N. 57 - Settembre 2012
(LXXXVIII)
il Paesaggio e la Storia
L’ambiente che testimonia la memoria di un popolo
di Christian Vannozzi.
Come
scrisse
Ovidio,
nell'opera
'Simulaverat
Artem'
ingenio
natura
suo,
la
natura
si
ingegna
a
imitare
l'arte.
In
quell'inizio
di
secolo
i
pensatori
e
gli
intellettuali
di
mezza
Europa
iniziavano
ad
interrogarsi
sulla
conservazione
del
paesaggio,
appunto
come
se
fosse
una
vera
e
propria
opera
d'arte.
Il
nostro
Paese
detiene
anche
il
primato
di
primo
stato
al
mondo
che
ha
inserito
nella
sua
costituzione
il
rispetto
del
paesaggio.
L'articolo
9
della
costituzione
della
Repubblica
Italiana,
al
comma
2
recita:
La
Repubblica
tutela
il
paesaggio
e il
patrimonio
storico
artistico
della
Nazione.
Questo
è
motivo
di
vanto
e di
orgoglio
non
solo
a
carattere
nazionale
ma
per
tutti
coloro
che
si
sono
battuti
ed
hanno
agito
per
il
raggiungimento
di
questo
obiettivo
che
è
senza
alcun
dubbio
di
importanza
storica
e
sociale.
Il
patrimonio
paesaggistico
è
qualcosa
che
identifica
e
caratteristica
un
luogo
e di
conseguenza
la
popolazione
che
vi
risiede,
non
è
qualcosa
di
cui
si
può
fare
a
meno,
ma
qualcosa
che
se
trascurata
tende
a
notarsi
cancellando
parti
della
nostra
storia.
Nell'Italia
pre-unitaria
si
possono
rintracciare
i
legami
di
questa
unione
tra
paesaggio
ed
opera
storico
artistica.
Il
decreto
del
Real
Patrimonio
di
Sicilia
del
21
agosto
1745,
simultaneamente
impose
la
conservazione
delle
antichità
di
Taormina
e
dei
boschi
del
Carpinetto
a
monte
di
Mascali
col
“castagno
dei
cento
cavalli”.
Governi
progressisti
dal
punto
di
vista
normativo
paesaggistico
e
che
davano
risalto
al
benessere
pubblico
più
che
a
quello
statale
hanno
creato
i
presupposti
ed i
precedenti
storici
per
dar
vita
ad
un
iter
legislativo
che
porterà
alla
creazione
su
scala
nazionale
delle
norme,
raccolte
in
delle
leggi,
che
tuteleranno
i
nostri
patrimoni.
Autore
del
provvedimento
fu
il
vicerè
di
Sicilia
Bartolomeo
Corsini,
nipote
di
Clemente
XII,
il
papa
a
cui
dobbiamo
importantissime
norme
di
tutela
del
paesaggio
e
dei
beni
architettonici,
nonchè
la
fondazione
del
Museo
Capitolino,
e
fratello
del
cardinale
Neri
Corsini,
ispiratore
del
“patto
di
famiglia”
Medici-Lorena
(1737)
che
assicurò
a
Firenze
in
perpetuo
le
collezioni
medicee.
In
pratica
Anna
Maria
Luisa
de
Medici,
ultima
discendente
della
grande
casata
ducale,
stabilì
che
i
Lorena,
che
acquisirono
il
Granducato,
non
potessero
trasportare
o
levare
fuori
della
Capitale
e
dello
Stato
del
GranDucato,
Gallerie,
Quadri,
Statue,
Biblioteche,
Gioie
ed
altre
cose
preziose...
della
successione
del
Serenissimo
GranDuca,
affinché
esse
rimanessero
per
ornamento
dello
Stato,
per
utilità
del
Pubblico
e
per
attirare
la
curiosità
dei
Forestieri.
Con
questa
manovra
politica
e
grazie
al
suo
grande
amore
per
l’arte
e
per
la
sua
città,
Firenze,
l’ultima
Medici
riuscì
a
preservare
il
Gran
Ducato
dagli
scempi
che
subirono
altre
città
d’arte
italiane
come
Ferrara,
Urbino,
Mantova
e
Parma,
che
una
volta
estinte
le
storiche
casate
che
le
governavano
furono
deturpate
dei
loro
tesori
artistici.
Come
si
vede
la
conservazione
del
patrimonio
paesaggistico
e
culturale
era
una
prerogativa
italiana
anche
prima
dell'unità,
ed è
facile
constatarlo
nelle
direttive
prese
in
questa
direzione
da
questi
tre
stati
della
Penisola,
e
cioè
il
Regno
delle
Due
Sicilie,
lo
Stato
Pontifico
e il
Granducato
di
Toscana.
Queste
terre
erano
infatti
ricche
di
storia
sia
Romana
che
Rinascimentale,
e
più
degli
altri
Stati
erano
gelosi
dei
loro
tesori.
Esse
furono,
di
fatto,
la
rielaborazione
delle
due
grandi
leggi
dell’Italia
liberale:
la
legge
Rava-Rosadi
del
1909
sulla
tutela
del
patrimonio
storico
e
artistico
e,
appunto,
la
legge
Croce
per
la
difesa
del
paesaggio.
In
Italia
la
tutela
del
patrimonio
artistico
è
antica,
anzi
si
può
dire
senza
commettere
errore
che
è la
più
antica
del
mondo.
Questo
sia
in
virtù
di
un
grande
‘patrimonio
artistico
e
ambientale,
ma
anche
per
una
tradizione
giuridica
favorevole,
specialmente
negli
Stati
del
Centro-Sud.
In
tutti
gli
stati
italiani,
eccezion
fatta
per
il
Regno
di
Sardegna,
che
in
misura
assai
minore
agli
altri
Stati
che
precedettero
l'unificazione,
si
adoperò
per
la
tutela
del
patrimonio
storico
artistico.
Questo
stesso
Stato
fu
però
la
guida
italiana
all'unificazione
e fu
poi,
in
seguito,
pronto
a
recepire
quanto
di
importante
vi
era
nelle
leggi
di
tutela
stabilite
dai
singoli
Stati
che
furono
annessi.
Il
Regno
di
Sardegna
stabilì
con
il
regio
decreto
del
re
Carlo
Alberto
nel
1832
che
'i
provvedimenti
propri
a
promuovere
la
ricerca,
e ad
assicurare
la
conservazione»
degli
oggetti
di
antichità
e
d’arte
dovevano
comunque
esser
tali
da
potersi
attuare
«senza
ledere
il
diritto
di
proprietà.
Il
Piemonte
non
aveva
infatti
una
grande
tradizione
artistica
e
paesaggistica
e la
mentalità
di
regnanti,
politici
ed
intellettuali
era
molto
diversa
da
quella
del
restante
territorio.
Si
dovrà
infatti
faticare
non
poco
per
arrivare
ad
una
normativa
unitaria,
che
sia
espressione
della
nazione
e
non
di
un
territorio
facente
parte
del
Regno.
Su
questo
terreno
operarono
i
vari
Rava,
Rosadi
e
Croce.
Lo
Statuto
Albertino
del
1848
riaffermò,
infatti,
il
principio
che
«Tutte
le
proprietà,
senza
alcuna
eccezione,
sono
inviolabili»
(art.
29),
temperandolo
appena
con
l’ipotesi
di
esproprio
dietro
«giusta
indennità»
quando
lo
esigesse
«l'interesse
pubblico
legalmente
accertato».
Possiamo
ben
capire
quanto
gli
altri
Stati
italiani
fossero
all'avanguardia
se
mettiamo
le
varie
legislazioni
a
confronto.
Negli
altri
Stati
la
proprietà
privata
era
molto
meno
marcata
se
veniva
a
ledere
qualcosa
di
interessa
statale.
La
tradizione
di
derivazione
geco-romana
aveva
fatto
in
modo
che
l’ambiente
sociologico
e di
conseguenza
la
popolazione
del
luogo
a
vari
livelli
culturali,
fosse
più
vicina
all’interesse
pubblico
che
a
quello
privato.
Nel
Regno
Sabaudo
le
cose
erano
però
molto
diverse,
e la
tutela
del
patrimonio
artistico
passava
in
secondo
piano,
in
quanto
era
la
proprietà
privata
ad
essere
considerata
‘sacra’,
e
non
l’interesse
pubblico,
quasi
come
se
fosse
una
nota
stonante
nel
nostro
Paese,
ma
come
spiegato
fu
il
Piemonte
ad
unificare
l’Italia,
grazie
a
vere
e
proprie
guerre
di
conquista
più
che
di
liberazione,
e
sarà
quindi
questo
Stato
a
guidare
la
politica
della
Penisola.
Dopo
l'unificazione
della
Penisola,
il
Primo
Ministro,
Camillo
Benso,
conte
di
Cavour,
con
il
ministro
Mamiani,
cercarono
di
unificare
la
legislazione
paesaggistica
che
si
dibatteva
fra
le
istanze
locali
e il
parlamento
nazionale.
Come
spiegato
le
tradizioni
culturali,
civili
e
legislative
erano
molto
differenti
e
trovare
un
modo
comune
per
guidare
una
normativa
del
genere
attraverso
le
varie
tipologie
territoriali
che
formavano
l’Italia
era
impresa
assai
ardua.
Mamiani
non
riuscì
infatti
ad
elaborare
un
testo
che
fosse
approvato
in
parlamento,
dove
i
particolarismi
nel
neonato
Stato
erano
troppo
grandi
e il
potere
centrale
ancora
troppo
debole
e
desideroso
di
farsi
ben
volere
ed
integrare
nel
resto
della
Penisola.
Fu
questo
un
bene,
in
quanto
si
arrestarono
le
spinte
politiche
che
volevano
che
i
privati
predisponessero
a
loro
piacimento
sia
dei
loro
beni
che
dei
loro
territori,
senza
nessun
riguardo
per
l’arte
e
per
la
natura.
Il
Ministro
della
Pubblica
Istruzione,
Cesare
Correnti,
esponente
di
spicco
della
destra
storica,
propose
un
disegno
di
legge
volte
alla
conservazione
dei
beni
artistici.
La
volontà
del
Ministro
era
infatti
volta
a
tutelare
la
conservazione
delle
collezioni
d'arte,
in
modo
che
l'interesse
nazionale
sia
tutelato
rispetto
ai
privati.
E'
infatti
importante
che
la
storia
della
Nazione
fosse
conservata
per
i
posteri.
Purtroppo
l
primo
catalogo
di
opere
«di
sommo
pregio»,
perciò
invendibili
in
virtù
della
legge,
uscì
sulla
Gazzetta
Ufficiale
del
31
dicembre
1903.
Erano
solo
nove
pagine,
e il
documento
era
palesemente
da
completarsi.
Era
dunque
un
passo
importante
per
la
tutela
in
modo
unitario
ma
certamente
non
era
sufficiente.
Mancava
ancora
la
volontà
di
confrontarsi
con
un
patrimonio
immenso
che
andava
tutelato
punto
per
punto.
Un
catalogo
del
genere
non
arrivava
mai
alla
fine,
e la
legge
del
1903
dovette
esser
prorogata
di
anno
in
anno
per
ben
sei
volte,
finché
non
si
arrivò
a
una
nuova
e
più
organica
legge:
la
legge
n.
364
del
20
giugno
1909
«Per
l’antichità
e le
belle
arti»,
che
segna
il
vero
atto
di
nascita
della
disciplina
nazionale
italiana
della
tutela,
dalla
quale
venne
poi
ogni
altra
disposizione,
fino
a
oggi.
La
legge
del
1909
porterà
la
firma
del
ministro
Luigi
Rava,
ravennate,
ma
deve
almeno
altrettanto
a un
altro
ravennate,
Corrado
Ricci,
che
Rava
nominò
Direttore
Generale
alle
Antichità
e
Belle
Arti,
al
deputato
toscano
Giovanni
Rosadi
e
all’abruzzese
Felice
Barnabei,
che
prima
di
essere
deputato
era
stato
anch’egli
Direttore
Generale
alle
Antichità
e
Belle
Arti.
La
legge
fece
più
volte
la
spola
fra
Camera
e
Senato,
ma
la
mozione
fiorentina,
unendosi
all’emozione
per
il
terremoto
di
Messina
(28
dicembre
1908),
determinò
la
finale
approvazione
: fu
la
legge
nr.
364
del
30.6.1909.
Alcuni
principi
della
legge
originale
non
riuscirono
comunque
a
passare
al
Senato.
Uno
di
questi
era
esposto
all'art.
1
che
recitava:
«giardini,
foreste,
paesaggi,
acque,
e
tutti
quei
luoghi
ed
oggetti
naturali
che
abbiano
l’interesse
sovraccennato».
Era
stato
il
ministro
Rava
a
volere
a
causa
delle
devastazioni
romane,
che
avevano
portato
allo
smantellamento
di
Villa
Ludovisi
e
minacciavano
anche
Villa
Borghese.
Questo
primo
tentativo
di
tutela
del
paesaggio
e
dell’ambiente
naturale
avrebbe
avuto
esito
più
tardi
con
leggi
ad
hoc
: ma
è
importante
rilevare
che
già
nel
1909
era
ben
presente
lo
stretto
legame
fra
tutela
del
patrimonio
culturale
e
tutela
del
paesaggio,
che
sarà
caratteristica
peculiare
del
sistema
italiano,
e
culminerà
nell’art.
9
della
Costituzione
vigente.
Il
tema
della
tutela
del
paesaggio,
anche
se
non
riuscì
ad
essere
istituzionalizzato
nella
legge
del
1909,
era
da
tempo
all’ordine
del
giorno,
anche
per
influenza
di
altre
esperienze
europee.
In
Francia
la
legge
Beauquier
del
1906
sulla
protezione
del
paesaggio
e
dei
siti
storici,
pittoreschi
e
leggendari,
che
prevedeva
un
classement
dei
paesaggi
a
seconda
del
livello
di
interesse,
e
forme
di
protezione
negoziata
fra
le
amministrazioni
pubbliche
e i
proprietari
privati,
aveva
suscitato
un
forte
dibattito
negli
ambienti
politici
e
culturali,
che
ebbe
risonanza
nell'intero
vecchio
continene.
Nel
1910,
meno
di
un
anno
dopo
l’approvazione
della
legge
da
cui
il
Senato
aveva
cancellato
l’articolo
relativo
al
paesaggio,
Giovanni
Rosadi
presentò
una
nuova
proposta
di
legge
tesa
a
tutelare
«i
paesaggi,
le
foreste,
i
parchi,
i
giardini,
le
acque,
le
ville
e
tutti
quei
luoghi
che
hanno
un
notevole
interesse
pubblico
a
causa
della
loro
bellezza
naturale
o
della
loro
particolare
relazione
con
la
storia
e
con
la
letteratura»,
e
che
perciò
«non
possono
essere
distrutti
né
alterati
senza
autorizzazione
del
Ministero
della
Pubblica
Istruzione»;
per
garantirlo,
erano
previsti
vincoli
del
tutto
analoghi
a
quelli
previsti
dalla
legge
del
1909
per
i
monumenti
e
gli
oggetti
d’arte.
Nella
sua
relazione,
Rosadi
prendeva
come
esempio
il
parco
nazionale
di
Yellowstone,
e il
modo
in
cui
il
Governo
degli
Stati
Uniti
si
era
pronunciato
per
la
tutela
del
paesaggio.
Rosadi
cercava
di
connettere
paesaggio
e
ambiente:
«come
si
eccitano
e
diffondono
precetti
di
igiene,
di
decenza,
di
quiete
e di
riposo,
così
non
è
forse
eccesso
di
persecuzione
legislativa
imporre
obblighi
di
rispetto
alla
bellezza
che
non
si
crea
[cioè
ai
paesaggi
naturali],
particolarmente
in
Italia!».
Rosadi
aveva
innescato,
sull’onda
lunga
della
legge
del
1909,
un
vasto
movimento
d’opinione,
che
portò
nel
1913
alla
nascita
del
Comitato
Nazionale
per
la
Difesa
del
Paesaggio
e
dei
Monumenti,
una
sorta
di
«cartello
di
associazioni».
Questo
comitato
si
muoveva
congiuntamente
fra
tutela
dei
monumenti
e
tutela
del
paesaggio.
Fra
i
più
vigili
assertori
di
una
nuova
legge
specifica
a
tutela
del
paesaggio,
oltre
a
Rosadi,
fu
sempre
Corrado
Ricci,
che
era
stato
fra
gli
artefici
della
legge
sulla
pineta
di
Ravenna
(1905)
e
poi
della
L.
364/1909,
e
ancora
ricopriva
la
carica
di
Direttore
Generale
alle
Antichità
e
Belle
Arti;
ma
l’impulso
decisivo
fu
dato
da
Francesco
Saverio
Nitti,
quando
nel
suo
primo
governo
istituì
per
regio
decreto
(n.
1792/1919)
un
Sottosegretariato
alle
Antichità
e
Belle
Arti,
quasi
un
preannuncio
del
Ministero
dei
Beni
Culturali
creato
quasi
sessant’anni
dopo.
Primo
sottosegretario
fu
il
veneziano
Pompeo
Molmenti,
che
aveva
partecipato
alle
battaglie
per
la
tutela
d’inizio
secolo.
Dopo
pochi
mesi
Molmenti
si
dimise
per
protesta
contro
la
mancanza
di
risorse
economiche
e fu
sostituito
da
Giovanni
Rosadi,
che
assunse
l’ufficio
in
continuità
con
il
suo
predecessore,
definendolo
«esempio
e
stimolo
della
dignità
del
fare
e
del
pensare»,
e lo
tenne
anche
nei
successivi
governi
Giolitti
e
Bonomi.
Egli
presentò
la
legge
in
Senato
il
25
settembre
1920,
e ne
ottenne
l’approvazione
il
31
gennaio
1921.
Alla
Camera
fu
approvata
il
17
febbraio
1921.
Nella
sua
relazione
Benedetto
Croce
esordisce
dicendo:
«Che
una
legge
in
difesa
delle
bellezze
naturali
d’Italia
sia
invocata
da
più
tempo
e da
quanti
uomini
colti
e
uomini
di
studio
vivono
nel
nostro
Paese,
è
cosa
ormai
fuori
da
ogni
dubbio».
Continuando
la
sua
relazione
Benedetto
Croce
spiega
che
occorre
dunque
una
legge
che
«ponga,
finalmente,
un
argine
alle
ingiustificate
devastazioni
che
si
vanno
consumando
contro
le
caratteristiche
più
note
e
più
amate
del
nostro
suolo».
Questa
esigenza
era
stata
percepita
anche
dal
precedente
Governo,
formato
dall'Onorevole
Nitti,
che
spiegò
come
sia
doverosamente
importante
la
tutela
del
patrimonio
paesaggistico
ed
artistico
della
nostra
Penisola.
La
tutela
del
paesaggio
veniva
così
congiunta
“antichità
e
belle
arti”,
senza
trascurare
il
lato
economico
che
la
valorizzazione
del
patrimonio
culturale
poteva
rendere
al
nostro
Paese.
Il
paesaggio,
secondo
le
parole
di
Croce,
non
è
altro
che
«la
rappresentazione
materiale
e
visibile
della
patria,
con
i
suoi
caratteri
fisici
particolari,
con
gli
aspetti
molteplici
e
vari
del
suo
suolo,
quali
sono
formati
e
son
pervenuti
a
noi
attraverso
la
lenta
successione
dei
secoli».
A
Croce
spetta
anche
il
merito
di
aver
richiamato
non
solo
il
precedente
della
legge
francese
del
1906
ma
la
ricca
tradizione
germanica,
che
tra
Otto
e
primo
Novecento
aveva
raggiunto
un
punto
assai
alto.
Fu
quindi
grazie
agli
intellettuali
che
sedettero
in
parlamento
nel
neonato
Regno
d’Italia
che
il
patrimonio
paesaggistico
italiano
fu
regolamentato
prima
dalle
leggi
del
Regno
e
poi
dalla
Costituzione
della
repubblica.
Se
fosse
stato
per
il
Piemonte
e
per
la
mentalità
torinese
non
si
sarebbe
mosso
niente
nel
nostro
paese,
anzi
gli
imprenditori
e
l’equipe
liberale
non
avrebbero
mai
favorito
una
legge
che
si
sarebbe
mostrata
deleteria
per
una
mentalità
che
prediligeva
il
privato
sul
pubblico,
in
quanto
gli
speculatori
edilizi
non
sono
mai
mancati
e un
substrato
sociale
ed
intellettuale
favorevole
alle
speculazioni
e
all’interesse
privato
sarebbe
stato
utilissimo
per
arricchirsi
a
discapito
del
nostro
paesaggio
e
delle
bellezze
naturali.
Fortunatamente
la
tradizione
classica
legata
agli
ideali
romani
e
viva
negli
stati
della
Penisola
che
rappresentavano
la
cultura
italiana
nel
mondo
viveva
in
numerosi
studiosi
ed
intellettuali
entrati
in
Parlamento,
tra
questi
il
citato
Benedetto
Croce
ma
anche
Giovanni
Rosadi,
Vittorio
Spinazzola,
il
giurista
Luigi
Biamonti
dell’Avvocatura
Erariale
e
altri
esponenti
minori
che
sia
nelle
file
legislative
che
nei
comitati
di
quartiere
hanno
reso
possibile
questo
obiettivo.
La
nostra
Terra
è
legata
a
luoghi
storici
che
hanno
visto
importantissimi
attori
affacciarsi
sullo
scenario
della
storia
sia
nazionale
che
mondiale.
Battaglie,
incontri,
bellezze
naturali,
ville
signorili,
cascate,
pinete
ecc.
sono
ormai
tesori
della
nostra
cultura
che
devono
essere
tutelati
e
che
attirano
turisti
da
tutto
il
mondo.
Lo
Stato
e
gli
enti
locali
hanno
quindi
il
dovere
di
tutelarli
e di
rendere
in
questo
modo
omaggio
a
chi
si è
battuto
per
il
mantenimento
di
questo
Status.
Riferimenti
bibliografici:
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scavi
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romano
ad
oggi,
corredata
dalla
legislazione
complementare
e
dalla
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