[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 207 / MARZO 2025 (CCXXXVIII)


arte

palma da dattero e arte bizantina
tra iconografia E botanica

di Giuseppe Russo


La palma da dattero (Phoenix dactiylifera L.) è – insieme a melograno, vite, fico e olivo – la pianta fondante della frutticoltura, fin dagli albori della Mezzaluna fertile. Alla considerazione in cui veniva tenuta per il valore nutritivo e la resistenza ai trasporti e alla conservazione dei suoi frutti, si aggiungeva l’idoneità a moltiplicarsi per polloni (privilegiando ovviamente le piante femminili e limitando il numero delle maschili), non affidandosi alla propagazione per seme, che avrebbe comportato parità numerica tra i sessi e, quindi, uno spazio eccessivo dedicato alle improduttive piante maschili. Trattandosi, quindi, di specie dioica, con i due sessi distinti su esemplari diversi, era necessario comunque propagare non solo piante femminili (le uniche in grado di produrre datteri) ma anche maschili, che assicurassero l’impollinazione. In natura, essa avviene prevalentemente con il vento, mentre in coltura è preferibile affidarsi all’impollinazione artificiale per mano dell’uomo. In tal caso per fecondare cento piante femminili è sufficiente la presenza di due-quattro maschili dalle quali prelevare il polline. Ancora oggi le infiorescenze maschili sono oggetto di contrattazione in alcuni mercati e, una volta acquistate, vengono suddivise in rametti da strofinare sulle infiorescenze femminili.

 

La palma da dattero non è solo una coltura di base per milioni di persone, ma svolge anche un ruolo culturale in molte religioni. Si pensa che sia stata coltivato per la prima volta ben oltre 6000 anni fa in Medio Oriente, ma i datteri sono ancora oggi consumati in tutto il mondo. Nel 2021 sono state raccolte 9,6 milioni di tonnellate di datteri, di cui quasi il 20% solo in Egitto. Ci sono dozzine di varietà di palma da dattero coltivate (cultivar) in tutto il mondo, tra cui la Medjool che produce frutti grandi e dal sapore caramellato e la Deglet Noor che produce frutti con una consistenza più soda e un sapore più delicato. La palma da dattero raggiunge un'altezza di circa 20-30 metri e il suo fusto, formato da vecchie basi fogliari, è sormontato da una corona di foglie. Si tratta di foglie lunghe e appuntite e lucide che crescono fino a circa 5 metri di lunghezza. Le spighe dei fiori crescono dal punto in cui le foglie si uniscono allo stelo; i fiori maschili e femminili crescono su piante diverse e sono impollinati dal vento, ma nella coltivazione questo tende ad essere fatto a mano. Il frutto, noto come dattero, varia per forma, dimensione e colore tra le varietà, anche se generalmente sono di forma scura e ovale. Più di 1.000 datteri possono crescere in un singolo “cluster”. La palma da dattero è un albero e cresce principalmente nel bioma subtropicale. Ha usi ambientali e usi sociali, come cibo per animali, medicina, carburante e cibo (Kew Royal Botanical Gardens, web source).

 

Le palme da dattero caratterizzavano le vallate del Medio Oriente (si parla di boschi) e la tecnica intorno alla coltivazione era particolarmente raffinata. I datteri molto utilizzati come frutto da conservazione e veniva posta attenzione a quali alberi destinare alla raccolta (Goor, 1967). Stessa attenzione era destinata alle varietà di dattero, concetto agronomico emerso soprattutto in epoca romana. E’ particolarmente plausibile che questa forte realtà ambientale in un sistema conservativo dal punto di vista bioculturale (Maffi, 2007), abbia influenzato la capacità dei maestri e degli artisti che hanno rappresentato ciò che vedevano o anche soltanto la loro idea di elemento naturale. La palma da dattero riassume tutti i fondamenti della geografia culturale, in quanto legata alle radici intellettuali dell’uso della terra ma anche ideale caso di studio per gli ecologi culturali contemporanei, in quanto nesso di interrelazioni, demografia, agroecologia e gestione delle risorse (Butzer, 1994).

 

Cappadocia

 

La palma dipinta nella nicchia aperta all’esterno Sud dell’abside meridionale della Chiesa dei Quaranta Martiri di Sebaste a Şahinefendi (Giovannini, 1971) ha il ramo della palma più vicino all’osservatore. In passato la forma contratta ha portato a identificarlo con un fiore e solo in anni recenti il soggetto vegetale di Şahinefendi è stato identificato come palma da dattero (Menna, 2020). Gli Ittiti si insediarono in Anatolia e in particolare in Cappadocia, creando un precedente per quanto riguarda l’iconografia della palma da dattero. Il bassorilievo della donna che allatta si trova presso le Mura Occidentali dell’ultima fortezza ittita di Karatepe, una forma molto essenziale, rispetto a rappresentazioni più antiche, con tronco molto slanciato. Questa caratteristica in particolare è opposta alla evidente brevità del tronco della palma di Şahinefendi e presumibilmente l’autore avrebbe potuto avere a disposizione molto spazio per rappresentare quel determinato modello ittita. Ciò palesa la possibile intenzionalità nel rappresentare tale forma contratta. Inoltre, questa rappresentazione mostra un cluster datterifero rosso, laddove in epoca coeva le rappresentazioni iconografiche del dattero in aree di influenza bizantina sono di color giallo. La chiesa dei Quaranta Martiri di Şahinefendi ha avuto quattro fasi decorative e la palma da dattero rappresenta la prima, databile VI sec. d.C. (Andaloro, 2020). La seconda si cela nella calotta della stessa abside dove, al di sotto dell’Ascensione che oggi costituisce lo strato visibile, affiorano tracce di una decorazione intermedia, dall’iconografia simile a quella dello strato superiore, riconoscibile nei volti di alcuni apostoli che traspaiono in forma di ombre. La terza campagna comprende l’intervento più ampio e significativo all’interno della chiesa, esteso su ambedue le navate e le absidi e caratterizzato figurativamente dalla presenza del Martirio dei Quaranta Martiri di Sebaste, santi ai quali è dedicata la chiesa.

 

Infine, la più recente delle campagne, la quarta, include le figure di santi nel vano che ospita un’iscrizione e la scena della Crocifissione nella nicchia aperta nella navata nord ed è proprio a questo intervento limitato che deve essere riferita la data del 1216-1217. Nell’iscrizione si afferma che la chiesa, dedicata ai Quaranta Martiri di Sebaste, venne rinnovata per volontà dello ieromonaco Macario e per mano del monaco-pittore Ezio sotto il regno dell’imperatore Teodoro Lascaris nell’anno 6725 dell’era bizantina, vale a dire nel 1216-1217. La presenza di quattro campagne pittoriche succedutesi nell’arco di un tempo molto ampio, che si ritiene compreso fra la stagione delle origini della pittura in Cappadocia, agganciabile al periodo VI-VII e IX secolo (I fase), e quella conclusiva, del XIII secolo (IV fase), passando per l’XI secolo (III fase e forse anche II), testimonia la lunga frequentazione della chiesa e la sua vitalità. La volta della navata nord e l’abside della Chiesa dei Quaranta Martiri a Şahinefendi, dipinte rispettivamente con il Martirio dei Quaranta Martiri di Sebaste e la Deesis. In seguito alla loro pulitura, le pitture mostrano un aspetto smagliante grazie al loro ottimo stato di conservazione, come rivela il brano dell’arcangelo Gabriele dalle stesure tuttora intatte e cromaticamente ancora assai ricche (Andaloro, 2020).

 

Nella chiesa dei Santi Gioacchino ed Anna (area di Kızılçukur, la “valle rossa”; VI-VII sec. d.C.) troviamo una raffigurazione della palma da dattero, in particolare nel caso del “giardino e del giardiniere”. Del primo a destra rimane solo la chioma molto stilizzata, ma non vi è dubbio sia una palma da datteri: ha lunghi rami di forma e spessore diversi disposti specularmente, di colore rosso alternato a verde e ocra, e uno stelo centrale che termina in alto con foglie più piccole. La lunetta occidentale della cappella meridionale della Chiesa dei Santi Gioacchino e Anna raffigura dunque un giardino con alberi fruttiferi e sempreverdi: una palma da datteri, due cipressi, mentre il terzo albero dalle foglie allungate e dai frutti rossi potrebbe essere identificato con il sicomoro, albero sacro tanto per le religioni orientali quanto per la religione cristiana e ricordato ripetutamente nella Bibbia; a esso si ricorre per raffigurare l’“albero della vita” caro alla tradizione persiana.

 

La raffigurazione degli alberi acquista particolare rilievo fra i secoli V e VI nei mosaici pavimentali di Siria e Palestina. Allo stesso modo i tessuti della rinascenza macedone presentano sequenze di alberi, distinguibili dal tipo di foglia e dalla forma dei frutti, identificabili come pero, melo, fico, melograno, loto, proseguendo dunque la tradizione orientale del giardino funerario con alberi fruttiferi, giardino che accompagna il defunto nella vita dell’aldilà. Non vi è dubbio che nella Chiesa dei Santi Gioacchino e Anna siamo di fronte al caso di un giardino funerario (Menna, 2020). Per quel che riguarda il “giardiniere”, vestito con abito a losanghe, probabilmente un aristocratico locale, si nota il defunto-giardiniere con il secchiello e la bacchetta che compie un’azione molto particolare: la “fecondazione artificiale” delle palme da dattero, che consiste nel raccogliere il polline della palma maschile per fecondare la palma femminile. Questo gesto nell’antichità aveva un forte significato simbolico, legato alla prosperità e all’armonia con la natura; in epoca assira è il re stesso, o una divinità o un genio alato a essere raffigurato nell’atto di impollinare le palme. Infatti, nell’antica religione assira, ascrivibile all’area della Mesopotamia, una palma da dattero è l’albero del mondo che connette il Paradiso alla Terra (De Champeaux e Sterckx, 1984): dai bassorilievi del palazzo reale di Assurnasirpal II, a Nimrud, capitale mesopotamica, presenti al British Museum di Londra, si evince il ruolo divino nel donare all’uomo attraverso la palma e in particolare utilizzando l’impollinazione, raffigurando anche un mullilu che in lingua assira significava “purificatore”, molto simile a quello del giardiniere della chiesa cappadoce. Ciò è evidente nella gerarchia legata alle figure e sottolinea un gesto attivo, univoco, che collega umano e divino soltanto in una direzione. Il tema ben si accorda con il concetto di giardino funerario, avente evidenti legami con la cultura persiano-sasanide. Risulta altresì interessante la figura del giardiniere nell’ambito della cultura monastica bizantina, dove rappresenta il livello più basso di alfabetizzazione del monaco e base per ascendere alla conoscenza spirituale. Infatti, solo dopo cinque anni di lavoro manuale avrebbe ricevuto i rudimenti per la lettura e la scrittura (Talbot, 2002).

 

Dunque il paradigma dagli assiri alla cultura bizantina risulta ribaltato: non dal divino all’umano ma dall’umano verso l’ascetismo spirituale. In tal senso, nel rovescio del trittico eburneo di Harbaville (metà del X sec. d.C.), oltre a fenici tra il fogliame della palma, per le quali è stata evidenziata la loro origine iconografica dalla Cina o dalla Persia sasanide (Concina, 2002), è anche raffigurata la Croce, iconologicamente simbolo di vita eterna e in particolare vi sono rampicanti su essa due cipressi che si piegano puntando il centro, a rappresentare un giardino paradisiaco con cielo stellato sullo sfondo. La parte apicale lanceolata della palma stilizzata del giardino funerario della chiesa dei Santi Gioacchino ed Anna richiama i bassorilievi di palma nell’Ara Pacis datati 13-9 a.C. (poche specie sono rappresentate in maniera ricorrente). Foglie uncinate attribuite a P. dactylifera L., la cui simbologia si riferisce a divinità orientali quali Apollo, che con la gemella Artemide secondo la leggenda nacque all’ombra di una palma da dattero (Caneva, 2010). Essa simboleggia anche la vittoria e Roma stessa e l’arte della manodopera suggerisce provenienze pan-mediterranee (“composizioni fantastiche di elementi veri”; Caneva, 2010). Sette secoli dopo troveremo Gesù Cristo nascere all’ombra di una palma, come riportato nel Corano; in quella scena la Vergine Maria percuote il tronco della palma ottenendo datteri per il nutrimento (“Maria diede alla luce Gesù nella solitudine, vicino a un tronco di palma. Disse: ‘Oh Maria, tutto il potere è in te. Tira verso di te questo albero secco, ritroverà la vita e manderà su di te i datteri freschi’” - Sura 19:25). I padri cappadoci continuano o rafforzano la simbologia legata alla palma da dattero (“Se ti recherai nel deserto egiziano, lo vedrai trasformato nel più dolce Paradiso” - Giovanni Crisostomo, IV-V sec. d.C.), anche attraverso il periodo iconoclasta (730-842 d.C.), che nelle sue espressioni si propone come avverso al monachesimo iconodulo.

 

Nella chiesa n. 3 di Balkan Deresi, presso Nevşehir, tra Ibrahimpasa e Ortahisar, quasi completamente crollata, una palma da dattero simile al “modello ittita”, albero della vita, è scolpita al di sopra una croce circondata da una corona. Inoltre, una croce e palmizi sono scolpiti anche nel soffitto della chiesa di Güllüdere (= Valle delle Rose). Ornamenti di questo tipo, in cui predomina la croce, sono stati spesso attribuiti all’epoca iconoclasta; in effetti i Cappadoci avevano una particolare venerazione per la croce in particolare per la Croce trionfale della Passione (Giovannini, 1971). Infatti, l’usanza di dipingere o scolpire grandi croci sulle volte o sui soffitti delle chiese è caratteristica dell’iconografia cappadoce primitiva, di molto anteriore all’iconoclastia, e persistente fino al X secolo d.C. (Giovannini, 1971). Il complesso di Balkan Deresi comprende cinque chiese, celle per monaci e stanze a più piani. La sua architettura peculiare e l’ambiente sereno lo rendono una destinazione di grande interesse. Le chiese di Balkan Deresi sono facilmente accessibili ma raramente visitate. Le chiese 1, 2 e 3 si trovano in un cono vulcanico isolato a Est, mentre la chiesa 4 (di San Basilio) è situata nella sezione occidentale. Un cono eroso a Ovest della chiesa 4 ha la pianta di una chiesa a navata singola, la quinta del complesso. Le chiese, posizionate oltre le sezioni abitative principali e circondate da numerose tombe, suggeriscono che fossero principalmente destinate alla sepoltura dei defunti. La rappresentazione della palma scolpita non permette di fare considerazioni sui colori, come nel caso di Şahinefendi; ma è possibile ascrivere il modello della palma di Balkan Deresi a quello presente nella chiesa dei Santi Gioacchino ed Anna e non a quello compatto della chiesa dei Quaranta Martiri di Sebaste.

 

La palma da datteri nella Chiesa dei Quaranta Martiri a Şahinefendi possiede fortunatamente cromia rispetto ai bassorilievi antichi: questo permette di identificare il dattero con lo stadio Rutab o Tamr (in iracheno) o una varietà dal frutto maturo di colore vermiglio (Al-Shwyeh, 2019; Ghnimi et al., 2017; Chao e Krueger, 2007). L’unica cultivar presente in Turchia e dal colore marrone scuro è la Datça, originaria dalla regione Mugla (penisola di Datça, sul mar di Creta). In particolare, si tratta della specie relitta Phoenix theofrastii (Vardarelli et al., 2019; Hazir e Buyukozturk, 2013) e non P. dactyilifera, in quanto genere endemico nell’attuale Turchia, Grecia e isola di Creta. Insieme alla palma nana (Chamaerops humilis L.), di maggiore distribuzione, la “palma di Creta” rappresentava la foresta del bacino mediterraneo. Di recente, anche se non ancora ascritta a un taxon, si è anche distinta la sottospecie P. theofrasti Gö lkö (Hazir e Buyukozturk, 2013). La sua altezza, limitata rispetto a P. dactylifera (10-15 m rispetto a 20-30 m) potrebbe essere più di un indizio, che distinguerebbe il modello ittita (quindi identificabile con P. dactylifera L.) da quello della nicchia di Şahinefendi. Non sappiamo se la scarsa altezza del fusto sia indicativa di una pianta giovane e quindi evidentemente precoce; ma risulterebbe inusuale una rappresentazione di una palma così poco slanciata rispetto a quelle coeve nell’iconografia. Inoltre è interessante sapere che le varietà di palma da dattero domestica (P. dactylifera L.) del Nord Africa, tra cui le celebri Medjool e Deglet Noor, sono un ibrido tra le palme da dattero del Medio Oriente e P. theophrasti (Vardarelli et al., 2019). Questo elemento getta nuova luce sulla dinamicità della specie dal punto di vista della sua diffusione pan-mediterranea, ma anche del “concetto” di palma nella mente degli artisti bizantini. Inoltre, il cluster di colore marrone scuro sembra indicare una precisa scelta naturalistica da parte dell’artista. Infatti, la rappresentazione di una palma con frutto poco o per nulla edibile come nel caso di P. theofrasti allontana l’intento simbolico e spirituale della rappresentazione, spesso legata alla vita monastica e all’impatto ambientale che essa ha potuto svolgere (Talbot, 2002) ascrivendola invece a una memoria o luogo di origine vicino alla costa.

 

Le rappresentazioni della palma nella chiesa dei Santi Gioacchino e Anna e nella chiesa n.3 di Balkan Deresi sono riferibili a P. dactylifera in quanto nel primo caso è ascrivibile a giardino funerario-paradisiaco, mentre nel secondo la rappresentazione è molto slanciata come nel modello ittita. Va ricordato che, nonostante la Cappadocia sia un patchwork agro-ecologico complesso e potenzialmente produttore di multiservizi, “memore” di un’identità bioculturale (Maffi, 2007), la palma da dattero non ne fa parte (Barbera, 2020). In particolare, nel caso della chiesa dei Santi Gioacchino ed Anna, il cosiddetto “giardiniere” esplica la pratica dell’impollinazione inducendo a pensare che la palma era destinata a fini alimentari su scala più ampia che la sussistenza monastica (Talbot, 2002). E’ difficile stabilire se la rappresentazione della palma è quella di una specie nana o il giardiniere è rappresentato in grandi dimensioni, come nella tradizione assira o ittita, ma resta più plausibile la seconda ipotesi. La palma da dattero è una pianta diploide (2n=36), perenne, monocotiledone (Chao e Krueger, 2007); ha sessi separati (pianta dioica) e i fiori, dimorfici sessualmente, sono protetti da “spate” per proteggerli da caldo e raggi solari. Per l’impollinazione artificiale, che ha un vantaggio maggiore sulla riproduzione rispetto all’entomofilia o all’anemofilia, ai giorni nostri si applica sulle piante giovani, anche se poi mediamente devono trascorrere sette anni per poter consumare i frutti. Già nell’antichità doveva essere noto che il rapporto ottimale di piante maschili e femminili di circa 1 a 50.

 

Sicilia normanna

 

Nella Sicilia normanna dei secoli IX-XI, presso Palazzo Bellomo di Siracusa e la Sala della fontana del Palazzo della Zisa a Palermo, una residenza estiva, la rappresentazione della palma da dattero assume nel primo caso un’accezione regale e stilizzata, con ramo apicale lanceolato che ricorda i casi già analizzati della chiesa dei santi Gioacchino ed Anna e quindi dell’Ara pacis, mentre nel secondo assume dei riferimenti all’albero della vita (Pinelli, 2012), nelle tre raffigurazioni presso la fontana di manifattura bizantina. Sotto una decorazione a muqarnas la palma da dattero sovrasta due pavoni nelle raffigurazioni laterali, mentre in quella centrale, probabilmente raffigurante un banano, vi sono due cacciatori con arco. Probabilmente in questo caso si perde la connotazione funerario-paradisiaca per lasciare il posto ad altra simbologia più legata al pavone. Infatti nel contesto cristiano, il pavone rappresenta la ruota solare e simboleggia l’immortalità: La sua coda evoca il cielo stellato e la visione beatifica ed è possibile dargli un’accezione fortemente regale e cosmica invece che legarlo all’albero della vita. Piume di pavone compongono la toupha della colossale statua equestre bronzea di Giustiniano I (o Anastasio I), come riporta il disegno di Ninphyrios del XV secolo. Essa era collocata nell’Augusteion, tra Santa Sofia e il Grande Palazzo (Concina, 2002). Quest’opera rappresenta il massimo simbolo del potere giustinianeo che guarda intimidatorio e armato della sola mano e globo crucigero a Oriente (Persia sasanide), in un’estetica rappresentazione tardo-antica del potere (543 d.C.). A conferma che si trattassero di piume di pavone, vi è il calco del medaglione aureo cappadoce (Cesarea), presso il British Museum di Londra.

 

Nella Sala di Ruggero II (Palazzo dei Normanni, Palermo, 1132 d.C.; colonnine angolari delimitano alti rivestimenti in marmo sovrastati da ampie superfici a mosaico di grande pregio raffiguranti elementi vegetali (palme e banani) e scene di carattere aulico e venatorio, simboli del potere normanno. Sono raccontate con grande dedizione nell'esecuzione battute di caccia con arcieri e cervi, rappresentati pavoni, cigni, oltre i mitologici centauri, grifi e altri animali esotici tra cui leopardi e tigri fra lussureggiante vegetazione, sottile allusione al Parco del Genoardo (da gennat al-ard, il Paradiso della Terra), che racchiudeva il Palazzo della Zisa, tutto nel tentativo di mostrare un'allegoria della corte normanna. Diversamente le rappresentazioni della palma da dattero mediorientali di cui il mosaico di Sant’Ilarione di Gaza (V sec. d.C.) ne è un esempio, vedono la presenza di animali; nel caso di Sant’Ilarione essi “puntano” ai cluster dattiliferi e sono allegoria dei popoli del mondo (Champeaux e Sterckx, 1984). Caratteristiche sono le figure a coppie simmetriche e speculari, arabeschi e girali dall'effetto caleidoscopico immersi in motivi fitomorfi e zoomorfi. Le raffinate rappresentazioni dai canoni sontuosi ma con accenti di rigidità, delineano la chiarissima matrice greco-bizantina dell'opera combinata con l'influenza pittorica dell'Oriente persiano. E’evidente la somiglianza con la rappresentazione vista nella fontana del Palazzo della Zisa (arcieri, pavoni e piante di banano). I due animali che si fronteggiano al di sotto del banano sono cervi nobili (Cervus elaphus L.) e ricordano le due gazzelle (Oryx gazella L.) presenti nel mosaico della basilica del Monte Nebo animali endemici dell’Africa e quindi riferibili all’area di origine della palma da dattero. Nei mosaici della sala di Ruggero II è possibile notare piccole piante che crescono ai piedi delle palme e dei banani e che la corteccia degli alberi, inclusa una terza tipologia nella parte inferiore della lunetta, è rappresentata in maniera molto simile.

 

La Cappella di S. Pietro, annessa al Palazzo Reale di Palermo (Cappella palatina, conclusa nel 1140 d.C.) fu decorata a mosaico da almeno due gruppi di maestranze provenienti dalla Bisanzio dei Comneni. In particolare un mosaico mostra una forte assonanza con un altro avente lo stesso soggetto (Ingresso di Gesù a Gerusalemme) che si trova presso Monastero di Daphni (Atene, XII sec. d.C.) ed è riconducibile al primo gruppo di maestranze bizantine, rispetto a un secondo gruppo, successivo, che appare impegnato anche nell’abside e nel presbiterio del duomo di Cefalù. In entrambi spicca la palma da dattero all’ingresso di Gerusalemme; nel caso di Atene essa appare meno raffinata e realistica. In queste rappresentazioni la corteccia della palma assume una forma completamente diversa rispetto agli altri casi della Sicilia normanna (scaglie rettangolari disposte lungo il lato più breve nel caso della Cappella palatina; a polloni quasi selvatici nel caso di Atene) e porta a diverse considerazioni su questo elemento anatomico della pianta.

 

La palma da dattero si ritrova anche nel mantello per l’incoronazione di Ruggero II, conservato al Kunsthistorisches Museum (Vienna, Austria, 1133-1134 d.C.). Il manto purpureo in seta rossa è costituito da oro, perle e smalti. Esso raffigura al centro l’albero della vita su entrambi i lati si notano alcuni leoni che divorano dei cammelli. Nel bordo inferiore invece, dove si legge “anno 548 dell’Egira”, è visibile un’iscrizione in caratteri cufici. Esiste anche una fodera, più antica, di fattura siciliana. I bordi, visibili a manto aperto raffigurano l’albero della vita e due figure intorno ad esso, solitamente identificate con Adamo ed Eva (Hattstein e Delius, 2001). Nel primo caso la palma porta ben visibili i clusters, sullo stesso genere visto nella Cappella Palatina (anche se in tal caso sono tre e non quattro); inoltre i due inferiori assomigliano alla parte finale della coda dei leoni. Colpisce il fatto che le foglie della palma da dattero siano rappresentate come nell’Ara pacis in maniera uncinata.

 

Gli ambienti della Zisa e della stanza di Ruggero II rappresentano favole venatorie nell’intenzione di mostrare all’osservatore i piaceri della corte (non è da escludere l’idea che si tratti di una sala per il pranzo). Non a caso, si tratta di due ambienti legati ad architetture civili e in quanto tali aventi connotazione diversa rispetto alla Cappella Palatina. Nel palazzo della Zisa i medaglioni riportano rappresentazioni che esaltano i singoli elementi in una simmetria estetica, mentre nella stanza di Ruggero II la composizione assume una valenza più complessa e di realtà agro-ecologica, pur conservando le caleidoscopiche simmetrie del primo caso. Nella sala è ravvisabile, seppur molto scomposta nei suoi elementi, la rappresentazione del sistema oasistico o “giardino”.

 

La palma da dattero si intreccia al concetto di oasi; questa parola è giunta a noi attraverso i Greci, poco modificata, e poi ripresa da alcuni autori arabi. Oggi, molto spesso e in maniera poco esatta, è utilizzata per indicare un palmeto di datteri anche se molte oasi continentali fredde (come le oasi sulla Via della Seta in Cina, ma ecologicamente anche la Cappadocia) o costiere non hanno un palmeto da dattero (Toutain et al., 1998): la Cappadocia potrebbe considerarsi un esempio attinente in quanto non vi cresce la palma da dattero ma rappresenta un macrosistema agro-ecologico altamente conservativo nel quale il processo che lo ha creato è lento, con pochi periodi di cambiamento e lunghe fasi di consolidamento (Barbera, 2020). Utilizzata dal geografo Erodoto (Libro 111, Thalia) intorno al 450 a.C., la parola oasi deriva dall'antico egizio; la stessa parola si trova in copto e libico-berbero e originariamente significava “luogo abitato” (oikos in greco significa “dimora”). Erodoto utilizzò il termine oasi per descrivere l'insediamento di Kharga in Egitto (Toutain et al., 1998).

 

Negli agro-ecosistemi delle oasi la palma da dattero costituisce la specie chiave, il livello superiore del sistema agronomico oasistico o “giardino” (Tengberg, 2012): le palme possono raggiungere i 20-30 metri di altezza e con le loro grandi fronde fanno ombra alle piante più basse, oltre a produrre frutti ricchi di zuccheri e vitamine. Altri alberi da frutto di solito formano un secondo livello al di sotto delle palme. Questi possono appartenere a varie specie a seconda delle condizioni, delle tradizioni e dei gusti locali. Gli alberi da frutto che si incontrano spesso nei palmeti del Medio Oriente sono il fico (Ficus carica L.), il melograno (Punica granatum L.), la spina di Cristo (Ziziphus spinachristi L.), il banano (Musa paradisiaca L.), il mango (Mangifera indica L.), la papaya (Carica papaya L.) e vari agrumi. Nel caso della stanza di Ruggero II, il banano è identificabile nella parte superiore della lunetta, con le sue foglie ampie; le proporzioni non sembrano rispettate (il banano è una finta pianta arborea, botanicamente erbacea, dal “picciolo” simil fusto alto massimo 9 m). Sia banano che palma da dattero presenterebbero la stessa corteccia, con la differenza che quella rappresentata nel mosaico corrisponde realmente a quella del banano. Nella lunetta inferiore, vi è invece una terza tipologia di pianta, avente sempre lo stesso modello omologato di corteccia (ma con un elemento che richiama a una foglia giovanile sul tronco), che potrebbe rappresentare lo Ziziphus spinachristi L. L’autore avrebbe rappresentato in maniera fedele la morfologia fogliare, semicircolare, lateralmente e a livello apicale, con nervature radiali, ma senza voler rispettare le proporzioni, piegando alle sue esigenze artistiche elementi che però sono naturalisticamente reali. La pianta arborea tra le due gazzelle che si scrutano, sembra una rappresentazione ibrida immaginaria. La natura della decorazione musiva della stanza di Ruggero II appare di lettura certamente non uniforme dal punto di vista iconografico, ma con un intento più rappresentativo dal punto di vista naturalistico di quanto possa sembrare. In ultimo, né ZiziphusMusa sono presenti nel codice botanico augusteo, a dimostrazione del fatto che la loro associazione iconografica e' successiva all'epoca classica, come il sistema oasistico, le cui origini posso essere fatte risalire ai padri del deserto del IV sec. d.C. (Talbot, 2002).

 

Un elemento innovativo nei mosaici della stanza di Ruggero II è la rappresentazione, ai piedi delle piante arboree, di piante erbacee. Non casualmente il sistema oasistico prevede un terzo livello, al di sotto delle piante da frutto, costituito da colture a bassa piantate o seminate in campi o appezzamenti che vengono periodicamente inondati. Si tratta per lo più di colture annuali, destinate all'alimentazione umana (cereali, legumi, ortaggi, piante oleaginose, aromatiche), al foraggio (cereali, varie leguminose, come l'alfa-alfa e le piante aromatiche, il trifoglio, piante erbacee), all'artigianato (piante tessili e tintorie) o ad altri scopi (piante medicinali e tintura). Con un apporto costante e regolare di acqua si possono ottenere diversi raccolti annuali grazie alla crescita alternata di colture invernali fredde ed estive (Tengberg, 2012).

 

Nella pianta di San Gallo, commissionata dall’abate Gozberto (816-829 d.C.) il cimitero coi frutteti aveva al centro la croce (Cricco, Di Teodoro, 2016; Ferraiuolo, 2017), definita proprio “albero della vita”, così come è da considerarsi la palma da dattero, sia nel sistema oasistico che nell’iconografia mediorientale, legata a sua volta al concetto di giardino, sia come simbologia che come sistema produttivo (Talbot, 2002). Dunque, appare chiaro il collegamento al giardino funerario-paradisiaco di cui si è citato a proposito della Cappadocia (Menna, 2020). E’possibile definire la rappresentazione della pianta di San Gallo un punto di riferimento dell’iconografia legata alla palma da dattero, nel suo legame col monachesimo occidentale. Ma quello che invece lega la pianta di San Gallo ai mosaici della stanza di Ruggero II è il modo in cui viene rappresentato e abbia scomposto il sistema oasistico/giardino (=orto + frutteto) nelle sue diverse componenti o livelli, come i giardini vegetale e delle erbe mediche. I giardini dei beduini attuali presso il monastero di Santa Caterina del Sinai in Egitto o quelli monastici presenti in Nord Africa (Talbot, 2002), sono “relitti” del sistema oasistico e richiamano alla sua forte conservatività, anche in maniera bioculturalmente identitaria (Maffi, 2007). In quanto elementi paesaggistici, i giardini oasistici sono anche una rappresentazione simbolica, non solo per ciò che è percepito dai gruppi sociali che li hanno realizzati, ma per quello che a quegli stessi gruppi è realmente servito (Hasson, 1996).

La palma rappresentata nella Cappella Palatina, fornisce informazioni sulla corteccia. Le stesse maestranze che hanno lavorato a Palermo, danno una rappresentazione diversa di questa parte. Nel caso di Daphni, la palma raffigurata è vicina morfologicamente a una Borassus aethiopum M., una palma di area tropicale che è nota anche al mondo arabo come daleib o deleib. Tuttavia, Non è possibile ritenere certa questa identificazione anche perché in alcuni casi la raffigurazione non è supportata dall’areale di distribuzione (ad esempio la palma tra le due gazzelle presso il Monte Nebo presenta la corteccia tipica della palma Bactris gasipaes che però è diffusa in Sud America). Nel caso di Borassus aethiopum M. l’identificazione spingerebbe molto a Sud il modello utilizzato dalle maestranze bizantine per la raffigurazione della palma. La corteccia della palma della Cappella Palatina a Palermo ha invece una rappresentazione stilizzata e questo aspetto sorprende, in quanto le maestranze bizantine sono identificate con le stesse dell’entrata a Gerusalemme nella chiesa di Daphni.

 

Conclusioni

 

Appare plausibile che nei casi evidenziati ci possa essere una rappresentazione reale o realistica degli elementi naturali rappresentati nell’arte medievale; il presente lavoro pone l’accento sulla palma da dattero, come pianta modello per supportare questa ipotesi. In accordo con Caneva (2010), si può parlare di “composizioni fantastiche ma di elementi veri”, concetto testimoniato anche da opere complesse e sistemiche come l’Ara pacis. Sia in architetture religiose (Cappadocia) che civili (Sicilia normanna), gli autori bizantini hanno trasformato la propria memoria naturalistica in immagine. I due casi di studio permettono di creare un modello di analisi transculturale e multidisciplinare che non solo fornisce un quadro esaustivo dell’argomento trattato, ma stimola riletture degli elementi naturalistici nelle opere e ulteriori indagini, pur suggerendo di incrociare il dato iconografico con quello botanico-naturalistico utilizzando la massima cautela.

 

Il presente lavoro è dedicato alla memoria del Dott. Fabio Ammar, collaboratore nelle missioni mediorientali del CNR IRET e della Fondazione Giovanni Paolo II, che l’autore ringrazia.

 

 

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