N. 74 - Febbraio 2014
(CV)
Paganesimo VS cristianesimo
uno scontro inevitabile
di Silvia Mangano
Lo
scontro
tra
paganesimo
e
cristianesimo
è un
conflitto
che
ha
interessato
gli
abitanti
dell’Impero
Romano
per
più
di
sei
secoli.
Entrambe
le
parti
contarono
martiri
e
carnefici
ed
entrambe
le
parti
combatterono
credendo
nei
propri
ideali
fino
alla
fine.
Ma
questo
scontro
si
poteva
evitare?
Era
possibile
trovare
un
terreno
comune
di
dialogo
su
cui
provare
a
costruire
una
pace?
Pur
condividendo
alcune
dottrine
(come
l’immortalità
dell’anima)
e
alcune
virtù
(come
l’esercizio
della
sapienza),
il
paganesimo
e il
cristianesimo
costituivano
due
realtà
destinate
allo
scontro,
le
cui
origini
sono
più
antiche
di
quanto
possiamo
immaginare.
Quando
Pilato,
dopo
aver
interrogato
Cristo,
si
sente
rispondere
“Per
questo
io
sono
nato
e
per
questo
sono
venuto
nel
mondo:
per
rendere
testimonianza
alla
verità.
Chiunque
è
dalla
verità,
ascolta
la
mia
voce”,
la
sua
laconica
sentenza
non
si
fa
attendere:
“Che
cos'è
la
verità?”.
Più
che
una
domanda,
quella
del
procuratore
romano
è
una
risposta
–
una
sentenza
–
che
esprime
il
pensiero
dominante
di
ciò
che
il
suo
ufficio
rappresenta.
Lo
storico
Gnilka,
a
tal
proposito,
scrive:
“Il
mondo
del
paganesimo
dotto
accoglie
con
scetticismo
e
disprezzo
la
pretesa
cristiana
di
possedere
e
annunciare
la
verità.
Questo
baratro
attraversa
la
storia
dello
spirito
nella
tarda
antichità
e
accompagna
il
cammino
della
chiesa
dei
primi
secoli.
La
visione
tipicamente
liberale
e
pagana,
secondo
la
quale
si
doveva
lasciar
sussistere
intatta
la
tradizione
religiosa
dei
popoli,
si
fonda
in
larga
parte
su
un
atteggiamento
scettico
e al
contempo
conservatore,
che
si
trova
in
nettissima
opposizione
con
la
convinzione
religiosa
del
cristiano:
dal
momento
che
comunque
non
si
può
conoscere
la
verità
o,
in
ogni
caso,
non
la
si è
ancora
trovata,
è
meglio
lasciare
tutto
così
com’è;
è
meglio
riconoscere
la
veneranda
cultura
di
un
popolo
e
con
essa
la
sua
religione
in
toto”.
In
questo
modo
risulta
comprensibile
la
facilità
che
i
romani
avevano
nell’incorporare
all’interno
del
proprio
pantheon
dèi
di
altre
culture
e
religioni,
e si
comprende
il
motivo
del
progressivo
sviluppo
sincretistico
del
paganesimo
e di
culti
di
divinità
“ibride”
come
Serapide.
Ancor
più
comprensibile
è il
motivo
dello
scontro
tra
romani
ed
ebrei,
prima,
e
tra
romani
e
cristiani,
poi:
“noi
cristiani
(il
discorso
è
valido
anche
per
gli
ebrei,
NdA)
ci
vantiamo
di
aver
raggiunto
ciò
che
i
pagani
hanno
cercato
con
estrema
fatica
e
che
tuttavia
non
hanno
potuto
trovare”
(Minucio
Felice,
Octavius).
Già
da
queste
considerazioni
preliminari,
è
chiaro
che
– a
livello
puramente
teorico
– il
paganesimo
e il
cristianesimo
non
potevano
coesistere:
i
cristiani
sostenevano
di
possedere
la
verità
in
virtù
di
Cristo
(che
è
“Via,
Verità
e
Vita”),
la
religione
dell’impero
romano
–
ben
diversa
dal
paganesimo
tribale
–
era
fondato
su
una
“tolleranza
dogmatica”
o su
un’indifferenza
forzata.
Con
la
conversione
del
vertice
imperiale
(soprattutto
con
l’ascesa
di
Teodosio,
379-395
d.C.),
il
cristianesimo
assesta
il
colpo
finale
al
paganesimo.
I
padri
dei
primi
secoli,
a
parte
qualche
rara
eccezione,
non
mettevano
in
dubbio
l’importanza
della
cultura
pagana:
Giustino
andava
in
giro
con
indosso
il
suo
mantello
da
filosofo,
per
rivendicare
con
orgoglio
di
essere
stato
un
platonico;
Gerolamo
sosteneva
che
la
conversione
doveva
passare
attraverso
lo
studio
delle
proprie
tradizioni
e
della
cultura
classica;
ecc.
Le
religioni
pagane
erano
viste
come
il
tentativo
umano
di
giungere
alla
conoscenza
di
un
Dio
ignoto,
che
nella
sua
provvidenza
attirava
a sé
tutti
i
popoli
con
i
mezzi
che
avevano
a
disposizione.
Il
congeniale
esempio
che
veniva
proposto
era
quello
dei
Magi:
senza
essere
avvertiti
da
angeli
e
profeti,
i re
pagani
avevano
utilizzato
la
propria
scienza
(l’astronomia)
per
cercare
la
Verità
e
questa
li
aveva
portati
da
Gesù.
Del
paganesimo
doveva
(non
“poteva”!)
essere
accolto
ciò
che
di
giusto
e
vero
conteneva,
perché
la
conversione
non
rappresentava
una
distruzione
dell’identità,
ma
una
purificazione,
un
cambio
di
direzione/ritmo
(cfr.
Agostino,
Epistola
137).
Su
questa
linea
di
condotta
si
può
ascrivere
la
decisione
dell’imperatore
d’Occidente
Graziano
di
rimuovere
la
statua
e
l’altare
della
Vittoria
dal
senato
romano
nel
382.
La
risposta
pagana
non
si
fece
attendere:
un
senatore
indignato,
conosciuto
alla
storia
come
Quinto
Aurelio
Simmaco,
pronunciò
un
discorso
d’esortazione
all’imperatore
davanti
a
tutto
l’ordine
senatorio
in
cui
difendeva
la
religione
dei
Padri
e
metteva
in
guardia
dalle
disgrazie
che
la
sospensione
degli
antichi
riti
avrebbe
provocato
su
tutto
l’Impero.
La
famosa
Relatio
de
ara
Victoriae
poggiava
l’intera
impalcatura
su
tre
concetti
sostanziali:
in
primo
luogo,
Simmaco
ripropose
la
tesi
romana
per
cui
“Che
importa
se
ognuno
cerca
la
verità
a
suo
modo?
Non
si
può
seguire
una
sola
strada
per
raggiungere
un
mistero
così
grande”;
in
secondo
luogo,
veniva
ribadito
che
i
fondamenti
della
religione
pagana
di
stato
imponevano
all’imperatore
di
celebrare
le
feste
in
modo
ufficiale,
con
sovvenzioni
statali
(immaginiamo
l’imbarazzo
di
Simmaco
a
questa
richiesta,
non
solo
perché
l’imperatore
era
cristiano,
ma
anche
perché
il
cristianesimo
si
era
sviluppato
e
diffuso
senza
finanziamenti
pubblici
e
non
riscuoteva
nulla
dal
bilancio
dello
stato);
infine,
nessuno
vietava
a un
imperatore
appartenente
a
una
religione
di
rispettare,
professare
e
godere
dei
benefici
di
un’altra.
Come
fece
notare
Ambrogio,
suo
oppositore
e
vescovo
di
Milano,
nessuno
di
questi
tre
punti
era
accettabile
per
la
religione
cristiana:
prima
di
tutto
perché,
come
si è
detto
in
precedenza,
i
cristiani
concepiscono
solo
due
vie
(una
è
quella
che
porta
alla
Vita,
l’altra
è la
strada
che
porta
alla
morte
dell’anima);
poi
perchè
il
sacrificare
agli
dèi
dell’impero
romano
non
significava
soltanto
macchiarsi
di
idolatria,
ma
equivaleva
a
commettere
un
vero
e
proprio
atto
di
apostasia;
dulcis
in
fundo,
nella
migliore
delle
ipotesi,
gli
idoli
a
cui
avrebbero
reso
culto
erano
soltanto
statue,
incapaci
di
concedere
benefici.
L’accanimento
del
paganesimo
colto
nei
riguardi
dell’imperatore
è
del
tutto
giustificato,
poiché
la
religione
imperiale
necessitava
di
un
pontifex
maximus,
che
detenesse
sia
il
potere
civile
sia
il
potere
spirituale.
Il
suo
compito
principale
era
il
mantenimento
della
pax
deorum,
ovvero
la
concordia
tra
i
cives
e le
divinità,
e
l’amministrazione
dello
jus
divinum,
che
si
occupava
della
codificazione
delle
leggi
religiose,
e
del
diritto
romano.
Il
cristianesimo
separò
definitivamente
queste
sfere,
creando
la
divisione
(inimmaginabile
per
i
romani)
tra
chiesa
e
stato,
tra
ministero
spirituale
(riservato
ai
vescovi)
e
ministero
imperiale.
Siamo
arrivati
al
nucleo
dell’aporia
che
impedisce
qualsiasi
accordo
tra
cristiani
e
pagani,
il
confine
oltre
il
quale
si
spalanca
il
baratro.
Sebbene
un
tale
argomento
necessiti
di
uno
spazio
vastissimo
e di
una
meticolosa
opera
di
approfondimento,
è
sembrato
opportuno
mettere
sinteticamente
in
risalto
le
problematiche
principali
che
opposero
le
due
parti.
“Sebbene
i
parametri
della
nostra
sensibilità
attuale,
è
incontestabile
che
il
cristianesimo
trionfante
si
sia
mostrato
estremamente
intollerante
nei
confronti
dei
culti
tradizionali
[…].
Di
fronte
a
una
dottrina
che
si
manifesta
allora
sotto
una
forma
totalitaria,
i
pagani
non
hanno
un
compito
facile,
ma
dobbiamo
riconoscere
d’altronde
che
ricorrono
ad
argomentazioni
scarsamente
convincenti
per
dei
cristiani.
Ma
ciò
che
principalmente
li
blocca
è il
fatto
che
i
riti
da
loro
difesi
sono
legati
allo
stato:
spogliati
del
loro
carattere
ufficiale,
non
sono
altro
che
vane
finzioni,
ed
era
certamente
inimmaginabile
violare
la
coscienza
degli
imperatori
o
imporre
loro
un
finanziamento
che
respingevano.
[…]
Essi
stessi
erano
altrettanto
rigidi
nelle
proprie
posizioni
quanto
i
loro
avversari.
Il
dibattito
fra
cristiani
e
pagani
vede
il
confronto
fra
due
affermazioni
assolute
per
loro
natura”
(F.
Paschoud,
L’intolleranza
cristiana
vista
e
giudicata
dai
pagani).