medievale
1233: LA PACE DI PAQUARA
IL CAPOLAVORO DI GIOVANNI DA VICENZA
di Raffaele Pisani
Le coordinate spazio temporali nelle
quali si colloca il presente discorso
sono riferibili all’Italia centro
settentrionale nei primi decenni del
secolo XIII. Le lotte per la supremazia
del potere universale tra papato e
impero e il formarsi di nuove entità che
reclamavano forme di autonomia
caratterizzavano le vicende politiche di
quegli anni.
Né le istituzioni universali né i comuni
avevano la forza sufficiente per
stabilizzare la situazione. Questi
continui conflitti, spesso sanguinosi ma
mai decisivi, deprimevano la vita nei
suoi aspetti economici e sociali. Pur se
a livello generale la rinascita che di
solito si riferisce all’anno mille
procedeva in gran parte d’Europa, e la
nostra penisola non era da meno, questi
continui conflitti costituivano un
fattore limitante per le manifatture i
commerci e per tutte le attività umane
in generale.
Una situazione di perenne precarietà per
la popolazione unita a idee
millenaristiche più o meno vaghe e a una
propensione per un soprannaturale che
irrompe nel tempo era il terreno ideale
per lo sviluppo di determinati fenomeni
sociali che costituiscono la cifra di
tanti aspetti del costume e della
mentalità medievale.
Il susseguirsi in un breve lasso di
tempo di solenni promesse di pace
seguite dalla ripresa di sanguinose
controversie ci induce a vedere l’evento
come un grande apparato di simulazione,
di cui d’altra parte è difficile
individuare il regista. Altrettanto
difficile è stabilire chi abbia ottenuto
vantaggi e chi ne sia stato danneggiato.
In ogni caso l’uomo medievale, più di
quanto lo siamo noi, è portato a vivere
certi momenti solenni con una
partecipazione totalizzante che lo porta
a credere che ciò che sta accadendo è
vero e garantito da Dio. La sua
instabilità emotiva lo spinge a vivere
pienamente un presente che non risente
più di tanto di ciò che è accaduto
appena poco tempo prima.
Le notizie di cui siamo a conoscenza sui
predicatori che operarono in questo
periodo vengono narrate in gran parte da
Salimbene de Adam, francescano (Parma
1221 – San Polo d’Enza 1288), in una
Cronica che scrisse in età avanzata.
Il movimento dell’Alleluja, che avrà il
suo apice nel 1233, si proponeva di
pacificare gli animi, di mitigare le
pretese dei potenti e di arrivare
quindi, non solo a semplici accordi
politici, ma a una fratellanza
universale. Nato come movimento
spontaneo popolare, venne ben presto
utilizzato dalla chiesa soprattutto in
funzione antiereticale. I veicoli di
tale messaggio erano dei predicatori,
perlopiù appartenenti agli ordini
mendicanti dei francescani e dei
domenicani, anche se c’era qualcuno che
agiva a titolo personale.
Viene ricordato un certo Benedetto, un
eremita semplice e incolto detto
frater de Cornetta, forse per un
piccolo strumento a fiato che usava per
richiamare i fedeli “tuba parvula
aenea, sive de oricalco”, dal quale
si diceva traesse suoni ora terribili
ora soavi. Questi proprio nel 1233
riuscì a pacificare le fazioni del
Comune di Parma. Sempre in questa città
operarono altri predicatori come il
minorita fra Gerardo (o Gherardo)
Maurisio, che svolse di fatto per
qualche tempo le funzioni podestarili.
Il domenicano Giacopino di Parma operò
invece a Reggio, dove convinse i
cittadini a edificare una chiesa
dedicata all’ordine a cui apparteneva.
Il francescano frate Leone, di
un’importante famiglia milanese, riuscì
invece a comporre le controversie dei
Piacentini.
Alcuni erano dotti negli studi teologici
ma la loro caratteristica peculiare era
il modo di predicare che faceva grande
presa sulla gente. La loro parola
affascinava le folle e determinava
nell’immediato sensibili cambiamenti
nell’agire sociale, anche se si
dimostreranno poco durevoli.
Fra tutti i predicatori dell’Alleluja la
figura di fra Giovanni da Vicenza spicca
per la sua autorità e per gli effetti
della sua azione, che arrivò ad attirare
l’attenzione delle autorità universali.
Operò per un certo tempo a Bologna, poi
a Padova, dove fece parte della
commissione per la canonizzazione di
Antonio, e Verona, ma gli effetti della
sua predicazione si fecero sentire in
gran parte d’Italia, specie nel
Settentrione.
Per arrivare all’evento che ci
interessa, sappiamo che nel 1233
l’imperatore era Federico II mentre il
papa era Gregorio IX, due figure
risolute nel porre in atto i loro
propositi. Appena due anni prima il
pontefice si era servito di fra Giovanni
per mediare un accordo tra i comuni
dell’Italia settentrionale e
l’imperatore, il patto durerà poco oltre
la Pace di Paquara, quando la fortuna di
fra Giovani comincerà e declinare. Nella
pianura padana la città di Milano, forte
economicamente e ben agguerrita
rinnoverà ben presto la sua opposizione
alle richieste imperiali, come aveva
fatto un secolo prima con il Barbarossa.
D’altra parte qualche città del Nord
aveva trovato conveniente schierarsi con
l’impero.
Il passaggio dei da Romano: Ezzelino e
Alberico, alla parte ghibellina aveva
segnato un punto importante a favore di
Federico II, che poteva ora godere di
una potente famiglia alleata che da
Treviso arrivava fino a Verona,
considerata la porta della Germania.
È in questa intricata e per niente
pacifica situazione che svolse la sua
opera il frate domenicano Giovanni da
Vicenza, chiamato anche da Schio, forse
come titolo gentilizio. Giovanni e
Alvise da Schio, nella pubblicazione del
1933 riportata in bibliografia,
ricostruendo l’albero genealogico della
famiglia che legherebbe fra Giovanni
sino ai viventi del Novecento, non
mancano di riconoscere che qualche
dubbio permane. Il Dizionario biografico
degli Italiani, Treccani, nega
decisamente il legame parentale tra i
conti da Schio e Giovanni da Vicenza.
In ogni caso che da Schio sia il
nome della famiglia o indichi invece la
provenienza poco interessa relativamente
al tema che stiamo trattando. Antonio
Godi ha tracciato le linee fondamentali
della sua biografia, che peraltro
presenta ancora dei punti oscuri. La sua
data di nascita si colloca intorno al
1200, il padre Manelino, procuratore
cittadino di Vicenza, lo avviò ben
presto agli studi, prima a Vicenza poi a
Padova. Proprio lì avrebbe avuto modo di
ascoltare una predica di fra Domenico
Guzman che lo avrebbe convinto ad
abbracciare l’ordine, ricevendo la veste
da Domenico stesso.
Le vicende relative alla Pace di Paquara
sono narrate da alcuni testimoni
oculari, da qualche contemporaneo e
anche da qualcuno che partendo dalla
tradizione orale dell’evento l’ha messa
in seguito per iscritto. A titolo
d’esempio riportiamo qualche nome. Oltre
al Godi e al Maurisio già citati,
possiamo ricordare Rolandino da Padova e
Paride da Cerea.
Lo studio critico più completo su
Giovanni da Vicenza e il movimento dell’alleluja
del 1233 è opera di Carl Sutter,
Friburgo 1891, tradotto in italiano nel
1900 da Maria, Gelda e Olga da Schio.
Nel 1933, in occasione del settimo
centenario dell’evento, Giovanni e
Alvise da Schio hanno prodotto una sorta
di breviario della traduzione ormai
esaurita, aggiungendo qualche tratto
inedito.
Giovanni da Vicenza era ben conosciuto
nell’Italia centro-settentrionale, dove
affiancava la sua azione di predicatore
a quella di diplomatico, cercando di
comporre le innumerevoli controversie
fra i vari centri di potere. Lo vediamo
molto attivo a Bologna dove è
grandemente apprezzato, poi a Padova e a
Vicenza dove pare per un po’ riuscire
nell’opera di pacificazione. Il
pontefice Gregorio IX avrebbe voluto
utilizzarlo per pacificare la Toscana ma
fra Giovanni, con varie giustificazioni,
si sottrasse al compito.
Si diceva che compisse miracoli e
prodigi, come ammansire animali; non
solo il popolo era rapito dalla sua
figura ieratica e dalle sue parole che
toccavano il profondo degli animi ma
anche il vescovo di Modena, Guglielmo,
in un’occasione ebbe a giurare sul
vangelo alla presenza del papa di aver
visto un angelo del Signore porre una
croce d’oro sulla fronte di Giovanni.
Abbiamo detto che apparteneva all’ordine
domenicano e questo lo impegnava
particolarmente nella difesa della retta
dottrina cristiana; è ben noto che in
quegli anni la purificazione da quelle
che si ritenevano idee malsane non si
limitava all’esortazione. Gli eretici
erano visti come un corpo estraneo che
infettava la cristianità e pertanto il
rogo era sovente la soluzione del
problema. Non si può dimenticare che nel
breve periodo in cui Giovanni gestirà il
potere a Verona verranno mandati al rogo
sessanta cittadini condannati per
eresia.
Eppure il suo arrivo intorno alla metà
dell’anno 1233 era stato accolto con
entusiasmo, il popolo catturato dalle
sue prediche stravedeva per lui. A
Ezzelino III da Romano, a quel tempo
signore della città, parve prudente
associarsi all’opinione pubblica
lasciando a fra Giovanni l’esercizio del
potere. Anche papa Gregorio trovò
conveniente assecondare il predicatore
che godeva di grande seguito nel popolo,
per questo gli conferì ampi poteri
ecclesiastici e giuridici.
Il capolavoro di fra Giovanni fu la
grande adunata del 28 agosto. Da quello
che hanno scritto i cronisti, poi
assemblato da studiosi posteriori,
possiamo leggere la seguente
descrizione: «Si convenne poche miglia
al sud di Verona, sulla riva destra
dell’Adige, fra Tomba e San Giovanni
Lupatoto, sopra una campagna di praterie
detta Paquara. Vi risplendeva una
schiera di principi della Chiesa con
grande seguito: innanzi a tutti Bertoldo
il Patriarca di Aquilea, poi i vescovi
di Verona, Brescia, Mantova, Bologna,
Modena, Reggio, Treviso, Vicenza e
Padova; di essi Guala da Brescia e
Guglielmo da Modena particolarmente
legati a fra Giovanni; poi parecchi
ecclesiastici di più alta importanza
come l’arcidiacono Tancredi di Bologna e
padre Giordano Forzatatè da Padova;
finalmente un esercito di chierici
secolari e regolari della città e della
campagna, specialmente compagni d’ordine
di fra Giovanni, tra i quali fra
Bartolomeo, il Priore di Verona, e fra
Jacopo Boncambio da Bologna e di altri
si fa il nome, da Padova e da Parma.
Nello sfarzoso corteo cavalcarono il
piano i Principi secolari e i nobili
Signori con i loro famigli; il Marchese
Azzo d’Este, i fratelli da Romano,
quelli da Camino e molti altri. Nuovi
venuti continuarono ad aggiungersi, e
per facilitare l’accesso dalla parte di
oriente si erano gettati due ponti
sull’Adige. Di parecchie città non
soltanto delegati, ma tutti i cittadini,
e come si trattasse di una rivista
militare, quelli di Brescia, Mantova,
Verona, Padova e Treviso col Carroccio.
Però si vedeva subito che nulla c’era di
bellicoso; le schiere usate alle armi
procedevano senz’esse, seguendo i
vessilli della croce spiegati al vento.
Vi si aggregarono molti cittadini di
Venezia, Feltre, Belluno, Ferrara,
Bologna, Modena, Reggio e Parma, molti
cavalieri e contadini dei castelli, dei
villaggi, della pianura; e nella
moltitudine innumerevoli donne».
Quanti fossero i partecipanti è
difficile sapere, Rolando dice che mai
si era veduta tanta gente riunita,
Paride da Cerea azzarda la cifra di
400.000, Maurisio racconta di una
infinita marea di popolo che udiva con
meravigliosa chiarezza le parole del
predicatore.
L’inverosimile nelle narrazioni del
Medioevo non è cosa infrequente. Del
resto altre fonti riferiscono numeri
diversi e certamente più credibili; un
certo Pier Zagata, nel XV secolo, scrive
la Cronica della città di Verona
in cui parla di 4000 persone, senza
contare le donne e i bambini. Per aver
un termine di paragone abbastanza
attendibile, giova ricordare che Verona
in quei tempi contava circa 30.000
abitanti.
Giovanni dall’altro di un’impalcatura
riccamente addobbata profferiva a gran
voce: «Pacem meam do vobis, pacem meam
relinquo vobis». Per venire più nel
concreto egli dispose delle norme per
regolare con spirito di giustizia le
controversie ancor in atto e quelle che
avrebbero potuto sopraggiungere.
Il giorno successivo si provvederà a
stilare un documento di quanto era stato
proclamato oralmente, al quale i potenti
convenuti giurarono fedeltà. A suggello
ulteriore degli accordi Giovanni
annunciò il matrimonio di Adelaide da
Romano, figlia di Alberico, con Rinaldo
d’Este figlio del marchese Azzo. Due
famiglie acerrime nemiche finalmente
pacificate.
A tanta magnificenza non seguì
altrettanta stabilità negli accordi di
pace, vi erano molti scontenti che al
momento non avevano avuto il coraggio di
contraddire il carismatico frate. I
problemi e le controversie si fecero
evidenti molto presto, lo stesso
Giovanni si trovò in seria difficoltà a
gestire una situazione che gli stava
sfuggendo di mano; per un po’ di tempo
fu anche tenuto prigioniero dei
Vicentini poi riprese in parte
l’iniziativa, ma orami aveva perso lo
slancio che lo caratterizzava in
precedenza. Il 30 di settembre fu anche
costretto ad ammettere che quanto aveva
affermato un mese prima non era stato
determinato da spirito di imparzialità,
ma per favorire i Trevigiani.
La sua credibilità era ormai esaurita
nel Veneto, se ne ritornò a Bologna dove
godeva ancora di grande apprezzamento.
Lungi dal ritirarsi dalla vita attiva
continuò la sua attività di predicatore,
di paciere e di inquisitore per tutta la
sua esistenza. La sua data di morte è
collocata intorno al 1260, aveva circa
sessant’anni.
Ezzelino riprese il potere a Verona e lo
conservò come vicario imperiale. Che la
lotta continuasse lo testimonia anche la
scritta su di un obelisco che fa
riferimento proprio alla Paquara, dalla
quale dista circa quattro chilometri.
Si dice che mentre Ezzelino da Romano
era signore di Verona i Bresciani e i
Mantovani giungendo dalla Paquara
devastarono ferocemente con la guerra la
comunità del Bovo.
Porta la data del primo giugno 1234.
IECERINO DE ROM.
VERON. IMP. BRIX.
ET MANT. PAQUARIO
DESCENDENTES
CASTELLUM CVM
CVRIA BOVI
ACRITER BELLO
DEVASTARVNT
PRIMO IVNII
1234
Il già citato Pier Zagata nella sua
Cronica, riferendosi al marzo dello
stesso anno, accenna a un’incursione
operata da Bresciani e Mantovani che
prende gran parte della pianura
veronese.
Nel 1250 con la morte di Federico II
anche il potere di Ezzelino cominciò a
declinare, pur cercando di destreggiarsi
con alleanze e colpi di mano ottenendo
anche delle effimere vittorie, a Cassano
d’Adda nel 1259 le forze congiunte della
Lega Guelfa e di Azzo d’Este lo
sconfiggeranno definitivamente, ferito e
incarcerato nel castello di Soncino,
verrà a morire poco dopo.
Riferimenti bibliografici:
M. Bloch, La società feudale,
Giulio Einaudi Editore, Torino 1980.
Giovanni ed Alvise da Schio, Fra
Giovanni da Vicenza a Paquara, Paolo
Marzari, Schio 1933.
R. Facci, La pace di Paquara, in
AA.VV., La Paquara e Sorio,
Editoriale Bortolazzi Stei, San Giovanni
Lupatoto (VR) 1999.
C. Sutter, Fra Giovanni da Vicenza e
l’Alleluja, traduzione di Maria,
Gelda e Olga da Schio, edizioni Galla,
Vicenza 1900. |