N. 17 - Ottobre 2006
PADRONA
DEL SUO DESTINO
Veronica Franco, la cortigiana che non fu di
nessuno
di
Alessia Ghisi Migliari
Padrona del
suo destino è il titolo di un film.
Una pellicola
che parla proprio di lei, protagonista magnifica e
discussa dell’opulenta Venezia di secoli fa.
La Serenissima
era il non plus ultra della modernità, nel
sedicesimo secolo.
Cosmopolita,
ricca, sfarzosa, narcisista che sfrigolava delle
luci che venivano dai suoi canali, il commercio,
la cultura e l’arte la rendevano unica e preziosa.
Era il centro
del futuro, con la forza di un passato glorioso.
E di fronte a
tanta grandiosità, gli stranieri si perdevano, e
nel perdersi non era raro incrociare quelle che,
in molti altri luoghi del tempo, sarebbero state
additate e condannate dalla morale e dal
buongusto.
Ma a Venezia,
le cortigiane facevano parte del paesaggio, in un
certo senso.
Il censimento
del 1509 ne conta ben 11164, e non si nascondevano
di certo, pur dovendo sottostare a precise leggi.
Dovevano
abitare un quartiere vicino al ponte di Rialto,
detto “Il castelletto” o non molto più lontano,
“Alle carampane”.
Ma non si deve
immaginare un luogo fatiscente dove vecchie
meretrici attendono clienti.
In realtà, c’è
da fare una distinzione: c’era la cortigiana di
lume, purtroppo prostituta povera e ben poco
fortunata, e la celebre cortigiana onesta,
una figura difficile da descrivere, persino ai
nostri occhi disincantati.
Si trattava di
fanciulle che spesso provenivano da quel medesimo
ambiente, che venivano cresciute per questo
mestiere, e che avevano la rarissima possibilità
(per una donna) di essere colte, talvolta
coltissime.
Sapevano
esprimersi correttamente in più lingue, sapevano
di canto e poesia e Storia, sapevano conversare
quindi in una maniera assai affascinante,
difficilmente paragonabile alle scarse abilità
dialettiche di pulzelle tirate su solo per essere
accomodanti mogli e madri.
Non era quindi
raro che gli ‘utenti’ di queste menti emancipate
(per lo più danarosi e potenti) finissero per
innamorarsi della personalità notevole di queste
rare perle, avvicinate per la loro eleganza e il
loro aspetto, e poi adorate per doti più nascoste,
che le legittime consorti difficilmente potevano
vantare.
Coi loro abiti
degni di principesse, la loro parlantina, venivano
spesso invidiate dalle coetanee votate a più
usuale Fato.
Ma spesso anche
loro dovevano affrontare i pregiudizi, il tempo e
la fortuna che le rendeva più o meno gradite, la
maschera che si portavano appresso.
E tra le
cortigiane dell’epoca, emerge, nettamente Veronica
Franco.
Nata nel 1546,
figlia di un’ onesta, sua madre la fece
sposare, giovanissima, a un medico, ma le nozze
finirono presto e male, e la genitrice, scaltra,
non avendo trascurato l’educazione della piccola,
l’avviò al suo antico mestiere.
Decisa ad
essere indipendente, libera per come poteva essere
una donna dell’epoca, Veronica iniziò la sua
attività di cortigiana con uomini ricchi,
divenendo presto famosa, al punto di essere membro
di spicco ne “Il catalogo di tutte le principali
et più honorate cortigiane di Venezia”, cosa che a
noi può far sorridere, ma che aveva una sua
dignità.
Ebbe persino
una veloce liason con Enrico III di Francia
(fu scelta appositamente lei, in quanto giudicata
l’unica a poter sconvolgere i sensi
dell’importante sovrano in viaggio diplomatico).
La sua casa era
aperta ad artisti e intellettuali, e lei stessa
componeva versi, pubblicando due volumi di poesie
(“Terze rime” nel 1575 e “Lettere familiari a
diversi” nel 1580) e molte lettere, e conservando
opere altrui che la sua fama di Mecenate giudicava
talentuose.
A differenza
delle sue colleghe, non aveva un unico e
principale protettore, ma preferiva cambiare,
contando per lo più solo sulle proprie capacità,
per quanto fu a lungo legata a Marco Venier,
membro di spicco della società veneziana.
Quando la peste
raggiunse la Serenissima, nel 1575, fu costretta a
lasciare la città, tanta fama, e perse gran parte
dei suoi possedimenti.
Una volta
tornata, faceva parte di una vasta schiera di
donne nullatenenti, e fu proprio lei a insistere e
consentire la nascita di una casa che ospitasse
queste infelici.
Fu lei a
gestire quel luogo, a crescere i suoi figli (ne
ebbe sei) e gli orfani lasciati dalla malattia, i
figli di altre cortigiane, che spesso ospitava
affinchè potessero cambiare mestiere, imparare un
lavoro.
Non era un
pietoso pentimento della sua esistenza pre-peste,
ma la ferma volontà di trovare sempre più degne
possibilità di indipendenza per le giovani, in
modo che potessero scegliere altre strade, in cui
costruire la loro emancipazione e personalità.
La sorte le
riservò numerosi colpi, ma lei risuciva sempre a
crearsi scappatoie.
Nota come una
delle rare ‘letterate’, finì di fronte alla non
proprio compassionevole Inquisizione, che
l’accusava di stregonerie e delle varie amenità
che andavano tanto di moda presso i pii giudici.
Riuscì da sè,
col suo eloquio, in tribunale, a farsi scagionare,
malgrado quei capelli rosso tiziano e quel viso
intenso che in effetti avevano un che di
sovrannaturale.
Gli ultimi suoi
anni furono poverissimi, ma liberi, davvero
liberi.
Per quanto il
suo stile di vita possa apparire oggigiorno ‘squallido’,
era in realtà l’unica occasione possibile al
tempo.
E lei fece di
questa oppotunità opera d’arte e di conoscenza.
Padrona del suo
destino, veramente e con caparbietà, muore nel
1591, relativamente oscura, ma soddisfatta.
Lei stessa
scrisse : "io sono tanto vaga e con tanto mio diletto
converso con coloro che sanno, per aver occasione
ancora d'imparare, che, se la mia fortuna il
comportasse, io farei tutta la mia vita e
spenderei tutto l'mio tempo dolcemente
nell'accademia degli uomini virtuosi".
La sessualità era per lei parte necessaria e mezzo
per coltivarsi in ben altri modi.
Tintoretto la
dipinse, il filosofo de Montaigne la lodò, e lei
trascorse l’ultima parte dell’esistenza nella casa
per ragazze-madri e prostitute, insegnando la
ricerca di se stesse e del proprio personale
destino.
Difficilissima
architettura, converrete.
|