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N. 16 - Aprile 2009 (XLVII)

PANTALICA
IL REGNO DI HYBLON NEL CUORE DEGLI IBLEI

di Enrica De Melio

 

Il sito preistorico di Pantalica, dichiarato dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità”, sorge a 425 metri s.l.m., nell’alta valle di uno dei più noti fiumi storici della Sicilia sudorientale, l’Anapo, esattamente nel punto d’incontro fra questo ed il torrente Calcinara.


L’insediamento è, infatti, posto sullo sperone roccioso che sovrasta la confluenza fra i due corsi d’acqua ed è quindi naturalmente difeso per tutti i lati da ripide pareti rocciose.

 

Solamente sul lato occidentale, una piccola sella depressa detta “di Filiporto”, collega il pianoro, sul quale vi è l’insediamento preistorico, al Piano delle Mandre e al resto del territorio.


Su questo sito, quasi inaccessibile, nel corso del XIII secolo a.C., cominciava a costituirsi il più cospicuo stanziamento umano della Sicilia orientale che protrasse la sua vita fino all’affermasi dell’epoca storica.

Forse a seguito delle lontane minacce peninsulari, innescate dai Siculi, l’insediamento di Pantalica si sarebbe munito di un palazzo fortificato, l’Anaktoron, ispirato, progettato e realizzato secondo moduli ed unità di misura di tipo egeo e collegato con alcuni edifici del sito costiero di Thapsos.

 

Questo edificio, l’unico finora scavato, si trova sulla spianata centrale del lato meridionale del pianoro. Datato al XIII-XII secolo a.C., per le caratteristiche e per la sua posizione centrale, è stato definito Anaktoron, il palazzo fortificato del principe (del wanax miceneo), nella suggestiva ipotesi che lo vede sede del leggendario re siculo Hyblon, edificio che rivela nella sua pianta e nelle tecniche costruttive evidenti ascendenze micenee e viene sovente interpretato come sede ed epicentro del potere.

 
Trattasi di un edificio a pianta rettangolare costituito da unità modulari quadrilatere che si articolano variando le proprie dimensioni ed aggregandosi armonicamente; l’asse è in direzione N-O/S-E ed è lungo m 37.50 e largo m 11.50.

 

La sua parte meridionale, essendo posta su un leggero pendio, risulta costituita da un muro megalitico avente la probabile funzione di contrafforte. Ma tengo a precisare che secondo altri studiosi, la diversa tecnica costruttiva si spiegherebbe con la sua aggiunta in una fase successiva. Il resto dei muri è invece costituito da blocchetti di medie dimensioni che poggiano sulla roccia appositamente spianata.

 

Il vano meridionale A, costituito dal suddetto muro megalitico, era collegato con l’esterno mediante due accessi contrapposti. Presso il suo muro orientale gli scavatori notarono un cumulo di cenere e carboni che racchiudeva cinque matrici di arenaria per la fusione di oggetti in bronzo; il riempimento risultò ricco di ceramica, ossa, frammenti ed oggetti bronzei da rifinire. Il vano B è un lungo corridoio con apertura ad est verso l’esterno, fiancheggiata da sottili avancorpi. I rimanenti sei vani (C-H) sono fra loro simili, quadrati e racchiusi da muretti a doppio paramento.


In sintesi, l’Anaktoron era un edificio a pianta semplice costituito da unità modulari quadrilatere che si articolavano ed aggregavano tra loro, secondo un piano preordinato.


Il ritrovamento delle matrici di fusione e dell’atelier del metallurgo, nella casa del “principe”, è una riprova del fatto che la ricchezza era accentrata e che i mezzi di produzione erano direttamente controllati dal “palazzo”.


Oltre questo interessante edificio, null’altro o quasi di architettonicamente rilevante esiste a Pantalica. Escludendo, ovviamente, le grandiose necropoli.

Il sito di Pantalica conserva, infatti, grandi ed impressionanti necropoli con tombe a grotticelle artificiali che costellano le sue immense vallate rupestri – a Nord, a Nord-Ovest, alla Cavetta, a Sud, a Filiporto –, circa 5000 tombe scavate sulle alte e bianche pareti rocciose, raro esempio di opera umana che si accompagna e si fonde con il solenne spettacolo della natura, pervasa dal misterioso senso dell’oltretomba.


In genere si tratta di tombe a grotticella artificiale con cella a pianta circolare e piccolo dromos, contenenti più di una inumazione. Abbiamo anche tombe elitarie a camerone rettangolare, scavate nella roccia della necropoli Nord Ovest e a camera multipla, pluricellulare, circoscritte a Nord, dove è evidente l’influsso miceneo.


Alle forme semplici di camerette a pianta ellittica o quadrangolare si associano realizzazioni “gentilizie” costituite da veri e propri cameroni attorno ai quali si aprono una serie di cellette dove viene posto il defunto con il suo corredo funerario, mentre nelle tombe a camerone vi è l’inumazione di quattro o cinque persone, famiglie elitarie con corredi ricchissimi.


La tipologia funeraria della tholos è finora ignota nelle fitte necropoli di Pantalica, mentre è ben documentata alla Montagna di Caltagirone e a Monte Dessueri.


Nel rituale funerario c’è sempre il banchetto funebre come anche la deposizione di oggetti di prestigio che attestavano un rango funerario. Gli inumati sono sempre distesi e non rannicchiati.


Tale necropoli, sia nella manifattura delle tombe che nella diversità dei corredi, mostra chiari segni di una diversificazione sociale della popolazione. In particolare, come suddetto, si notano alcune celle più grandi a pianta rettangolare di derivazione micenea, talvolta con altre celle annesse, contenenti corredi più ricchi.

La ceramica della facies di Pantalica Nord è rappresentata da forme circoscritte intorno ad un gruppo di 22 vasi realizzati per la prima volta con il tornio, aventi superfici decorate nella tecnica a stralucido rosso di derivazione micenea, colore che conferisce particolare eleganza, accresciuta, peraltro, dall’imponenza di alcune forme vascolari recepite dal mondo miceneo – dove erano considerate di serie B –, come i grandi bacini globulari su alto piede.

 

Tra le altre forme più documentate, compaiono le brocchette a corpo cuoriforme e quelle con versatoio a crivello, nonché l’askos con bottone-disco alla sommità, l’hydria quadriansata, la patera e la coppa su piede.

 

Si tratta essenzialmente di prodotti di imitazione micenea. Infatti, vi è assenza di vasi di importazione micenea (ad eccezione forse della brocchetta della tomba 133 N, del Miceneo III C secondo il parere dell’archeologa Vagnetti).

Nella documentazione relativa all’attività metallurgica sono molti gli agganci particolari con il mondo egeo. Vi sono oggetti di prestigio realizzati in metalli nobili, recuperati all’interno delle tombe, come uno specchio bronzeo, anelli d’oro, fibule, orecchini aurei.

 

Oggetti indicatori di stato, attestanti il rango della persona seppellita, sono altresì le armi, come la piccola daga a testa d’anatra o il coltellino con manico a testa d’oca e le spade. Queste ultime ed i pugnali sono di tipo locale e seguono i prototipi di tipo thapsiano. Le fibule, invece, ad arco semplice e di violino, sono probabilmente d’importazione, si assimilano infatti agli schemi italici ed egei della fase finale dell’età del bronzo e del sub miceneo.

In conclusione, l’aspetto culturale che nella tarda età del bronzo si diffonde in Sicilia è quello di Pantalica Nord. La sua diffusione copre soprattutto le aree interne della Sicilia sud-orientale, tanto da indurre l’archeologo Luigi Bernabò Brea a formulare la sua teoria dell’abbandono dei siti costieri dopo la fine della cultura di Thapsos.

 

Ma le ultime ricerche in questo sito condotte dall’archeologo Giuseppe Voza, hanno dimostrato che la vita, invece di cessare, riceve un notevole impulso. Ciononostante, la teoria dell’abbandono non è comunque da rifiutare. È vero che la vita sulla costa non cessa, ma è anche vero che la cultura di Pantalica Nord non sembra avere forti contatti culturali con quella che prosegue nei siti costieri.


La cultura e l’etnos thapsiani ebbero larga diffusione e grande fortuna soppiantando il retaggio castellucciano dell’antica età del bronzo.

 

Ma dove era finito il patrimonio culturale del complesso e ricco mondo castellucciano?

 

Molto poco sembra pervenire alla cultura di Thapsos. Se retaggio castellucciano esiste in Sicilia, questo fu verosimilmente recepito dalla cultura di Pantalica Nord la quale sembra vivere uno stesso rapporto con il tipico paesaggio interno della zona sud-orientale dell’isola.

 

La fiorente civiltà di cui aveva goduto l’isola nell’antica e media età del bronzo giunge bruscamente a fine intorno alla metà del XIII secolo a.C.. I rapporti pacifici e gli scambi commerciali che collegavano i popoli rivieraschi del Mediterraneo s’interrompono quasi del tutto. Inizia un’età di ostilità e di paura, provocata dall’arrivo di gente guerriera che costringe le popolazioni locali a rifugiarsi nell’entroterra, a cambiare il loro sistema di vita ed a trasformare le basi della loro economia.

 

Alcuni villaggi della cultura di Thapsos, costieri, piccoli e numerosi, scompaiono. Le genti si rifugiano sulle impervie montagne, in posizioni disagevoli, non rispondenti ad alcun criterio economico, ma scelte solamente in base a preoccupazioni di difesa. Nascono grandi villaggi come Pantalica, Cassibile, Monte Dessueri.

 

L’accentramento delle popolazioni in vasti nuclei fa sì che le necropoli, pur se della medesima tipologia a grotticella artificiale, siano molto più ampie, più appariscenti di quelle del bronzo antico e medio, così, di fronte alle centinaia al massimo di tombe di Castelluccio, stanno ora le circa cinquemila di Pantalica.


Nella fase di Pantalica Nord si ha una rilevante concentrazione demografica in pochi grandi centri che sorgono sparsi in quello stesso territorio un tempo occupato dai villaggi castellucciani. Sembra quasi che la popolazione abbandoni la fertile fascia costiera e cerchi rifugio in impervie e disagevoli sedi montane, probabilmente scelte perché rispondenti ad esigenze di difesa, e si riunisca in grossi agglomerati, tali eventualmente da poter mettere insieme un considerevole esercito, sufficiente ad assicurare questa presunta difesa.


Lo spostamento degli abitati dalla costa verso l’interno deve aver avuto luogo probabilmente nei primi decenni del XIII secolo a.C. Forse non è casuale la coincidenza di questa data, a cui si perviene attraverso la ricerca archeologica, con quella conservataci da una tradizione letteraria di tipo storico risalente ad Ellanico di Mitilene che indica il passaggio dei Siculi dalla penisola italiana in Sicilia come avvenuto tre generazioni prima della guerra di Troia, e cioè intorno al 1270 a.C.


Presumibilmente lo stato di guerra e di costante pericolo per gli abitanti, causato dall’invasione della Sicilia orientale da parte di genti straniere provenienti dalla penisola italiana, può aver determinato l’improvvisa flessione dell’importanza della civiltà costiera di Thapsos, e la radicale trasformazione della geografia antropica dell’isola, che ci sembrano chiaramente testimoniati dalla ricerca archeologica.


Pantalica, durante la fase iniziale, mantenne legami con la costa, probabilmente ne mantenne il controllo fino ad un imprecisabile momento durante il qual s’innesca un meccanismo di separazione culturale che porterà i siti costieri ad acquisire successivamente i connotati della cultura di Cassibile.


Con la successiva fase di Pantalica Sud, anche Pantalica si “peninsularizza”, cioè cade sotto l’area di controllo ausonio-siculo.


A questo punto, la tradizione e l’ethnos “sicano”resistettero solo in aree interne dell’agrigentino. Il sistema di potere, dato dalla solidità politico-organizzativa di Pantalica, durò ben sei secoli e fu spento dalla schiacciante potenza siracusana tra il 733 a.C. (fondazione di Siracusa) ed il 664 a.C. (fondazione della subcolonia siracusana di Akrai).

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

R. M. Albanese Procelli, Sicani, Siculi, Elimi, Milano, Longanesi 2003.
L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano, 1958.
M.S. Cassano et alii, Paletnologia. Metodi e strumenti per l’analisi delle società preistoriche, Carocci.
S. Tusa, La Sicilia nella preistoria, Sellerio, Palermo 1992.
C. Voza, Guida di Siracusa e itinerari della provincia, Erre produzioni, 1994.
G. Voza, Nel segno dell’antico, Arnaldo Lombardi Editore, 1999.



 

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