N. 146 - Febbraio 2020
(CLXXVII)
La “spagnola” alla fine della Grande Guerra
pandemia
DA 50
milioni
di
vittime
di
Francesco
Cappellani
Circa
un
secolo
fa,
nei
primi
mesi
del
1919,
l’epidemia
di
influenza
denominata
“spagnola”,
iniziata
nella
primavera
del
1918,
scomparve
misteriosamente
come
altrettanto
misteriosa
era
stata
la
sua
comparsa
e la
successiva
diffusione
l’anno
precedente.
In
realtà
si
ebbero
ancora
parecchi
casi
nei
due
anni
seguenti,
però
con
una
mortalità
ridotta
fino
poi
a
sparire
del
tutto,
probabilmente
in
quanto
l’immunizzazione
acquisita
con
le
ondate
precedenti
ne
aveva
attenuato
gli
effetti,
o
per
una
mutazione
del
virus
influenzale
in
una
forma
meno
letale.
Si
trattò
di
una
pandemia,
cioè
di
una
epidemia
in
grado
di
colpire
quasi
tutti
i
paesi
del
globo,
dall’India
al
Brasile,
dall’Iran
al
Sudafrica
e
alla
Russia,
fino
alle
isole
del
Pacifico
e
all’Alaska,
infettando
oltre
mezzo
miliardo
di
persone
e
provocando
un
numero
di
vittime
stimato
in
circa
50
milioni,
ma
che
studi
recenti
hanno
aumentato
a
quasi
il
doppio,
cioè
intorno
al
5%
della
popolazione
mondiale
di
allora
che
contava
1,7
miliardi
di
individui.
La
spagnola
è
stata
nella
storia
dell’umanità
la
malattia
epidemica
che
ha
sterminato
il
maggiore
numero
di
persone,
più
delle
varie
epidemie
di
colera
succedutesi
nella
seconda
metà
dell’Ottocento
e
più
della
Peste
Nera
che
imperversò
in
Europa
tra
il
1347
e il
1352
uccidendo
circa
20
milioni
di
individui,
un
terzo
della
popolazione
europea
di
allora,
oltre
a
milioni
di
vittime
in
Asia
e
nel
Vicino
Oriente
su
cui
mancano
dati
affidabili.
Lo
stesso
agente
patogeno
di
quella
peste
sembra
avere
causato
altre
epidemie
di
minore
entità
tra
cui
quella
del
1630
nel
Nord
Italia,
descritta
da
Manzoni
ne
I
promessi
sposi.
Le
vittime
della
spagnola
superarono
di
molto
i
morti
di
quella
immane
carneficina
che
fu
la
prima
guerra
mondiale
stimati
in
16
milioni.
Il
picco
di
mortalità
si
ebbe
tra
la
metà
di
settembre
1918
e la
metà
di
dicembre
dello
stesso
anno
con
un
aumento
dovuto,
in
Europa,
anche
ai
contagi
provocati
dai
festeggiamenti
che
nell’autunno
di
quell’anno
celebravano
la
pace
finalmente
raggiunta,
con
folle
gioiose
e
gente
che
si
abbracciava
e
baciava
nelle
piazze.
Nel
periodo
più
violento
della
diffusione
della
pandemia
si
verificò
un
abbassamento
dell’aspettativa
di
vita
di
quasi
12
anni.
Una
pandemia
influenzale
si
presenta
statisticamente
all’incirca
tre
volte
ogni
secolo,
a
differenza
delle
epidemie
stagionali
che
si
ripetono
annualmente.
Le
sue
origine
sono
remote,
Tucidide
parlò
di
un
morbo
con
esiti
simili
a
quelli
recenti
oltre
2.400
anni
fa;
il
termine
“influenza”
compare
intorno
al
1300
ed è
legato
alle
credenze
dell’epoca
che
attribuivano
la
malattia
all’influsso
malefico
degli
astri.
Nel
XX
secolo,
oltre
alla
spagnola,
vi
fu
l’influenza
Asiatica
del
1957
che
provocò
circa
due
milioni
di
morti,
quella
di
Hong-Kong
con
quasi
un
milione
di
decessi
e
l’influenza
o
“febbre
suina”
del
2009,
molto
meno
cruenta.
Le
pandemie
si
scatenano
quando
un
nuovo
ceppo
del
virus
dell’influenza
viene
trasmesso
all’uomo
da
alcune
specie
animali
come
i
cavalli,
soprattutto
nei
secoli
scorsi
grazie
alla
loro
larga
diffusione
e
impiego,
i
suini,
il
pollame
e
anche
gli
uccelli
che
infettano
gli
animali
domestici
che
a
loro
volta
possono
indurre
pandemie
nell’uomo:
si
parla
infatti
di
influenza
aviaria,
suina
etc.
I
ceppi
influenzali
sono
codificati
da
un
termine
alfa-numerico
del
tipo
H(
)N(
)
dove
H (emoagglutinina)
e N
(neuroamidasi)
sono
le
proteine
presenti
sulla
superficie
del
virus
che
presiedono
all’adesione
del
virus
ai
recettori
di
superficie
della
cellula
da
infettare;
i
numeri
in
parentesi
servono
a
indicare
quale
delle
sedici
emoagglutinine
e
delle
nove
neuroamidasi
conosciute
sono
presenti
nel
ceppo.
Ad
esempio
il
virus
della
spagnola
era
H(1)N(1),
quello
dell’Asiatica
H(2)N(2),
quello
dell’influenza
di
Hong-Kong
H(3)N(2).
Si
tratta
di
virus
mutanti
che
cambiano
di
poco
ogni
anno,
ma
le
piccole
mutazioni
delle
proteine
sulla
sua
superficie
non
sono
riconosciute
dai
nostri
anticorpi
per
cui
l’influenza
può
affliggerci
molte
volte
nella
vita.
Se
le
mutazioni
del
virus
sono
invece
di
notevole
entità
oppure
sorge
un
nuovo
virus
dall’ibridazione
di
due
ceppi
differenti,
il
nostro
sistema
immunitario
non
è in
grado
di
contrastarlo
efficacemente
per
cui,
senza
l’aiuto
di
vaccini
e
opportune
terapie,
la
patologia
può
condurre
alla
morte.
La
spagnola
si
scatenò
sull’intero
globo
in
tre
ondate
successive,
nella
primavera
del
1918,
nell’autunno
dello
stesso
anno
e
nell’inverno
1918-1919.
Il
contagio
avveniva
per
via
aerea,
i
sintomi
erano
sempre
gli
stessi:
tosse,
febbre
alta,
dolori
alle
ossa,
emorragie
nasali,
difficoltà
respiratorie
e
infine
la
comparsa
di
un
colorito
bluastro,
cianotico,
indice
di
insufficiente
ossigenazione.
I
polmoni
si
riempivano
di
sangue
e se
si
arrivava
a
questa
situazione,
la
morte
era
inevitabile
e
arrivava
in
pochissimi
giorni
per
soffocamento
dovuto
a
edema
polmonare.
A
uccidere
gran
parte
delle
persone
non
fu
l’influenza
vera
e
propria,
ma
un’infezione
polmonare
secondaria,
di
origine
batterica
da
stafilococco,
spesso
fulminante
per
la
quale
all’epoca
non
esistevano
vaccini
né
rimedi
farmacologici
come
gli
antibiotici
che
Fleming
scoprirà
solo
dieci
anni
più
tardi.
Il
virus
del
1918,
come
dimostrato
da
studi
successivi,
aveva
delle
caratteristiche
genetiche
che
gli
permettevano
di
invadere
anche
tessuti
diversi
da
quelli
delle
vie
respiratorie,
aggravando
le
condizioni
dell’ammalato.
Agli
inizi
le
notizie
sulla
pandemia
spagnola
furono
tenute
nascoste
dalle
censure
delle
nazioni
in
conflitto
passando
in
secondo
piano
rispetto
ai
terribili
eventi
bellici.
Si
era
nella
fase
finale
della
prima
guerra
mondiale
e
non
si
voleva
allarmare
le
popolazioni
stremate
da
anni
di
guerra
e
soprattutto
le
truppe
al
fronte
logorate
dalla
durissima
vita
di
trincea.
Fu
solo
in
Spagna,
da
qui
poi
il
nome
di
febbre
spagnola
o
semplicemente
spagnola,
paese
europeo
non
belligerante
e
quindi
non
soggetto
a
censura
militare,
che
si
cominciò
a
parlare
del
morbo;
l’agenzia
iberica
di
stampa
Fabra,
nel
febbraio
1918,
trasmetteva
un
laconico
comunicato
che
informava
della
comparsa
a
Madrid
di “una
strana
forma
di
malattia
a
carattere
epidemico”
precisando
che
era
di
carattere
benigno
non
essendosi
verificati
decessi.
In
effetti
la
prima
ondata
nella
primavera
del
1918
causò
delle
forme
influenzali
che
duravano
pochi
giorni
senza
conseguenze
letali,
ma
nella
tarda
estate
dello
stesso
anno
la
seconda
ondata,
a
seguito
di
una
ricombinazione
del
virus
con
un
altro
di
origine
animale,
fu
di
una
virulenza
incredibile
scatenando
quelle
infezioni
pneumoniche
responsabili
della
gran
parte
dei
decessi.
Oggi
si
ritiene
che
le
prime
evidenze
della
spagnola
si
verificarono
nella
base
militare
di
Fort
Riley,
in
Kansas,
dove
era
stata
costruito
un
nuovo
campo
d’addestramento,
Camp
Funston,
per
alloggiare
parte
dei
50.000
giovani
richiamati
al
servizio
militare.
Qui
ai
primi
di
marzo
1918
si
registrarono
un
centinaio
di
casi
di
influenza
che
presto
aumentarono
al
punto
che
fu
necessario
requisire
un
hangar
per
alloggiare
i
malati.
Questi
soldati,
come
i
molti
altri
provenienti
dai
diversi
campi-scuola,
facevano
parte
dell’American
Expeditionary
Forces,
il
corpo
militare
guidato
dal
generale
John
Pershing
che,
con
l’entrata
in
guerra
degli
USA
nel
1917,
a
fianco
degli
Alleati,
sbarcheranno
nel
1918
nei
porti
francesi.
Fu
questo
corpo
di
spedizione
che
portò
il
virus
in
Europa.
La
spagnola
nell’autunno
del
1918
iniziò
rapidamente
a
diffondersi
in
Francia,
nelle
trincee
del
fronte
occidentale,
e
poi
in
Gran
Bretagna,
in
Italia
e
nella
neutrale
Spagna
dove
in
pochi
giorni
oltre
metà
dei
madrileni
furono
contagiati
compresi
il
re
Alfonso
XIII
e il
primo
ministro.
I
soldati
infettati
al
fronte
venivano
trasferiti
su
treni
superaffollati
nelle
strutture
sanitarie
delle
retrovie
che
erano
stipate
oltre
ogni
limite
di
feriti
e
ammalati,
contribuendo
a
diffondere
la
malattia
anche
fra
i
civili.
Inoltre
la
situazione
igienico-sanitaria
nelle
zone
di
guerra
era
estremamente
precaria
con
i
soldati
ammassati
per
mesi
nelle
anguste
trincee
tra
cadaveri
e
fogne
a
cielo
aperto
dove
prosperavano
virus
e
batteri
di
ogni
genere.
Anche
lo
stato
della
salute
pubblica
era
critico,
la
scarsezza
di
cibo
e la
malnutrizione
affliggevano
le
popolazioni
e
molte
malattie
di
origine
batterica
come
la
tubercolosi
rendevano
più
esposte
al
morbo
virale
queste
persone
già
indebolite.
La
medicina
non
era
in
grado
di
combattere
e
tantomeno
arginare
l’epidemia,
il
personale
medico
e
paramedico
veniva
contagiato
e
chi
sopravviveva
non
poteva
che
assistere
impotente
allo
sterminio
dei
propri
pazienti.
I
farmaci
utilizzati
per
tentare
di
approntare
una
terapia
erano
il
Fenazone,
come
antifebbrile,
la
tintura
di
Noce
Vomica
per
stimolare
il
sistema
nervoso,
estratti
dalla
pianta
Digitale
per
sostenere
il
cuore,
e i
salassi.
Poi,
come
nota
Andrea
Cionci,
«la
fantasia
di
medici
e
farmacisti
si
sbizzarrì:
un
medico
francese
consigliava
ai
malati
di
bere
molto
vino
rosso
sino
a
che
il
berretto
appeso
al
pomello
della
porta
non
fosse
apparso
sdoppiato.
Lo
scrittore
veneziano
Tito
Spagnol
fu
caustico
circa
le
cure
in
voga
“Quattro
pastiglie
di
chinino
e un
po’
di
paglia
per
morirvi
sopra”».
Fallita
ogni
terapia
e
profilassi
si
assistette
al
ritorno
di
credenze
popolari,
di
presagi
macabri
di
fine
del
mondo,
e al
diffondersi
di
cure
al
limite
della
ciarlataneria
come
l’uso
di
collane
d’aglio,
zuppe
di
cipolle
e
cognac
e
svariati
intrugli
tanto
misteriosi
quanto
inefficaci.
Il
vescovo
di
Zamora
in
Spagna
sostenne
che
il
braccio
vendicatore
della
giustizia
eterna
aveva
scatenato
il
morbo
come
punizione
per
i
nostri
peccati
e la
nostra
ingratitudine.
Tutto
ciò
accadeva
verso
la
fine
della
guerra,
quando
le
popolazioni
duramente
provate
cominciavano
finalmente
a
sperare
nella
fine
delle
privazioni
imposte
dal
conflitto
e di
tornare
a
una
vita
normale
poiché
la
possibilità
di
raggiungere
la
pace,
sancita
dai
14
punti
proposti
dagli
Imperi
Centrali
al
presidente
americano
Wilson,
appariva
imminente.
Le
autorità
sanitarie
imposero
una
ferrea
serie
di
divieti
e
restrizioni
riducendo
o
eliminando
gli
spettacoli
pubblici,
le
fiere
e i
mercati,
gli
assembramenti
di
ogni
genere
come
le
feste
paesane
e
gli
stessi
funerali,
per
diminuire
le
possibilità
di
contagio.
Su
Il
Popolo
d’Italia
Mussolini
stigmatizzò
la “sudicia
abitudine
della
stretta
di
mano”.
I
viaggi
in
treno
erano
sconsigliati
e la
sera,
dopo
l’anticipata
chiusura
dei
locali
pubblici,
veniva
imposto
una
sorta
di
coprifuoco
lasciando
le
città
buie
e
deserte.
Come
scrive
Eugenia
Tognotti
«Con
decine
e
decine
di
morti,
registrate
ogni
giorno
nelle
città,
era
proibito
suonare
le
campane
a
morto
che
abbattevano
lo
spirito
pubblico.
Vietati
i
cortei
funebri
e
l’accompagnamento
del
Viatico
(…)
Nei
piccoli
centri
non
si
trovavano
neppure
casse
da
morto,
data
la
penuria
di
legname
(…)
Censurata,
mediata
dai
criteri
di
selezione
delle
autorità,
la
registrazione
nei
giornali
e
nei
documenti
ufficiali,
lascia
in
ombra
lo
sconvolgimento
del
vissuto,
le
angosce,
gli
stati
d’animo,
le
reazioni
che
la
Spagnola
provocò
tra
le
popolazioni
civili».
In
Italia
la
situazione,
agli
inizi
della
pandemia,
fu
particolarmente
critica
in
quanto
non
ci
fu
una
immediata
collaborazione
tra
la
sanità
militare
e
quella
civile,
causando
una
mancanza
di
personale
sanitario
per
la
popolazione,
data
la
necessità
di
rinforzare
i
presidi
medici
impegnati
nelle
zone
di
guerra.
Malgrado
la
censura,
la
gente
iniziò
a
capire
quale
incredibile
strage
si
stesse
scatenando
quando
cominciarono
ad
apparire
sui
giornali,
listati
in
nero,
una
quantità
inusitata
di
necrologi
dedicati
alle
vittime
illustri
del
luogo
decedute
a
causa
di
un
morbo
fatale
e
improvviso:
“Basta
vedere
le
tre
colonne
di
morti
della
gente
per
bene
del
Corriere
–
scriveva
il
12
ottobre
1918
Anna
Kuliscioff
a
Filippo
Turati
–
per
persuadersi
qual
è la
mortalità
nei
quartieri
popolari”.
Il
tasso
di
mortalità
in
Italia
fu
tra
i
più
alti
in
Europa,
secondo
solo
a
quello
registrato
in
Russia
dove
le
situazioni
climatiche
proibitive
avevano
peggiorato
la
situazione.
La
spagnola
colpì
in
Italia
oltre
4,5
milioni
di
persone
provocando
tra
375
e
600
mila
decessi
su
una
popolazione
che
allora
contava
36
milioni,
paragonabile
alle
vittime
del
conflitto,
600
mila
uomini.
Il
dato
è
assai
approssimativo
anche
perché
molti
soldati
morti
in
guerra
di
spagnola
venivano
invece
dati
come
morti
in
combattimento
per
non
provocare
allarmismo
nell’esercito.
La
diffusione
della
spagnola
fu
favorita
sicuramente
dai
grandi
spostamenti
di
truppe
dovuti
alla
guerra:
nella
primavera
del
1918
quasi
tre
quarti
delle
truppe
francesi
e
metà
di
quelle
britanniche
rimasero
contagiate
e in
maggio
il
morbo
penetrò
in
Germania
dove
si
ammalarono
oltre
900.000
persone.
Da
lì,
tramite
prigionieri
rimpatriati,
si
diffuse
in
Russia.
Il
morbo
colpì
però
ovunque,
anche
in
paesi
lontani
e
neutrali,
non
coinvolti
nella
guerra,
con
la
stessa
gravità
e
invadenza.
In
Gran
Bretagna
morirono
228.000
persone,
negli
Stati
Uniti
675.000,
in
Canada
50.000,
in
Giappone
circa
400.000,
in
Egitto
138.000.
Nelle
Samoa
tedesche,
oggi
Stato
di
Samoa
nell’Oceano
Pacifico,
un
quinto
della
popolazione
fu
sterminato
dal
morbo,
in
India
il
numero
di
vittime
fu
ingente,
tra
12 e
17
milioni
di
abitanti.
A
settembre
fu
colpito
il
Sud
America
sembra
per
causa
di
una
nave
inglese
arrivata
a
Recife
in
Brasile
dove
la
spagnola
provocherà
300.000
morti,
tra
cui
il
presidente
Rodrigues
Alves,
e,
nel
1919,
anche
l’Australia.
Molte
furono
le
vittime
famose
della
pandemia:
in
Francia
muoiono
di
spagnola
il
poeta
Guillaume
Apollinaire
e lo
scrittore
Edmond
Rostand;
in
Austria
i
pittori
Egon
Schiele,
ventottenne,
tre
giorni
dopo
la
morte
della
moglie
incinta
di
sei
mesi,
e
Gustav
Klimt
già
colpito
da
un
ictus,
a 56
anni;
muore
il
sociologo
Max
Weber,
due
dei
tre
pastorelli
veggenti
di
Fatima
e il
nonno
Frederick
del
presidente
Donald
Trump.
Sigmund
Freud
perde
la
figlia
Sophie
incinta
del
terzo
figlio
e
Arthur
Conan
Doyle
un
figlio
e il
fratello.
Molti
altri
si
ammalarono
ma
sopravvissero
come
il
pittore
norvegese
Edvard
Munch,
Mustafà
Kemal
che
diventerà
poi
il
leader
modernizzatore
del
suo
paese,
la
Turchia,
il
Mahatma
Gandhi,
Tafari
Makonnen,
il
futuro
Ailé
Selassié
imperatore
dell’Etiopia,
il
presidente
degli
Stati
Uniti
Woodrow
Wilson
durante
la
Conferenza
per
la
pace
a
Parigi
e il
suo
futuro
successore
Franklin
Delano
Roosevelt,
contagiato
su
una
nave
che
trasportava
truppe
dalla
Francia
a
New
York,
il
giallista
Dashiell
Hammett,
gli
scrittori
Ernest
Hemingway
e
John
Dos
Passos
ammalatisi
su
una
nave
per
trasporto
truppe
sull’Atlantico,
il
romanziere
D.H.
Lawrence
e il
poeta
Ezra
Pound,
un
giovanissimo
Walt
Disney,
lo
scrittore
Franz
Kafka,
e il
filosofo
sionista
Martin
Buber.
Decenni
di
studi
anche
recenti
hanno
permesso
di
studiare
in
ogni
dettaglio
il
virus
della
spagnola,
che
fu
isolato
solo
nel
1933,
utilizzando
campioni
prelevati
da
soldati
americani
deceduti
nel
1918
e
grazie
alla
riesumazione
di
una
donna
Inuit
morta
di
spagnola
in
Alaska,
dove
il
permafrost
aveva
preservato
intatto
il
suo
tessuto
polmonare.
Usando
le
moderne
tecniche
di
analisi
molecolare,
i
ricercatori
del
National
Institute
of
Allergy
and
Infectious
Diseases
di
Washington
hanno
determinato
e
pubblicato
nel
2005
la
mappa
dell’intero
codice
genetico
del
virus
scoprendo
che
era
di
origine
aviaria
ed
era
riuscito
ad
adattarsi
perfettamente
all’uomo,
in
quanto
erano
avvenute
delle
mutazioni
tali
da
trasformarsi
in
un
virus
“umanizzato”,
in
grado
di
innescare
il
contagio
da
persona
a
persona.
Come
abbiamo
visto
il
flagello
della
spagnola
fu
causato
da
una
serie
di
fattori
sociali
e
sanitari
concomitanti:
la
Grande
Guerra
agli
sgoccioli
col
suo
carico
devastante
di
condizioni
igieniche
disastrose
e la
carenza
di
cibo,
la
carenza
di
personale
medico,
la
carenza
di
sicure
informazioni
scientifiche
sui
virus
e
sui
vaccini
che
spesso
erano
degli
intrugli
a
base
di
sangue
infetto
di
ammalati,
la
carenza
di
interscambio
di
informazioni
tra
le
autorità
sanitarie
dei
vari
paesi
del
mondo.
Oggi
esiste
un
efficiente
sistema
di
sorveglianza
globale
dei
virus
influenzali
con
potenziale
pandemico
che
comprende
114
stati
e fa
capo
al
W.H.O.,
la
World
Health
Organization
delle
Nazioni
Unite.
La
popolazione
è
più
sana
di
un
secolo
fa,
ci
sono
farmaci
efficaci
e la
capacità
di
sviluppare
immediatamente
e
produrre
in
quantità
industriale
i
vaccini
necessari.
Un
recente
studio
di
alcuni
ricercatori
australiani
ha
messo
in
luce
che
“una
metanalisi
delle
ricerche
sulla
spagnola
ha
fatto
emergere
una
serie
di
indicazioni
sulle
precauzioni
che
le
autorità
sanitarie
nazionali
ed
internazionali
devono
intraprendere
in
vista
di
future
pandemie
virali
(…)
Una
lezione
importante
dalla
pandemia
influenzale
del
1918
è
che
una
risposta
pubblica
ben
preparata
può
salvare
molte
vite
umane”.
La
spagnola,
pur
con
le
sue
conseguenze
immani
avendo
provocato
un
numero
di
decessi
molto
più
alto,
almeno
triplo,
dei
16
milioni
di
morti
della
Grande
Guerra,
ha
avuto
un
impatto
minore
nella
memoria
collettiva
rispetto
ai
tragici
eventi
del
primo
conflitto
mondiale.
Secondo
Laura
Spinney,
autrice
di
un
interessante
libro
sulla
pandemia,
questo
atteggiamento
lo
si
può
spiegare
considerando
che
le
guerre
“con
le
loro
dichiarazioni,
le
loro
tregue,
i
loro
atti
di
incredibile
coraggio”
entrano
di
prepotenza
nel
tessuto
della
narrazione
storica,
“una
pandemia
influenzale,
invece,
non
ha
un
inizio
ed
una
fine
precisa,
e
nessun
eroe
definito”
che
possa
essere
ricordato.
Inoltre,
all’oblio
ha
contribuito
la
scarsa
comprensione
di
quanto
accadeva
sia
da
parte
di
una
popolazione
oramai
dolorosamente
rassegnata
che
del
mondo
medico
impotente
e
criticato
perché
incapace
di
trovare
rimedi
efficienti.
Il
New
York
Times
del
17
ottobre
1918
deplorò
“il
fallimento
della
scienza,
che
non
ci
ha
protetto”.
Ci
fu
una
sorta
di
rimozione,
si
voleva
scordare
il
drammatico
passato
e
ricominciare,
analogamente
a
quanto
succederà
dopo
la
seconda
guerra
mondiale,
e
così
si è
finito
per
archiviare
la
guerra
e
dimenticare
la
pandemia;
ma
questi
due
tragici
avvenimenti
hanno
impresso
ineluttabilmente
“un’accelerazione
ai
cambiamenti
avvenuti
nella
prima
metà
del
Novecento”,
e
hanno
contribuito
a “dare
forma
al
mondo
che
conosciamo”.
Riferimenti
bibliografici:
A.
Cionci,
“Il
mistero
dell’influenza
Spagnola
del
1918:
la
pandemia
uccise
10
milioni
di
persone
in
due
anni”,
in
La
Stampa
del
23/01/2018.
E.
Tognotti,
“La
terribile
febbre
spagnola,
prima
pandemia
moderna”,
in
La
Nuova
Sardegna
del
3/06/2015.
K.R.
Short,
K.
Kedzierska
and
C.E.
van
de
Sandt,
“Back
to
the
future:
Lessons
Learned
From
the
1918
Influenza
Pandemic”,
in
Frontiers
in
Cellular
and
Infection
Microbiology
del
8/10/2018.
L.
Spinney,
1918.
L’influenza
spagnola.
La
pandemia
che
cambiò
il
mondo,
Marsilio,
Venezia
2017.