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N. 93 - Settembre 2015 (CXXIV)

uNA DECAPITAZIONE DA MANUALE
PALMIRA E IL SUO CUSTODE

di Filippo Petrocelli

 

Quel che resta di Khaled al-Asaad sono le prime pagine dei giornali di un agosto infuocato e qualche foto d’agenzia.

 

Il custode degli scavi di Palmira in Siria per oltre cinquant’anni, è stato dimenticato da tutti, appeso alla colonna della “sua” Palmira, dove i miliziani di Is lo hanno legato e decapitato il 18 agosto 2015 di fronte al Museo di Tadmor, quello della “città nuova”, per esporlo al popolo, alla umma ovvero alla “comunità musulmana” cui idealmente lo Stato islamico si rivolge.

 

Un tempo si sarebbe detto “colpirne uno per educarne cento”, oggi invece si potrebbe chiamare commercializzazione della paura e sensazionalismo della morte, una macabra strategia di propaganda degli uomini del Califfato.

 

Perché questo tipo di spettacolarizzazione della violenza, di macabro maquillage dell’efferatezza è in primis una strategia ragionata e mirata alla pancia del pubblico mondiale. È così che lo Stato islamico ha deciso di colpire al cuore la società materialista dell’Occidente e quella “corrotta” arabo-islamica: l’obiettivo è terrorizzare nell’immaginario tutti i nemici.

 

Le esecuzioni diventano un set cinematografico con tanto di effetti speciali e messaggi subliminali, confezionate come un film d’azione uscito da uno studios americano, con lo stesso linguaggio espressivo e canoni estetici identici (il machismo, la retorica bene-male, la missione divina, la benevolenza del potere). Oltre l’atto omicida diventa quindi fondamentale comprendere il significato occulto di queste condanne a morte, che sono oltreché omicidi, messaggi di pura propaganda.

 

E il caso di Khaled al-Asad, ottantenne studioso di livello internazionale al punto da scomodare necrologi e costernazioni pubbliche da parte del mondo accademico mondiale, in questo senso è emblematico.

 

L’importante archeologo non è stato giustiziato solo perché membro del partito Baath, né perché un’apostata sciita “partigiano” del regime, come scritto sul cartello lasciato appeso sul cadavere. Tantomeno perché intellettuale organico all’entourage baathista, membro di quella ristretta elite culturale da sempre vicina agli Assad.

 

Piuttosto la sua esecuzione è stata determinata dal ruolo svolto e il perno attorno al quale ruota tutta la vicenda è il sito di Palmira.

 

Gli uomini di Isis hanno conquistato la città nel maggio 2015, ma già da un paio di anni, si parla dell’abilità del Califfato nel traffico di opere d’arte, visto che un’enorme quantità di manufatti è stata rinvenuta nei mercati mondiali dallo scoppio della guerra in Siria. Persino le agenzie internazionali come l’Unesco si sono accorte del saccheggio in atto e hanno invocato il rischio di cultural cleansing, lanciato da Irina Bokova all’alba della tragedia siriana e dei rischi collaterali che correvano importanti scavi archeologici dell’antica Mesopotamia.

 

In realtà le voci si inseguono e sembra che la vera motivazione dell’esecuzione sia una ritorsione, una semplice vendetta. Vendetta contro l’uomo che rapito nel luglio 2015 ha saputo resistere alle torture degli sgherri di al-Bagdadi, il califfo dell’Is, senza mai confessare dove si trovassero importanti reperti, opportunamente nascosti prima dell’arrivo degli uomini del Califfato, da maggio padroni delle rovine di Palmira.

 

Perché oltre i proclami e le distruzioni di siti archeologici e la furia iconoclasta mostrata in alcuni video, lo Stato islamico in realtà è il vero burattinaio del mercato illegale di reperti trafugati e capitalizza come una società per azioni il saccheggio del Levante, il cui traffico di reperti è stimato intorno agli 8 miliardi di dollari.

 

Sembra addirittura che alcune delle statue distrutte dagli uomini del Califfato nei video che hanno fatto il giro del mondo immortalando la profanazione dei siti di Hatra, Nimrud e Mosul – in Iraq – così come alcuni reperti distrutti a Palmira, fossero invece dei fac-simile e che la distruzione sia stata realizzata ad arte solo per costruire immagini d’impatto.

 

Quello che maggiormente interessa lo Stato islamico è il traffico delle antichità: via Turchia i manufatti raggiungono i mercati mondiali e rappresentano una delle principali fonti di sostentamento per l’organizzazione. E così torniamo al livello di “messinscena” e fiction che terrorizza più della realtà stessa, in una perfetta logica da “società dello spettacolo”, dove si confondono presunti valori e business.

 

In realtà il 20% dei siti iracheni è sotto controllo di Is così come i più importanti scavi siriani. Al-Bagdadi ha bisogno di mostrarsi solerte contro tutto ciò che è idolatria, soprattutto nell’era pre-islamica, per mostrarsi conforme a una certa tradizione dell’Islam delle origini. Ma ha ben chiaro allo stesso tempo il potenziale economico di tutte quelle antichità.

 

Lo Stato islamico agisce infatti come una holding, offrendo infrastrutture e applicando tasse ai “tombaroli autonomi” come già ricordato in un articolo di questa rivista Tombaroli con turbante, uscito nel numero di gennaio 2015. Il denaro resta una priorità anche per la guerra dell’Is.



 

 

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