N° 207
/ MARZO 2025 (CCXXXVIII)
arte
palma da dattero e arte bizantina
tra iconografia E botanica
di Giuseppe
Russo
La palma da dattero (Phoenix
dactiylifera L.) è – insieme a
melograno, vite, fico e olivo – la
pianta fondante della frutticoltura,
fin dagli albori della Mezzaluna
fertile. Alla considerazione in cui
veniva tenuta per il valore
nutritivo e la resistenza ai
trasporti e alla conservazione dei
suoi frutti, si aggiungeva
l’idoneità a moltiplicarsi per
polloni (privilegiando ovviamente le
piante femminili e limitando il
numero delle maschili), non
affidandosi alla propagazione per
seme, che avrebbe comportato parità
numerica tra i sessi e, quindi, uno
spazio eccessivo dedicato alle
improduttive piante maschili.
Trattandosi, quindi, di specie
dioica, con i due sessi distinti su
esemplari diversi, era necessario
comunque propagare non solo piante
femminili (le uniche in grado di
produrre datteri) ma anche maschili,
che assicurassero l’impollinazione.
In natura, essa avviene
prevalentemente con il vento, mentre
in coltura è preferibile affidarsi
all’impollinazione artificiale per
mano dell’uomo. In tal caso per
fecondare cento piante femminili è
sufficiente la presenza di
due-quattro maschili dalle quali
prelevare il polline. Ancora oggi le
infiorescenze maschili sono oggetto
di contrattazione in alcuni mercati
e, una volta acquistate, vengono
suddivise in rametti da strofinare
sulle infiorescenze femminili.
La palma da dattero non è solo una
coltura di base per milioni di
persone, ma svolge anche un ruolo
culturale in molte religioni. Si
pensa che sia stata coltivato per la
prima volta ben oltre 6000 anni fa
in Medio Oriente, ma i datteri sono
ancora oggi consumati in tutto il
mondo. Nel 2021 sono state raccolte
9,6 milioni di tonnellate di
datteri, di cui quasi il 20% solo in
Egitto. Ci sono dozzine di varietà
di palma da dattero coltivate
(cultivar) in tutto il mondo, tra
cui la Medjool che produce
frutti grandi e dal sapore
caramellato e la Deglet Noor
che produce frutti con una
consistenza più soda e un sapore più
delicato. La palma da dattero
raggiunge un'altezza di circa 20-30
metri e il suo fusto, formato da
vecchie basi fogliari, è sormontato
da una corona di foglie. Si tratta
di foglie lunghe e appuntite e
lucide che crescono fino a circa 5
metri di lunghezza. Le spighe dei
fiori crescono dal punto in cui le
foglie si uniscono allo stelo; i
fiori maschili e femminili crescono
su piante diverse e sono impollinati
dal vento, ma nella coltivazione
questo tende ad essere fatto a mano.
Il frutto, noto come dattero, varia
per forma, dimensione e colore tra
le varietà, anche se generalmente
sono di forma scura e ovale. Più di
1.000 datteri possono crescere in un
singolo “cluster”.
La palma da dattero è un
albero e cresce principalmente nel
bioma subtropicale. Ha usi
ambientali e usi sociali, come cibo
per animali, medicina, carburante e
cibo
(Kew Royal Botanical Gardens, web
source).
Le palme da dattero caratterizzavano
le vallate del Medio Oriente (si
parla di boschi) e la tecnica
intorno alla coltivazione era
particolarmente raffinata. I datteri
molto utilizzati come frutto da
conservazione e veniva posta
attenzione a quali alberi destinare
alla raccolta (Goor, 1967). Stessa
attenzione era destinata alle
varietà di dattero, concetto
agronomico emerso soprattutto in
epoca romana. E’ particolarmente
plausibile che questa forte realtà
ambientale in un sistema
conservativo dal punto di vista
bioculturale (Maffi, 2007), abbia
influenzato la capacità dei maestri
e degli artisti che hanno
rappresentato ciò che vedevano o
anche soltanto la loro idea di
elemento naturale. La palma da
dattero riassume tutti i fondamenti
della geografia culturale, in quanto
legata alle radici intellettuali
dell’uso della terra ma anche ideale
caso di studio per gli ecologi
culturali contemporanei, in quanto
nesso di interrelazioni, demografia,
agroecologia e gestione delle
risorse (Butzer, 1994).
Cappadocia
La palma dipinta nella nicchia
aperta all’esterno Sud dell’abside
meridionale della Chiesa dei
Quaranta Martiri di Sebaste a
Şahinefendi (Giovannini, 1971) ha il
ramo della palma più vicino
all’osservatore. In passato la forma
contratta ha portato a identificarlo
con un fiore e solo in anni recenti
il soggetto vegetale di Şahinefendi
è stato identificato come palma da
dattero (Menna, 2020). Gli Ittiti si
insediarono in Anatolia e in
particolare in Cappadocia, creando
un precedente per quanto riguarda
l’iconografia della palma da
dattero. Il bassorilievo della donna
che allatta si trova presso le Mura
Occidentali dell’ultima fortezza
ittita di Karatepe, una forma molto
essenziale, rispetto a
rappresentazioni più antiche, con
tronco molto slanciato. Questa
caratteristica in particolare è
opposta alla evidente brevità del
tronco della palma di Şahinefendi e
presumibilmente l’autore avrebbe
potuto avere a disposizione molto
spazio per rappresentare quel
determinato modello ittita. Ciò
palesa la possibile intenzionalità
nel rappresentare tale forma
contratta. Inoltre, questa
rappresentazione mostra un
cluster datterifero rosso,
laddove in epoca coeva le
rappresentazioni iconografiche del
dattero in aree di influenza
bizantina sono di color giallo. La
chiesa dei Quaranta Martiri di
Şahinefendi ha avuto quattro fasi
decorative e la palma da dattero
rappresenta la prima, databile VI
sec. d.C. (Andaloro, 2020). La
seconda si cela nella calotta della
stessa abside dove, al di sotto
dell’Ascensione che oggi costituisce
lo strato visibile, affiorano tracce
di una decorazione intermedia,
dall’iconografia simile a quella
dello strato superiore,
riconoscibile nei volti di alcuni
apostoli che traspaiono in forma di
ombre. La terza campagna comprende
l’intervento più ampio e
significativo all’interno della
chiesa, esteso su ambedue le navate
e le absidi e caratterizzato
figurativamente dalla presenza del
Martirio dei Quaranta Martiri di
Sebaste, santi ai quali è dedicata
la chiesa.
Infine, la più recente delle
campagne, la quarta, include le
figure di santi nel vano che ospita
un’iscrizione e la scena della
Crocifissione nella nicchia aperta
nella navata nord ed è proprio a
questo intervento limitato che deve
essere riferita la data del
1216-1217. Nell’iscrizione si
afferma che la chiesa, dedicata ai
Quaranta Martiri di Sebaste, venne
rinnovata per volontà dello
ieromonaco Macario e per mano del
monaco-pittore Ezio sotto il regno
dell’imperatore Teodoro Lascaris
nell’anno 6725 dell’era bizantina,
vale a dire nel 1216-1217. La
presenza di quattro campagne
pittoriche succedutesi nell’arco di
un tempo molto ampio, che si ritiene
compreso fra la stagione delle
origini della pittura in Cappadocia,
agganciabile al periodo VI-VII e IX
secolo (I fase), e quella
conclusiva, del XIII secolo (IV
fase), passando per l’XI secolo (III
fase e forse anche II), testimonia
la lunga frequentazione della chiesa
e la sua vitalità. La volta della
navata nord e l’abside della Chiesa
dei Quaranta Martiri a Şahinefendi,
dipinte rispettivamente con il
Martirio dei Quaranta Martiri di
Sebaste e la Deesis. In
seguito alla loro pulitura, le
pitture mostrano un aspetto
smagliante grazie al loro ottimo
stato di conservazione, come rivela
il brano dell’arcangelo Gabriele
dalle stesure tuttora intatte e
cromaticamente ancora assai ricche (Andaloro,
2020).
Nella chiesa dei Santi Gioacchino ed
Anna (area di Kızılçukur, la “valle
rossa”; VI-VII sec. d.C.) troviamo
una raffigurazione della palma da
dattero, in particolare nel caso del
“giardino e del giardiniere”. Del
primo a destra rimane solo la chioma
molto stilizzata, ma non vi è dubbio
sia una palma da datteri: ha lunghi
rami di forma e spessore diversi
disposti specularmente, di colore
rosso alternato a verde e ocra, e
uno stelo centrale che termina in
alto con foglie più piccole. La
lunetta occidentale della cappella
meridionale della Chiesa dei Santi
Gioacchino e Anna raffigura dunque
un giardino con alberi fruttiferi e
sempreverdi: una palma da datteri,
due cipressi, mentre il terzo albero
dalle foglie allungate e dai frutti
rossi potrebbe essere identificato
con il sicomoro, albero sacro tanto
per le religioni orientali quanto
per la religione cristiana e
ricordato ripetutamente nella
Bibbia; a esso si ricorre per
raffigurare l’“albero della vita”
caro alla tradizione persiana.
La raffigurazione degli alberi
acquista particolare rilievo fra i
secoli V e VI nei mosaici
pavimentali di Siria e Palestina.
Allo stesso modo i tessuti della
rinascenza macedone presentano
sequenze di alberi, distinguibili
dal tipo di foglia e dalla forma dei
frutti, identificabili come pero,
melo, fico, melograno, loto,
proseguendo dunque la tradizione
orientale del giardino funerario con
alberi fruttiferi, giardino che
accompagna il defunto nella vita
dell’aldilà. Non vi è dubbio che
nella Chiesa dei Santi Gioacchino e
Anna siamo di fronte al caso di un
giardino funerario (Menna, 2020).
Per quel che riguarda il
“giardiniere”, vestito con abito a
losanghe, probabilmente un
aristocratico locale, si nota il
defunto-giardiniere con il
secchiello e la bacchetta che compie
un’azione molto particolare: la
“fecondazione artificiale” delle
palme da dattero, che consiste nel
raccogliere il polline della palma
maschile per fecondare la palma
femminile. Questo gesto
nell’antichità aveva un forte
significato simbolico, legato alla
prosperità e all’armonia con la
natura; in epoca assira è il re
stesso, o una divinità o un genio
alato a essere raffigurato nell’atto
di impollinare le palme. Infatti,
nell’antica religione assira,
ascrivibile all’area della
Mesopotamia, una palma da dattero è
l’albero del mondo che connette il
Paradiso alla Terra (De Champeaux e
Sterckx, 1984): dai bassorilievi del
palazzo reale di Assurnasirpal II, a
Nimrud, capitale mesopotamica,
presenti al British Museum di
Londra, si evince il ruolo divino
nel donare all’uomo attraverso la
palma e in particolare utilizzando
l’impollinazione, raffigurando anche
un mullilu che in lingua
assira significava “purificatore”,
molto simile a quello del
giardiniere della chiesa cappadoce.
Ciò è evidente nella
gerarchia legata alle figure e
sottolinea un gesto attivo, univoco,
che collega umano e divino soltanto
in una direzione.
Il tema ben si accorda con il
concetto di giardino funerario,
avente evidenti legami con la
cultura persiano-sasanide. Risulta
altresì interessante la figura del
giardiniere nell’ambito della
cultura monastica bizantina, dove
rappresenta il livello più basso di
alfabetizzazione del monaco e base
per ascendere alla conoscenza
spirituale. Infatti, solo dopo
cinque anni di lavoro manuale
avrebbe ricevuto i rudimenti per la
lettura e la scrittura (Talbot,
2002).
Dunque il paradigma dagli assiri
alla cultura bizantina risulta
ribaltato: non dal divino all’umano
ma dall’umano verso l’ascetismo
spirituale. In tal senso, nel
rovescio del trittico eburneo di
Harbaville (metà del X sec. d.C.),
oltre a fenici tra il fogliame della
palma, per le quali è stata
evidenziata la loro origine
iconografica dalla Cina o dalla
Persia sasanide (Concina, 2002), è
anche raffigurata la Croce,
iconologicamente simbolo di vita
eterna e in particolare vi sono
rampicanti su essa due cipressi che
si piegano puntando il centro, a
rappresentare un giardino
paradisiaco con cielo stellato sullo
sfondo.
La parte apicale lanceolata
della palma stilizzata del giardino
funerario della chiesa dei Santi
Gioacchino ed Anna richiama i
bassorilievi di palma nell’Ara
Pacis datati 13-9 a.C. (poche
specie sono rappresentate in maniera
ricorrente). Foglie uncinate
attribuite a P. dactylifera
L., la cui simbologia si
riferisce a divinità orientali quali
Apollo, che con la gemella Artemide
secondo la leggenda nacque
all’ombra di una palma da dattero
(Caneva, 2010). Essa simboleggia
anche la vittoria e Roma stessa e
l’arte della manodopera suggerisce
provenienze pan-mediterranee
(“composizioni fantastiche di
elementi veri”; Caneva, 2010). Sette
secoli dopo troveremo Gesù Cristo
nascere all’ombra di una palma, come
riportato nel Corano; in quella
scena la Vergine Maria percuote il
tronco della palma ottenendo datteri
per il nutrimento (“Maria diede alla
luce Gesù nella solitudine, vicino a
un tronco di palma. Disse: ‘Oh
Maria, tutto il potere è in te. Tira
verso di te questo albero secco,
ritroverà la vita e manderà su di te
i datteri freschi’” - Sura 19:25). I
padri cappadoci continuano o
rafforzano la simbologia legata alla
palma da dattero (“Se ti recherai
nel deserto egiziano, lo vedrai
trasformato nel più dolce Paradiso”
- Giovanni Crisostomo, IV-V sec.
d.C.), anche attraverso il periodo
iconoclasta (730-842 d.C.), che
nelle sue espressioni si propone
come avverso al monachesimo
iconodulo.
Nella chiesa n. 3 di Balkan Deresi,
presso Nevşehir, tra Ibrahimpasa e
Ortahisar, quasi completamente
crollata, una palma da dattero
simile al “modello ittita”, albero
della vita, è scolpita al di sopra
una croce circondata da una corona.
Inoltre, una croce e palmizi sono
scolpiti anche nel soffitto della
chiesa di Güllüdere (= Valle delle
Rose). Ornamenti di questo tipo, in
cui predomina la croce, sono stati
spesso attribuiti all’epoca
iconoclasta; in effetti i Cappadoci
avevano una particolare venerazione
per la croce in particolare per la
Croce trionfale della Passione
(Giovannini, 1971). Infatti,
l’usanza di dipingere o scolpire
grandi croci sulle volte o sui
soffitti delle chiese è
caratteristica dell’iconografia
cappadoce primitiva, di molto
anteriore all’iconoclastia, e
persistente fino al X secolo d.C.
(Giovannini, 1971). Il complesso di
Balkan Deresi comprende cinque
chiese, celle per monaci e stanze a
più piani. La sua architettura
peculiare e l’ambiente sereno lo
rendono una destinazione di grande
interesse. Le chiese di Balkan
Deresi sono facilmente accessibili
ma raramente visitate. Le chiese 1,
2 e 3 si trovano in un cono
vulcanico isolato a Est, mentre la
chiesa 4 (di San Basilio) è situata
nella sezione occidentale. Un cono
eroso a Ovest della chiesa 4 ha la
pianta di una chiesa a navata
singola, la quinta del complesso. Le
chiese, posizionate oltre le sezioni
abitative principali e circondate da
numerose tombe, suggeriscono che
fossero principalmente destinate
alla sepoltura dei defunti. La
rappresentazione della palma
scolpita non permette di fare
considerazioni sui colori, come nel
caso di Şahinefendi; ma è possibile
ascrivere il modello della palma di
Balkan Deresi a quello presente
nella chiesa dei Santi Gioacchino ed
Anna e non a quello compatto della
chiesa dei Quaranta Martiri di
Sebaste.
La palma da datteri nella Chiesa dei
Quaranta Martiri a Şahinefendi
possiede fortunatamente cromia
rispetto ai bassorilievi antichi:
questo permette di identificare il
dattero con lo stadio Rutab o
Tamr (in iracheno) o una
varietà dal frutto maturo di colore
vermiglio (Al-Shwyeh, 2019; Ghnimi
et al., 2017; Chao e Krueger, 2007).
L’unica cultivar presente in Turchia
e dal colore marrone scuro è la
Datça, originaria dalla regione
Mugla (penisola di Datça, sul mar di
Creta). In particolare, si tratta
della specie relitta Phoenix
theofrastii (Vardarelli et al.,
2019; Hazir e Buyukozturk, 2013) e
non P. dactyilifera,
in quanto genere endemico
nell’attuale Turchia, Grecia e isola
di Creta. Insieme alla palma nana (Chamaerops
humilis L.), di maggiore
distribuzione, la “palma di Creta”
rappresentava la foresta del bacino
mediterraneo. Di recente, anche se
non ancora ascritta a un taxon, si è
anche distinta la sottospecie P.
theofrasti Gö lkö (Hazir e
Buyukozturk, 2013). La sua altezza,
limitata rispetto a P.
dactylifera (10-15 m rispetto a
20-30 m) potrebbe essere più di un
indizio, che distinguerebbe il
modello ittita (quindi
identificabile con P. dactylifera
L.) da quello della nicchia di
Şahinefendi. Non sappiamo se la
scarsa altezza del fusto sia
indicativa di una pianta giovane e
quindi evidentemente precoce; ma
risulterebbe inusuale una
rappresentazione di una palma così
poco slanciata rispetto a quelle
coeve nell’iconografia. Inoltre è
interessante sapere che le varietà
di palma da dattero domestica (P.
dactylifera L.) del Nord Africa,
tra cui le celebri Medjool e
Deglet Noor, sono un ibrido
tra le palme da dattero del Medio
Oriente e P. theophrasti (Vardarelli
et al., 2019). Questo elemento getta
nuova luce sulla dinamicità della
specie dal punto di vista della sua
diffusione pan-mediterranea, ma
anche del “concetto” di palma nella
mente degli artisti bizantini.
Inoltre, il cluster di colore
marrone scuro sembra indicare una
precisa scelta naturalistica da
parte dell’artista. Infatti, la
rappresentazione di una palma con
frutto poco o per nulla edibile come
nel caso di P. theofrasti
allontana l’intento simbolico e
spirituale della rappresentazione,
spesso legata alla vita monastica e
all’impatto ambientale che essa ha
potuto svolgere (Talbot, 2002)
ascrivendola invece a una memoria o
luogo di origine vicino alla costa.
Le rappresentazioni della palma
nella chiesa dei Santi Gioacchino e
Anna e nella chiesa n.3 di Balkan
Deresi sono riferibili a P.
dactylifera in quanto nel primo
caso è ascrivibile a giardino
funerario-paradisiaco, mentre nel
secondo la rappresentazione è molto
slanciata come nel modello ittita.
Va ricordato che, nonostante la
Cappadocia sia un patchwork
agro-ecologico complesso e
potenzialmente produttore di
multiservizi, “memore” di
un’identità bioculturale (Maffi,
2007), la palma da dattero non ne fa
parte (Barbera, 2020). In
particolare, nel caso della chiesa
dei Santi Gioacchino ed Anna, il
cosiddetto “giardiniere” esplica la
pratica dell’impollinazione
inducendo a pensare che la palma era
destinata a fini alimentari su scala
più ampia che la sussistenza
monastica (Talbot, 2002). E’
difficile stabilire se la
rappresentazione della palma è
quella di una specie nana o il
giardiniere è rappresentato in
grandi dimensioni, come nella
tradizione assira o ittita, ma resta
più plausibile la seconda ipotesi.
La palma da dattero è una pianta
diploide (2n=36), perenne,
monocotiledone (Chao e Krueger,
2007); ha sessi separati (pianta
dioica) e i fiori, dimorfici
sessualmente, sono protetti da
“spate” per proteggerli da caldo e
raggi solari. Per l’impollinazione
artificiale, che ha un vantaggio
maggiore sulla riproduzione rispetto
all’entomofilia o all’anemofilia, ai
giorni nostri si applica sulle
piante giovani, anche se poi
mediamente devono trascorrere sette
anni per poter consumare i frutti.
Già nell’antichità doveva essere
noto che il rapporto ottimale di
piante maschili e femminili di circa
1 a 50.
Sicilia normanna
Nella Sicilia normanna dei secoli
IX-XI, presso Palazzo Bellomo di
Siracusa e la Sala della fontana del
Palazzo della Zisa a Palermo, una
residenza estiva, la
rappresentazione della palma da
dattero assume nel primo caso
un’accezione regale e stilizzata,
con ramo apicale lanceolato che
ricorda i casi già analizzati della
chiesa dei santi Gioacchino ed Anna
e quindi dell’Ara pacis,
mentre nel secondo assume dei
riferimenti all’albero della vita (Pinelli,
2012), nelle tre raffigurazioni
presso la fontana di manifattura
bizantina. Sotto una decorazione
a muqarnas la palma da
dattero sovrasta due pavoni nelle
raffigurazioni laterali, mentre in
quella centrale, probabilmente
raffigurante un banano, vi sono due
cacciatori con arco. Probabilmente
in questo caso si perde la
connotazione funerario-paradisiaca
per lasciare il posto ad altra
simbologia più legata al pavone.
Infatti nel contesto cristiano, il
pavone rappresenta la ruota solare e
simboleggia l’immortalità: La sua
coda evoca il cielo stellato e la
visione beatifica ed è possibile
dargli un’accezione fortemente
regale e cosmica invece che legarlo
all’albero della vita. Piume di
pavone compongono la toupha
della colossale statua equestre
bronzea di Giustiniano I (o
Anastasio I), come riporta il
disegno di Ninphyrios del XV secolo.
Essa era collocata nell’Augusteion,
tra Santa Sofia e il Grande Palazzo
(Concina, 2002). Quest’opera
rappresenta il massimo simbolo del
potere giustinianeo che guarda
intimidatorio e armato della sola
mano e globo crucigero a Oriente (Persia
sasanide), in un’estetica
rappresentazione tardo-antica del
potere (543 d.C.). A conferma che si
trattassero di piume di pavone, vi è
il calco del medaglione aureo
cappadoce (Cesarea), presso il
British Museum di Londra.
Nella Sala di Ruggero II (Palazzo
dei Normanni, Palermo, 1132 d.C.;
colonnine angolari delimitano alti
rivestimenti in marmo sovrastati da
ampie superfici a mosaico di grande
pregio raffiguranti elementi
vegetali (palme e banani) e scene di
carattere aulico e venatorio,
simboli del potere normanno. Sono
raccontate con grande dedizione
nell'esecuzione battute di caccia
con arcieri e cervi, rappresentati
pavoni, cigni, oltre i mitologici
centauri, grifi e altri animali
esotici tra cui leopardi e tigri fra
lussureggiante vegetazione, sottile
allusione al Parco del Genoardo (da
gennat al-ard, il Paradiso
della Terra), che racchiudeva il
Palazzo della Zisa, tutto nel
tentativo di mostrare un'allegoria
della corte normanna. Diversamente
le rappresentazioni della palma da
dattero mediorientali di cui il
mosaico di Sant’Ilarione di Gaza (V
sec. d.C.) ne è un esempio, vedono
la presenza di animali; nel caso di
Sant’Ilarione essi “puntano” ai
cluster dattiliferi e sono
allegoria dei popoli del mondo (Champeaux
e Sterckx, 1984). Caratteristiche
sono le figure a coppie simmetriche
e speculari, arabeschi e girali
dall'effetto caleidoscopico immersi
in motivi fitomorfi e zoomorfi. Le
raffinate rappresentazioni dai
canoni sontuosi ma con accenti di
rigidità, delineano la chiarissima
matrice greco-bizantina dell'opera
combinata con l'influenza pittorica
dell'Oriente persiano. E’evidente la
somiglianza con la rappresentazione
vista nella fontana del Palazzo
della Zisa (arcieri, pavoni e piante
di banano). I due animali che si
fronteggiano al di sotto del banano
sono cervi nobili (Cervus elaphus L.)
e ricordano le due gazzelle (Oryx
gazella L.) presenti nel mosaico
della basilica del Monte Nebo
animali endemici dell’Africa e
quindi riferibili all’area di
origine della palma da dattero. Nei
mosaici della sala di Ruggero II è
possibile notare piccole piante che
crescono ai piedi delle palme e dei
banani e che la corteccia degli
alberi, inclusa una terza tipologia
nella parte inferiore della lunetta,
è rappresentata in maniera molto
simile.
La Cappella di S. Pietro, annessa al
Palazzo Reale di Palermo (Cappella
palatina, conclusa nel 1140 d.C.) fu
decorata a mosaico da almeno due
gruppi di maestranze provenienti
dalla Bisanzio dei Comneni.
In particolare un mosaico mostra
una forte assonanza con un altro
avente lo stesso soggetto (Ingresso
di Gesù a Gerusalemme) che si trova
presso Monastero di Daphni (Atene,
XII sec. d.C.) ed è riconducibile al
primo gruppo di maestranze
bizantine, rispetto a un secondo
gruppo, successivo, che appare
impegnato anche nell’abside e nel
presbiterio del duomo di Cefalù. In
entrambi spicca la palma da dattero
all’ingresso di Gerusalemme; nel
caso di Atene essa appare meno
raffinata e realistica. In queste
rappresentazioni la corteccia della
palma assume una forma completamente
diversa rispetto agli altri casi
della Sicilia normanna (scaglie
rettangolari disposte lungo il lato
più breve nel caso della Cappella
palatina; a polloni quasi selvatici
nel caso di Atene) e porta a diverse
considerazioni su questo elemento
anatomico della pianta.
La palma da dattero si ritrova anche
nel mantello per l’incoronazione di
Ruggero II, conservato al
Kunsthistorisches Museum (Vienna,
Austria, 1133-1134 d.C.). Il manto
purpureo in seta rossa è costituito
da oro, perle e smalti. Esso
raffigura al centro l’albero della
vita su entrambi i lati si notano
alcuni leoni che divorano dei
cammelli. Nel bordo inferiore
invece, dove si legge “anno 548
dell’Egira”, è visibile
un’iscrizione in caratteri cufici.
Esiste anche una fodera, più antica,
di fattura siciliana. I bordi,
visibili a manto aperto raffigurano
l’albero della vita e due figure
intorno ad esso, solitamente
identificate con Adamo ed Eva (Hattstein
e Delius, 2001). Nel primo caso la
palma porta ben visibili i
clusters, sullo stesso genere
visto nella Cappella Palatina (anche
se in tal caso sono tre e non
quattro); inoltre i due inferiori
assomigliano alla parte finale della
coda dei leoni. Colpisce il fatto
che le foglie della palma da dattero
siano rappresentate come nell’Ara
pacis in maniera uncinata.
Gli ambienti della Zisa e della
stanza di Ruggero II rappresentano
favole venatorie nell’intenzione di
mostrare all’osservatore i piaceri
della corte (non è da escludere
l’idea che si tratti di una sala per
il pranzo). Non a caso, si tratta di
due ambienti legati ad architetture
civili e in quanto tali aventi
connotazione diversa rispetto alla
Cappella Palatina. Nel palazzo della
Zisa i medaglioni riportano
rappresentazioni che esaltano i
singoli elementi in una simmetria
estetica, mentre nella stanza di
Ruggero II la composizione assume
una valenza più complessa e di
realtà agro-ecologica, pur
conservando le caleidoscopiche
simmetrie del primo caso. Nella sala
è ravvisabile, seppur molto
scomposta nei suoi elementi, la
rappresentazione del sistema
oasistico o “giardino”.
La palma da dattero si intreccia al
concetto di oasi; questa parola è
giunta a noi attraverso i Greci,
poco modificata, e poi ripresa da
alcuni autori arabi. Oggi, molto
spesso e in maniera poco esatta, è
utilizzata per indicare un palmeto
di datteri anche se molte oasi
continentali fredde (come le oasi
sulla Via della Seta in Cina, ma
ecologicamente anche la Cappadocia)
o costiere non hanno un palmeto da
dattero (Toutain et al., 1998): la
Cappadocia potrebbe considerarsi un
esempio attinente in quanto non vi
cresce la palma da dattero ma
rappresenta un macrosistema
agro-ecologico altamente
conservativo nel quale il processo
che lo ha creato è lento, con pochi
periodi di cambiamento e lunghe fasi
di consolidamento (Barbera, 2020).
Utilizzata dal geografo Erodoto
(Libro 111, Thalia) intorno al 450
a.C., la parola oasi deriva
dall'antico egizio; la stessa parola
si trova in copto e libico-berbero e
originariamente significava “luogo
abitato” (oikos in greco
significa “dimora”). Erodoto
utilizzò il termine oasi per
descrivere l'insediamento di Kharga
in Egitto (Toutain et al., 1998).
Negli agro-ecosistemi delle oasi la
palma da dattero costituisce la
specie chiave, il livello superiore
del sistema agronomico oasistico o
“giardino” (Tengberg, 2012): le
palme possono raggiungere i 20-30
metri di altezza e con le loro
grandi fronde fanno ombra alle
piante più basse, oltre a produrre
frutti ricchi di zuccheri e
vitamine. Altri alberi da frutto di
solito formano un secondo livello al
di sotto delle palme. Questi possono
appartenere a varie specie a seconda
delle condizioni, delle tradizioni e
dei gusti locali. Gli alberi da
frutto che si incontrano spesso nei
palmeti del Medio Oriente sono il
fico (Ficus carica L.), il
melograno (Punica granatum
L.), la spina di Cristo (Ziziphus
spinachristi L.), il banano (Musa
paradisiaca L.), il mango (Mangifera
indica L.), la papaya (Carica
papaya L.) e vari agrumi. Nel
caso della stanza di Ruggero II, il
banano è identificabile nella parte
superiore della lunetta, con le sue
foglie ampie; le proporzioni non
sembrano rispettate (il banano è una
finta pianta arborea, botanicamente
erbacea, dal “picciolo” simil fusto
alto massimo 9 m). Sia banano che
palma da dattero presenterebbero la
stessa corteccia, con la differenza
che quella rappresentata nel mosaico
corrisponde realmente a quella del
banano. Nella lunetta inferiore, vi
è invece una terza tipologia di
pianta, avente sempre lo stesso
modello omologato di corteccia (ma
con un elemento che richiama a una
foglia giovanile sul tronco), che
potrebbe rappresentare lo
Ziziphus spinachristi L.
L’autore avrebbe rappresentato in
maniera fedele la morfologia
fogliare, semicircolare,
lateralmente e a livello apicale,
con nervature radiali, ma senza
voler rispettare le proporzioni,
piegando alle sue esigenze
artistiche elementi che però sono
naturalisticamente reali. La pianta
arborea tra le due gazzelle che si
scrutano, sembra una
rappresentazione ibrida immaginaria.
La natura della decorazione musiva
della stanza di Ruggero II appare di
lettura certamente non uniforme dal
punto di vista iconografico, ma con
un intento più rappresentativo dal
punto di vista naturalistico di
quanto possa sembrare. In ultimo, né
Ziziphus né Musa sono
presenti nel codice botanico
augusteo, a dimostrazione del fatto
che la loro associazione
iconografica e' successiva all'epoca
classica, come il sistema oasistico,
le cui origini posso essere fatte
risalire ai padri del deserto del IV
sec. d.C. (Talbot, 2002).
Un elemento innovativo nei mosaici
della stanza di Ruggero II è la
rappresentazione, ai piedi delle
piante arboree, di piante erbacee.
Non casualmente il sistema oasistico
prevede un terzo livello, al di
sotto delle piante da frutto,
costituito da colture a bassa
piantate o seminate in campi o
appezzamenti che vengono
periodicamente inondati. Si tratta
per lo più di colture annuali,
destinate all'alimentazione umana
(cereali, legumi, ortaggi, piante
oleaginose, aromatiche), al foraggio
(cereali, varie leguminose, come
l'alfa-alfa e le piante aromatiche,
il trifoglio, piante erbacee),
all'artigianato (piante tessili e
tintorie) o ad altri scopi (piante
medicinali e tintura). Con un
apporto costante e regolare di acqua
si possono ottenere diversi raccolti
annuali grazie alla crescita
alternata di colture invernali
fredde ed estive (Tengberg, 2012).
Nella pianta di San Gallo,
commissionata dall’abate Gozberto
(816-829 d.C.) il cimitero coi
frutteti aveva al centro la croce
(Cricco, Di Teodoro, 2016;
Ferraiuolo, 2017), definita proprio
“albero della vita”, così come è da
considerarsi la palma da dattero,
sia nel sistema oasistico che
nell’iconografia mediorientale,
legata a sua volta al concetto di
giardino, sia come simbologia che
come sistema produttivo (Talbot,
2002). Dunque, appare chiaro il
collegamento al giardino
funerario-paradisiaco di cui si è
citato a proposito della Cappadocia
(Menna, 2020). E’possibile definire
la rappresentazione della pianta di
San Gallo un punto di riferimento
dell’iconografia legata alla palma
da dattero, nel suo legame col
monachesimo occidentale. Ma quello
che invece lega la pianta di San
Gallo ai mosaici della stanza di
Ruggero II è il modo in cui viene
rappresentato e abbia scomposto il
sistema
oasistico/giardino
(=orto + frutteto) nelle sue diverse
componenti o livelli, come i
giardini vegetale e delle erbe
mediche. I giardini dei beduini
attuali presso il monastero di Santa
Caterina del Sinai in Egitto o
quelli monastici presenti in Nord
Africa (Talbot, 2002), sono
“relitti” del sistema oasistico e
richiamano alla sua forte
conservatività, anche in maniera
bioculturalmente identitaria (Maffi,
2007). In quanto elementi
paesaggistici, i giardini oasistici
sono anche una rappresentazione
simbolica, non solo per ciò che è
percepito dai gruppi sociali che li
hanno realizzati, ma per quello che
a quegli stessi gruppi è realmente
servito (Hasson, 1996).
La palma rappresentata nella
Cappella Palatina, fornisce
informazioni sulla corteccia. Le
stesse maestranze che hanno lavorato
a Palermo, danno una
rappresentazione diversa di questa
parte. Nel caso di Daphni, la palma
raffigurata è vicina
morfologicamente a una Borassus
aethiopum M., una palma di area
tropicale che è nota anche al mondo
arabo come daleib o deleib.
Tuttavia, Non è possibile ritenere
certa questa identificazione anche
perché in alcuni casi la
raffigurazione non è supportata
dall’areale di distribuzione (ad
esempio la palma tra le due gazzelle
presso il Monte Nebo presenta la
corteccia tipica della palma
Bactris gasipaes che però è
diffusa in Sud America). Nel caso di
Borassus aethiopum M.
l’identificazione spingerebbe molto
a Sud il modello utilizzato dalle
maestranze bizantine per la
raffigurazione della palma. La
corteccia della palma della Cappella
Palatina a Palermo ha invece una
rappresentazione stilizzata e questo
aspetto sorprende, in quanto le
maestranze bizantine sono
identificate con le stesse
dell’entrata a Gerusalemme nella
chiesa di Daphni.
Conclusioni
Appare plausibile che nei casi
evidenziati ci possa essere una
rappresentazione reale o realistica
degli elementi naturali
rappresentati nell’arte medievale;
il presente lavoro pone l’accento
sulla palma da dattero, come pianta
modello per supportare questa
ipotesi. In accordo con Caneva
(2010), si può parlare di
“composizioni fantastiche ma di
elementi veri”, concetto
testimoniato anche da opere
complesse e sistemiche come l’Ara
pacis. Sia in architetture
religiose (Cappadocia) che civili
(Sicilia normanna), gli autori
bizantini hanno trasformato la
propria memoria naturalistica in
immagine. I due casi di studio
permettono di creare un modello di
analisi transculturale e
multidisciplinare che non solo
fornisce un quadro esaustivo
dell’argomento trattato, ma stimola
riletture degli elementi
naturalistici nelle opere e
ulteriori indagini, pur suggerendo
di incrociare il dato iconografico
con quello botanico-naturalistico
utilizzando la massima cautela.
Il presente lavoro è dedicato
alla memoria del Dott. Fabio Ammar,
collaboratore nelle missioni
mediorientali del CNR IRET e della
Fondazione Giovanni Paolo II, che
l’autore ringrazia.
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