N. 80 - Agosto 2014
(CXI)
GIULIO
ROMANO
e
casa
crivelli
UN'IPOTESI
PER
il
PALAZZO
dei
pupazzi
di
Enzo
Bentivoglio
Oggi
inserito
in
un
fronte
continuo
di
facciate
di
palazzi
che
si
presenta
su
via
del
Banchi
Vecchi
–
sul
suo
lato
sinistro,
procedendo
verso
il
Tevere
– il
cinquecentesco
palazzo
Crivelli,
ora
condominio,
attira
l’attenzione
per
il
suo
esuberante
apparato
decorativo
realizzato
in
stucco,
rappresentante
scene
mitologiche
e
storiche
frammiste
a
stemmi
e a
emblemi
araldici
e
una
significativa
estesa
iscrizione
che
dichiara
l’antica
appartenenza
a
esponenti
dei
vari
rami
della
famiglia
Crivelli,
nell’evocazione
della
parentela
con
vari
Pontefici.
Tutto
ciò
invita
a
considerare
quella
organizzazione
di
facciata
– al
di
là
dell’evidenza
decorativa
con
la
quale
si
propone
all’interno
di
una
studiata
e
“poco
comune”
intelaiatura
architettonica
–
come
derivata
da
una
ricercata
idea
“d’Autore”,
così
come
può
trovare
conferma
in
quanto
si
può
osservare
degli
elementi
originari
posti
al
suo
interno,
realizzati
con
un
linguaggio
e
un’organizzazione
“non
comuni”,
quasi
una
“cifra”
di
un
ben
precisato
ideatore,
per
i
quali
rimanderò,
per
altra
circostanza,
la
lettura.
Mi
concentrerò
ora
sulla
facciata,
triangolare–curvilineo–triangolare,
staccati
dalla
incorniciatura
delle
finestre,
ovvero
senza
alcuna
membratura
“evidente”
che
a
queste
le
colleghi,
ma
solo
una
neutra
fascia
(la
tradizionale
zona
“fregio”)
senza
alcun
risalto
rispetto
la
superficie
della
parete
e
“muta”:
questa
organizzazione
già
di
per
sé
stessa
documenta
un
atteggiamento
progettuale
“eccentrico”
ove
si
indirizza
a
considerare
le
finestre
nella
loro
essenzialità
di
aperture/bucature
nella/della
parete
rimarcate
dalla
“profondità”
della
incorniciatura,
trasferendo
i
timpani
al
sistema
decorativo,
tant’è
che
assurgono
a
“supporto”
di
figure
sedute
su
sacchi
di
spighe
di
grano
(allusive
al
nome
della
famiglia,
in
riferimento
al
“crivello”,
altro
nome
del
setaccio
per
il
grano)
mentre
al
piano
superiore
si
osserva
il
deciso
contrasto
tra
le
finestre
–
semplicemente
contornate
da
una
fascia
in leggero
risalto
alla
parete
in
una
affermazione
decisa
di
vederle
quali
“
bucature”
– e
le
due
raffinate
“storie
moderne”,
abbigliate
all’antica
(l’incontro
di
Carlo
V e
Francesco
I a
Nizza
presente
Paolo III
e
Carlo
che
V
bacia
il
piede
a
Paolo
III)
espresse
nei
pannelli
a
altorilievo,
in
stucco,
poste
nei
campi
estremi
della
sequenza
delle
quattro
lesene
d’ordine
corinzio
a
foglie
lisce,
delle
quali,
le
estreme,
continuano
la
verticalità
dei
bugnati
angolari.
Il
campo
centrale,
di
poco
più
esteso
degli
altri,
è
caratterizzato
da
una
semplice
incorniciatura
di
un
arco
a
tutto
sesto,
poggiato
sul
segmento
di
cornice
analogo
a
quelli
dei
campi
laterali
nei
cui
triangoli
mistilinei
“volano”
un
delicato
efebo
e un
putto
mentre
la
lunetta
poteva
contenere,
graffita/affrescata
più
che
un’altra
“storia”
un
ben
diverso
motivo,
forse
più
incisivamente
allusivo
al
committente
o
alla
sua
famiglia.
Per
offrire
un
significativo
inquadramento
dell’edifico
nella
trama
della
antica
topografia
di
Roma,
in
particolare
quella
che
dai
pontefici
Sisto
IV
(1471-84),
Alessandro
VI
(1492-1503)
e
Giulio
II
(1513-13)
era
stata
regolarizzata
e
resa
con
migliore
“decoro”,
in
particolare
l’ondulato
asse
della
via
peregrinorum
(attuale
via
del
Pellegrino)
sfociante
nella
Via
Florea
(l'attuale
Campo
dei
Fiori,
in
cui
il
percorso
cardinale
della
Via
dei
Banchi
(così
dal
diffuso
insediamento
dei
“banchieri-mercantii”
accreditati
presso
corte
Pontificia) originanatesi
dallo
sbocco
del
Ponte
San’Angelo,
primario
collegamento
con
il
Vaticano.
Da
tutto
ciò
la
scelta
di
quel
sito
da
parte
del
committente Giovan
Pietro
Crivelli
(1463-1552)
per
realizzare
il
suo
palazzo,
così
come
la
iscrizione
tramanda:
IO.
PETRVS
CRIBELLVS
MEDIOLANEN.
SIBI
AC
SVIS
A
FVNDAMENTIS
EREXIT.
Un
più
tardo
documento
del
1539
ricorda
quale
domus
a
fundamentis
orite
erecte
a
cui
si
abbina,
in
una
superiore
fascia
marcapiano
i
nomi
di
quei
pontefici
dai
quali
deve
avere
ottenuto
la
maggiore
considerazione
e i
principali
“benefici”,
Giulio
II,
Paolo
III
e, a
ragione
di
una
supposta
ascendenza,
Urbano
III
(Crivelli
di
Milano,
1185-1187).
Il
Crivelli
da
documenti
risulta
già
abitante
nella
zona,
poiché
aveva
ottenuto
dall’Ospedale
dei
Boemi,
nel
1504,
in
enfiteusi
(per
un
canone
annuo
non
indifferente
di
42
ducati
annui)
una
casa
“nel
loco
detto
la
Chiavica
(uno
dei
principali
e
antichi
rami
fognari
di
Roma)
a
l’incontro
la
chiesa
di
S.
Lucia”.
Forse
quella
casa
che
oggi
si
presenta
con
la
sua
modesta
e
limitata
facciata,
che
solo
un
occhio
“esploratore”
e
attento
la
rende
degna
di
attenzione
per
la
presenza
dello
stemma
quattrocentesco
del
Re
di
Boemia,
e
all’ultimo
piano
–
secondo
quanto
persona
autorevole
mi
riferì
qualche
decennio
or
sono
– la
presenza
di
elementi
dipinti
ascrivibili
ai
secoli
XV-XVI.
Le
ragioni
per
le
quali,
verosimilmente,
il
Crivelli
pensò
di
realizzare
una
dimora
ex
novo
possono
individuarsi
nella
circostanza
della
nomina
da
parte
di
papa
Giulio
II,
nel
1504,
quale
orafo
di
sua
fiducia
che
di
certo
– a
parte
la
appartenenza
a
una
famiglia
di
rango
–
contribuì,
in
tempi
successivi,
a
una
significativa
collocazione
nell’ambito
della
Corte
Pontificia
entrando
in
relazione
con
artisti
che
operavano
per
questa
e
per
i
più
autorevoli
esponenti
della
società
del
tempo
laici
e
non.
Ancora
per
rimarcare
la
significativa
scelta
del
sito
ricordo
che
a
poche
decine
di
metri,
quasi
confinante,
doveva
prolungarsi
–
attualmente
opera
incompiuta,
con
la
sua
ricercata
facies
architettonica,
nella
materia
e
nell’impaginato,
“all’antica”
– il
palazzo
del
vescovo
di
Cervia
e
del
fratello,
edificio
del
quale
si
conserva
il
progetto
di
Antonio
da
Sangallo
il
giovane,
previsto
su
un
impianto
caratterizzato
dalla
fusione
di
due
distinti
ma
simmetrici
corpi
funzionali.
Altro
dato
da
non
trascurare
è
che
l’area
ove
insisteva
palazzo
Crivelli
arrivava
fino
all’asse
viario
di
elevato
“decoro”
urbano,
già
antico
percorso,
realizzato
da
papa
Giulio
II,
collegante
il
nodo
“finanziario”
sorto
attorno
alla
chiesa
di
San
Giovanni
dei
Fiorentini
a
Ponte
Sisto
(il
primo
ponte
realizzato
in
Roma
dopo
quelli
dell’antichità),
collegante
il
quartiere
di
Trastevere,
denominato
via
Giulia
e
sul
quale
doveva
realizzarsi,
su
progetto
di
Bramante
–
opera
appena
iniziata
– il
grande
palazzo
dei
“Tribunali”
pontifici.
Non
ci è
dato
per
ora
sapere
se
l’idea
originaria
per
palazzo
Crivelli
poteva
prevedere
una
estensione
fino
a
Via
Giulia,
dove
più
che
un
corpo
di
fabbrica
poteva
esserci
il
caratteristico
viridarium,
retrostante
al
cortile,
fulcro
del
palazzo,
cortile
ancora
evidente
nella
planimetria
del
“Catasto
Gregoriano”
(redatto
nelle
prime
decadi
del
XIX
secolo),
ma
oggi
appena
riconoscibile.
Prima
di
delineare
una
lettura
dei
caratteri
architettonici
e
artistici
del
palazzo
ritorniamo
a
considerare
la
figura
di
Giovan
Paolo
Crivelli,
tenendo
presente
la
sua
lunga
vita,
quasi
novanta
anni,
vissuta
nella
piena
maturità,
attività
e
collocazione
sociale,
nella
Roma
divenuta
crogiuolo
di
reciproche
interazioni
tra
architetti
e
artisti,
soprattutto
durante
i
pontificati
di
Giulio
II,
Leone
X
Clemente
VII
(1523-34),
Paolo
III
(1536-1550)
e
gli
esordi
di
quello
che,
in
coeve
medaglie,
era
definito
della
ilaritas
pontificia,
Giulio
III
(1550-55),
dei
quali,
il
primo
e
l’ultimo
evocati
in
iscrizione,
in
una
superiore
fascia
marcapiano,
pontefici
dai
quali
Crivelli
deve
avere
goduto
della
maggiore
considerazione
e
ottenuto
i
principali
“benefici”.
Se
vogliamo
mantenere
l’antica
identificazione
di
un
ritratto
–
già
al
Museo
Getty
di
Malibu
e
recentemente
da
questo
venduto
– di
un
“gioielliere”,
identificato
con
il
Crivelli
e
ritenuta
opera
di
Lorenzo
Lotto
(artista
operante
in
Roma
tra
il
1509-1510),
ci
offre
l’occasione
di
considerare
un
possibile
relazione
tra
Giovan
Pietro,
ormai
inserito
tra
gli
artefici/artisti
del
corte
di
Giulio
II e
il
pittore
che
stava
lavorando
per
il
papa,
nello
stesso
momento
in
cui
Raffaello
stava
esordendo
con
tutta
la
sua
“divinità”
e
una
schiera
di
aiutanti
crescevano
con
lui
e
tra
questi,
il
prediletto,
romano,
Giulio
Pippi.
Quel
Giulio
Romano,
che
–
ormai
affermato
oltre
che
come
pittore
anche
come
architetto
–
sul
quale
si
può
estendere
quanto
Manfredo
Tafuri
scrive
per
Raffaello
architetto,
maestro
di
Giulio,
campione
della
“sintassi
disciolta”
che
in
particolare
nella
villa
del
cardinale
Giulio
de’
Medici
(villa
Madama)
è da
considerarsi
quale
dispositivo
caratterizzato
da
“arguzie
formali
che
stemperano
la
gravità
dell’impostazione”.
Ora
–
con
le
dovute
prudenze
nella
lettura
–
qualcosa
di
simile
è
rintracciabile
in
palazzo
Crivelli,
ove
la
possibile
datazione
di
realizzazione
si
può
collocare
tra
l’ascesa
di
Paolo
III
e il
documento
del
1539.
A
questo
punto
è
legittimo
chiedersi
–
nell’ambito
di
questo
mio
scritto
– la
ragione
della
evocazione
del
nome
di
Giulio
Romano
–
ormai
lontano
da
Roma,
dopo
la
“censura”
papale
per
la
scandalosa
pubblicazione
dei
“Modi”.
Si
può
ipotizzare
che
un’amicizia
tra
il
Crivelli
e
Giulio
Romano
– se
costituitasi
tre
decenni
addietro
possa
essere
continuata,
seppur
a
distanza
–
così
Giovan
Pietro,
il
gioielliere
che
per
tale
attività
avvezzo
a
produrre
“novità”
volendo
realizzare
qualcosa
di
“originale”
abbia
richiesto
all’amico
un
idea
progettuale,
una
“guida”
e un
indirizzo
per
il
qualificato
apparato
degli
stucchi
che
nella
loro
espressività
si
presentano
tanto
vicini
a
disegni
di
Giulio
così
come
nella
resa
della
materia,
plasmata
dagli
artefici
operanti
a
Mantova
nel
palazzo
del
Te.
La
organizzazione
del
piano
terreno
con
quel
limitato
accesso
serrato
tra
la
ascendente
prepotenza
delle
bugne
rustiche
che,
seppur
schiacciato
dagli
enormi
cunei,
ammorsati
tra
di
loro,
quasi
“architrave”
di
tutta
la
organizzazione
della
facciata,
si
svincola
da
quella
“brutale”
oppressione
dal
raffinato
disegno
dei
suoi
due
mensoloni
e il
disegno
e
l’assemblaggio
degli
elementi
di
quel
bugnato
“architrave”
,
mostrando
nella
sua
terza
“campata”
– in
presenza
di
una
diversità
nel
numero
e
nell’assemblaggio
dei
suoi
elementi
costitutivi
–
l’evidente
“addizione”
del
corpo
di
fabbrica
contenente
le
quarte
finestre
ove
i
campi,
ben
maggiori
degli
altri,
risulta
ben
evidente
in
quello
contenente
la
finestra
del
terzo
ordine
ove
dai
due
dilatati
“triangoli”
mistilinei
emergono
due
robusti
putti
alati
di
dimensione
ben
diversa
da
quelli
dell’omologa
dell’altro
simile
campo,
mentre
la
quarta
finestra
del
secondo
ordine
riesce
a
“mistificare”,
data
la
riproposizione
dell’analogo
motivo
degli
uomini
distesi
sugli
spioventi
del
timpano,
seppur
quei
muscolosi
ignudi
siano
più
grandi.
In
conclusione
tutta
una
serie
di
“libertà”
compositive
e
formali
che
solo
una
“autorità”
artistica
poteva
imporre
a un
committente
di
certo
attento
e
culturalmente
disponibile
a
tale
“licenze”:
è
una
facciata
“miscredente”
in
una
Roma
ormai
dominata
dal
linguaggio
dell’architetto
del
papa,
Antonio
da
Sangallo
il
giovane,
d’altronde
abile
di
puntuali
e
controllate
“invenzioni/licenze”,
ma
frenate
all’interno
di
un
repertorio
compositivo
e
formale
“severo”,
non
“sonorità”
dotate
di
autonomia
di
dissonanza.