
nell’istante
in
cui
si è
trovato
l’ultimo
se
stesso,
di
fissarne
in
eterno
la
memoria.