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N. 34 - Ottobre 2010 (LXV)

"Ovsjanki" (Silent souls)
gli ultimi Merja di Russia

di Leila Tavi

 

Alla 67 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia il film di Alksej Fedorčenko ha ottenuto il premio per la fotografia di Michail Kričman; il secondo riconoscimento da parte della giuria del festival, dopo la vittoria nel 2005 del suo documentario Pervye na lune (First on the moon) nella sezione Orizzonti.

 

Il regista, originario di Ekaterinburg, ha scelto di raccontare riti e tradizioni immaginari, ma che ha voluto attribuire a un piccolo gruppo di abitanti nella regione del lago Nero, discendenti di un antico popolo, i Merja.

 

I Merja furono un’etnia del ceppo ugro-finnico stanziatasi nella Russia centro-occidentale.

 

Nella Cronaca degli anni passati, tradizionalmente attribuita al monaco Nestor e scritta tra il 1073 e il 1117, è menzionata la presenza dei Merja nell’antica città di Rostov; la Cronaca narra ancora che nell’880, alla morte di Rjurik, primo sovrano del regno di Kiev, il potere passò nelle mani di Oleg come reggente, con un esercito multietnico, composto anche da valorosi vassalli Merja, con cui nel 911 partì per una vittoriosa spedizione alla volta di Constantinopoli.

 

Ovsjanki è un film-rito, in cui seguiamo i due protagonisti in silenzio, accompagnati solo dalla voce narrante fuori campo di uno di loro, Aist (Igor Sergeev), che intraprende un lungo viaggio in auto, risalendo il fiume Oka, con il capo della fabbrica dove lavora, Miron (Yurij Tsurilo), che ha perso la sua giovane moglie Tatjana, con un vezzoso soprannome, “zigolina”, come gl’inseparabili compagni di vita di Aist, due zigoli, una specie di passeri molto comuni in Russia, simili ai canarini.

 

I due uomini trasportano il corpo della donna per celebrare l’antico rito della cremazione, con cui le ceneri del defunto sono disperse nelle acque dell’Oka. Nonostante Tatjana in vita non sia stata fedele a Miron, egli la ricorda ancora con amore, rimpiange di non averla lasciata andare, di averle fatto vivere una vita in gabbia.

 

Come da tradizione, Miron, rimasto solo, rivela a Aist dettagli piccanti della vita matrimoniale; tale confessione è denominata nel film “fumare”, quel mettere a nudo l’intimità degli sposi, come a esorcizzare la paura della perdita dell’amata.

 

Le immagini legate al ricordo dei preparativi per il matrimonio, quando le amiche della giovane sposa legano dei fili colorati sul pube della fanciulla, che nella prima notte di nozze il marito le scioglierà; quei fili hanno in sé il carattere dell’ontano, simbolo della vita e della vita dopo la morte.

 

Molochaj, come moloch, l’antica divinità associata al sacrificio e al fuoco; i due uomini bruciano il corpo di Tatjana sulla riva del fiume, l’acqua poi porterà via lentamente le ceneri della donna e con loro il dolore.

 

La voce fuori campo di Aist commenta che è un peccato che non si possa annegare nel fiume, perché non ci si conquista così la pace eterna, come con il rito della cremazione.

 

Al protagonista ritorna in mente suo padre, poeta autodidatta Merja, le sue difficoltà a essere accettato dalla società, perché considerato un folle.

 

I ricordi corrono al giorno in cui portò Aist bambino sul fiume ghiacciato per gettare nell’acqua la sua macchina da scrivere, così che le sue parole, la musica delle sue poesie, derise dagli uomini, potessero incontrare l’eternità della memoria, una memoria collettiva che gli ultimi Merja hanno paura di perdere.

 

Saranno i due zigoli che accompagnano Aist e Miron in viaggio a far sì che la distanza spazio-temporale tra loro e il ricordo dei cari defunti svanisca in un attimo e li leghi per sempre, indissolubilmente insieme.

 

“Cos’è l’infinito?”, si chiede la voce narrante di Aist alla fine del film: “Tolko ljubov ne imeet konza”, solo l’amore non conosce fine.


 

 

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