ricordando Osvaldo Licini a 130 anni
dalla nascita
un artista e poeta di rilievo
di Riccardo Renzi
Il 22 marzo ricorrono i 130 anni
dalla nascita del pittore Osvaldo
Lici e per celebrarlo voglio
raccontare il “Licini scrittore”
sino a oggi poco studiato, infatti
il presente lavoro non si occuperà,
tranne poche eccezioni, di Osvaldo
Licini artista, che poco ci compete,
ma del Licini scrittore e letterato.
Licini, al momento, è considerato
uno dei maggiori esponenti italiani
dell’astrattismo artistico della
prima metà del Novecento. Il
giudizio sull’artista, però, non fu
sempre questo, per un lungo periodo
cadde nel dimenticatoio e solo negli
ultimi trent’anni lo si è andato
riscoprendo e valorizzando. Motivo
questo, che bene spiegherebbe
l’aumento vertiginoso delle
quotazioni delle sue opere.
Licini nacque il 22 marzo 1894 da
Vincenzo e da Amedea Corazza a Monte
Vidon Corrado, nelle Marche, dove
trascorse l'infanzia con il nonno
Filippo, essendosi la sua famiglia
trasferita a Parigi già dal 1885.
Presso la capitale francese il
padre, abile disegnatore e
cromolitografo, iniziò a lavorare
come cartellonista. La madre invece
diresse un atelier di moda e la
sorella, Esmé, fu ballerina
all'Opéra. A soli quattordici anni
il il pittore marchigiano si
iscrisse all'Accademia di belle arti
di Bologna, che frequentò fino al
1914, quando conseguì il diploma.
Frequentò l’Accademia assieme a
Morandi, Vespignani, Bacchelli,
Pozzati e Tozzi. In quel periodo
Licini partecipava a circoli
intellettuali animati da discussioni
di poesia e arte, da Soffici a la
Voce, passando per Cézanne e gli
Impressionisti. Con Morandi aderì al
futurismo partecipando ad alcune
serate del movimento a Modena nel
1913 e, successivamente, a Bologna e
a Firenze. Licini si autodefinì
sempre “pittore”, ma si interessò
anche di letteratura e si cimentò
sia nella poesia che nella
narrativa.
Durante l'estate del 1913 a Monte
Vidon Corrado il Licini scrisse i
Racconti di Bruto, sulle quali
torneremo in seguito. Nel marzo del
1914 partecipò per la prima volta a
una esposizione – mostra dei
"secessionisti" fu chiamata
all'epoca – con Morandi, Pozzati,
Vespignani e Bacchelli nei
sotterranei dell'hotel Baglioni di
Bologna, presenziata da Marinetti,
Carrà, Boccioni e Russolo. La
partecipazione del pubblico,
incuriosito dalla novità, fu molto
ampia tanto che i giovani artisti
poterono usufruire degli inaspettati
guadagni derivanti dalla vendita dei
biglietti d'ingresso. Scarse
risultano le tracce della produzione
liciniana di questo periodo.
L'Autoritratto (1913: Livorno,
collezione Licini) e il ritratto di
Giacomo Vespignani (1913), che con
alcuni piccoli paesaggi "arabeschi"
– come li definì l'artista – furono
esposti a Bologna, sembrano,
comunque, suggerire una consonanza
formale con il coevo goticismo dei
ritratti di Derain nell'impianto
verticale dell'opera, nel ritmo
segmentato dell'immagine, nel colore
scabro, asciutto, al limite del
monocromo. Nel 1915 si trasferì per
un breve periodo a Parigi e presso
il Café de la Rotonde conobbe e
frequentò, Pablo Picasso, Jean
Cocteau, Blaise Cendrars, Ortiz de
Zarate, Moïse Kisling. Tra il 1922 e
il 1925, ritornato al suo paese
natio, intraprese uno stimolante
dialogo culturale con gli amici
marchigiani Felice e aErmenegildo
Catalini, Gino Nibbi, Acruto Vitali.
Acruto Vitali, artista e poeta per
Licini fu un mentore, in particolar
modo per quanto concerne la poesia.
Fu Vitali che gli fece conoscere
Sandro Penna, fu sempre lui che lo
avvicinò alla poesia francese,
facendogli apprezzare la poetica di
Rimbaud. Insieme coltivarono l’amore
per Leopardi e la sua poesia. Per il
pittore di Monte Vidone, Leopardi fu
un’ossessione. Spesso si recava a
casa dell’amico sangiorgese per
farsi recitare qualche verso del
poeta recanatese e puntualmente al
termine di ogni recitazione,
affermava che prima o poi avrebbe
dedicato al poeta una serie di
quadri. Un giorno Licini si recò da
Vitali con un piccolo quadro sotto
braccio e gli disse: «Ecco qua il
mio Leopardi», era un’Amalassunta
luna.
L’Amalassunta è il soggetto più noto
della pittura liciniana. Per il
pittore essa è «la luna nostra
bella, la mia luna», dunque la luna
marchigiana, osservabile solo dalle
nostre colline. Il nome deriverebbe
dalla regina Amalassunta, figlia del
re degli Ostrogoti, Teodorico. Ella,
durante il suo regno (526-535),
spostò la capitale da Ravenna a
Fermo, facendo vivere alla città un
periodo di grande splendore.
Licini ebbe un rapporto del tutto
particolare con il paesaggio
marchigiano, amava profondamente la
sua terra e i borghi che in essa
sorgono come punte di diamante.
Straordinario fu il suo legame con
Grottazzolina, per la assiduità con
cui frequentava la famiglia Catalini,
originaria proprio del piccolo borgo
marchigiano. Numerose lettere ai
fratelli Felice e aErmenegildo
Catalini ne testimoniano la profonda
amicizia. Ermenegildo avvocato e
professore di letteratura fornì
all’amico tutti i libri di cui
necessitava. Usando la ferrovia
Adriatico-Appennino, Licini, con i
due fratelli e l’amico sangiorgese
Acruto Vitali, amava fare gite nei
borghi situati lungo la tratta e
spesso il gruppetto si fermava
proprio a Grottazzolina, dove Licini
amava dipingere. Il rapporto
straordinario che ebbe con il
territorio lo differenziò da tutti
gli altri artisti, come Leopardi con
la poesia, Licini con la pittura
riuscì a mitizzare le nostre colline
e i nostri borghi, rendendoli un
unicum.
Dopo questa breve introduzione al
“personaggio”, ritenuta quasi
obbligatoria, si andrà a esaminare
il Licini letterato, rispettivamente
narratore, critico letterario e
poeta.
La stesura dei Racconti di Bruto
avvenne nell’estate del 1913, mentre
si trovava presso la sua terra
natia. L’opera si compone di cinque
brevi storie che hanno come
protagonisti, oltre al cinico
Bruto-Licini, Giorgio e Giacomo,
suoi compagni di studi. Archetipo
autobiografico della ribellione, se
non personificazione vera e propria
del concetto di ribellione, il Bruto
liciniano è una figura sospesa tra
la provocazione avanguardistica e la
perdita di senso del reale
surrealista. Allo stesso tempo però
rappresenta la prima apparizione del
tema dell'erranza e del flâneur,
che, «attraversando come topos della
condizione poetica moderna la
cultura europea tra Otto e
Novecento, avrà una rilevanza
centrale nella poetica
dell'artista».
Licini non fu immediatamente
soddisfatto della stesura dei
Racconti, perciò per averene un
parere più oggettivo inviò al
musicista F. Balilla Pratella il
primo racconto, intitolato La
passeggiata sentimentale,
chiedendogli anche di intercedere
per la sua pubblicazione nella
rivista del futurismo fiorentino,
Lacerba, diretta da Papini e
Soffici. La richiesta non ebbe esito
positivo, probabilmente perché il
gusto coprofilo, l'intonazione
scurrile e l'eccessiva e gratuita
crudeltà del testo dovettero
apparire troppo dirompenti per un
periodico che cercava comunque un
ampio consenso. Licini narratore
forse si era presentato troppo
estremista anche per i futuristi.
Andiamo però ora a esaminare alcuni
tratti salienti dell’opera. Nel
“Bruto” liciniano l’erotismo è
elemento fondante del personaggio
stesso. Un erotismo sguaiato e
coprofilo, cortometraggio surreale
di una virilità esplosa, di una
sensualità cieca e senza vera
aspettazione dell’altra metà. In
Licini si può parlare di assenza
della donna. “Dodò” la bellissima
donna che si accompagna con “Bruto”
sembra assistere, più che
partecipare alle performances
dell’amico: «afferrò Dodò, la
rovesciò, la morsicò, la leccò, la
baciò; dopo questi e altri
maltrattamenti a lei e alle sue
cose, ecco la sua reazione. Dodò si
sollevò curiosa e lesse, poi si mise
a ridere forte: “sei matto!?”». La
donna qui è poco più che un oggetto
di “giuoco”. Nei racconti esplode
tutto il cagnesco cinismo presente
nell’autore: «Bruto saltò dalla
finestra di casa, saltò il cancello
dell’orto, scavalcò la fratta e
cadde sull’erba. Poi morsicò l’erba.
Quando Bruto fu stanco alzò gli
occhi e vide sulla testa i rami di
un gran fico montò su e mangiò fichi
a crepapelle».
Bruto, alter ego del giovane Licini,
è un ragazzo iperattivo e a tratti
quasi animalesco. Il protagonista
dei Racconti continuerà a vivere nel
pittore anche in età adulta. Licini
è personaggio ben vivo nei racconti
dei compaesani: il suo linguaggio
naturale e colorito, le sue
stravaganze d’uomo maturo che
conserva atteggiamenti
adolescenziali, i suoi gesti assurdi
e surreali colpivano la gente di
Monte Vidon Corrado. Tali
testimonianze sono state raccolte
nel catalogo di una mostra che il
paese dedicò all’artista nel
ventesimo anniversario della morte:
«Sentiamo una voce pronunciare
frasi, per noi sconnesse, ci
avvicinammo a una grossa quercia, la
in cima vedemmo Osvaldo Licini che
distribuiva sproloqui a tutto e a
tutti». Un’ulteriore testimonianza
ci giunge da Alfredo Memo: «L’ho
visto più di una volta seduto sopra
al tetto di casa dove
improvvisamente scoppiava in
fragorose risate». Il Pittore era
dunque rimasto un fanciullo che
adorava arrampicarsi e amava i
giochi rischiosi, come testimoniato
da Giulio Tosi: «Amava i giochi
rischiosi, e per poco non ci rimise
la vita cadendo da una colonna che
si trovava all’ingresso del paese
alta più di cinque metri».
Licini fu anche un abile critico
letterario, faceva parte infatti di
varie redazioni di riviste
letterarie e un episodio
significativo che lo riguarda lo
lega a un altro personaggio del
Fermano, Franco Matacotta. Matacotta
su suggerimento della poetessa
Sibilla Aleramo nel 1942 inviò una
copia dei Poemetti alla redazione
della rivista Valori Primordiali,
l’allora direttore, Franco Ciliberti,
girò la richiesta a Licini, che era
membro della redazione e conterraneo
di Matacotta, ma egli con tre
lettere bollo l’opera e non la
recensì, definendola ricolma di
leopardismo e «scolpita di un
rettorico bolso». Probabilmente
Matacotta non venne mai a sapere di
tale giudizio, poiché Licini
concluse la terza lettera con la
raccomandazione a Ciliberti «resti
tra noi».
Tale comportamento da parte del
pittore fu veramente strano, poiché
egli è sempre stato con i giovani
aperto e amicale. Le testimonianze
di tale comportamento sono numerose,
le prime risalgono addirittura ai
mesi di insegnamento di disegno
tecnico tra il 1921 e il 23’ presso
la Scuola tecnica di Fermo. Licini
fu però molto deciso nella
stroncatura della raccolta
matacottiana: «Ho riletto i Poemetti
con la speranza di potermi
ricredere, di salvarlo in qualche
modo. Niente da fare. Qualche
briciola, qualche immagine discreta
si perde nel gran mare magno della
pseudo poesia leopardiana rettorica
bolsa. Matacotta primordiale! Ma
siamo matti! Tutti quegli angeli
azzurri e cherubini e candide
colombe…sono più temibili
dell’ultimo Severini neoclassico».
Il sospetto è che il pittore abbia
attaccato il giovane poeta poiché ha
visto la sua opera come
un’intromissione nel suo campo di
studio e d’indagine, infatti
immediatamente si nota come i temi
trattati dai due, uno nella pittura,
l’altro nella poesia, siano
sostanzialmente gli stessi, si va da
un forte leopardismo al tema degli
angeli caduti. A questo va aggiunto
ciò che si è detto in precedenza,
cioè che Licini non era
semplicemente uno studioso di
Leopardi, ma un cultore, da parte
sua c’era una vera e propria
venerazione per il poeta recanatese,
perciò un utilizzo improprio delle
sue forme poetiche e concettuali non
sarebbe mai stato bene accetto.
Licini collaborò come redattore alla
rivista Valori Primordiali per circa
quattro anni, ma dagli scambi
epistolari con Vitali sappiamo che
collaborò saltuariamente anche con
altre riviste. Tra queste ricordiamo
quelle con il Corriere Padano e con
Il Milione Bollettino della Galleria
di Milano. Uno dei pezzi più
interessanti che andò a pubblicare
fu quello nel numero 1 del 1934
della rivista L’Orto, intitolato
Ricordo di Modigliani. «Una sera al
Caffè del Petit Napolitain a una
tavolata di pittori, Modigliani
disegnò il mio ritratto. La sua
faccia era tutta un raggrinzimento.
Le famose smorfie di Modigliani,
quando disegnava, non furono mai una
posa. “Disegnare è possedere”
gridava “un atto di conoscenza e di
possesso più profondo r concreto del
coito, che solo il sogno o la morte
possono dare”. Si poneva di fronte
all’uomo, questo enigma-miracolo
delle forme, tutto il suo istinto
carnale e mistico proteso al
congiungimento magico per cui ogni
distanza e limite tra sé e quel
mondo annullava. Di queste fusioni
armoniche del suo “angiolo”, con le
forme, testimoniano i disegni, che
sono la prova più convincente di
come egli abbia saputo trascendere
la realtà: ritmi brevi, pure
essenzialità, virgulti di forza per
fulminei concentrati umani». Ciò che
salta immediatamente all’occhio
della scrittura saggistica liciniana
è l’essenzialità, è una scrittura
minimalista che in poche righe
riesce a dare il concetto del tutto,
ma che in parte ancora risente
dell’influenza futurista, non
dimentichiamo che siamo nel 34’.
Dell’anno successivo sono i suoi
interventi sul Bollettino della
Galleria del Milione. Interessante è
la sua Lettera aperta al Milione:
«Noi non ci conosciamo, amici del
Milione. Per caso ci siamo trovati
in quella nona saletta della
Quadriennale, dove la gente passa
allegra, indignata o indifferente. E
ci siamo riconosciuti fratelli in
spirito. E mi avete invitato a
esporre a Milano. Vi confesso che lo
faccio un poco malvolentieri. Alle
vostre insistenze mi sono piegato
per quella disciplina che impone la
nostra regola. E poi vi avverto che
i miei capolavori sono ancora tutti
da fare. Ne tengo più d’uno in
cantiere. Ma non sono ancora pronti
per scendere in mare. Dunque fino a
quattro anni fa ho fatto tutto
quello che ho potuto per fare della
buona pittura dipingendo dal vero.
Poi ho cominciato a dubitare.
Dubitare non è una debolezza, ma è
un lavoro di forza, come forgiare,
ha detto Cartesio». In questo
articoletto, che poi continua nella
descrizione della propria pittura,
ciò che balza all’occhio è l’uso
della punteggiatura, un uso
persistente, impetuoso, quasi
sovrabbondante, che va continuamente
a interrompere la fluidità del
discorso, come a far inciampare il
lettore.
Particolare è lo pseudo-saggio che
pubblicò in Corriere Padano nel 1937
dal titolo Natura di un discorso:
«Lo Scorpione credeva d’essere lui
il più bello e voleva proclamare
regina e venere la Scorpiona. Ma
l’uomo disse che era lui il più
bello e proclamò sé stesso re del
mondo. Poi sono venuti Ojetti,
Waldemar George, e tutti i Marani
della terra, e l’uomo fu incoronato
di nuovo Re del mondo. Si tornò a
ripetere che l’uomo era il
microcosmo dell’universo, che l’uomo
era il metro, la misura di tutte le
cose, che tutto era nel tutto, e che
col metro estratto dalle viscere
dell’uomo si poteva ricavare la
chiave del cosmo. Vecchie più del
cocco queste frasi dovevano servire
a estrarre il ragno dal baco:
l’arte. E furono dette per la
salvezza dell’Arte Mediterranea». Il
saggio, con un incipit che molto
ricorda i Racconti di Bruto, cerca
di smontare le teorie
antropocentriche e ancor di più
quelle eurocentriche nella
concezione dell’arte.
Sino a ora si è trattato il Licini
narratore e saggista, vorremo ora in
questa sede affrontare la poetica
liciniana, ove emerge il Licini più
intimo e autentico. Nei componimenti
liciniani emerge tutto il suo amore
per Leopardi e per la luna
leopardiana, queste alcune sue righe
a essa dedicate:
Ecco la luna bella
Mi vedi là su mi vedi volare là su
Sulla luna
Eccomi
Come volo per tutto il mondo tutto
l’universo
L’infinito è mio.
Il componimento si trovava
all’interno di una lettera
indirizzata all’amico Vitali e poi
pubblicata nel volume Acruto Vitali,
poeta e pittore (1903-1990).
L’intellettuale sangiorgese fu una
sorta di maestro poetico per Lici,
fu proprio lui infatti che gli fece
conoscere Sandro Penna e che lo
iniziò alla poesia maledettista
francese, inoltre i due
condividevano l’amore per Leopardi.
Uno dei suoi testi poetici più noti
è quello che compose dopo aver
trascorso una giornata sul Monte
Sibilla assieme all’amico Vitali:
Grande sole impennato al risveglio,
lancia, esplodi, il buio mio cuore
frantuma.
Io sono quel tuo figlio ultimo nato,
danzante figlio d’armonia rapace,
con la carogna d’anima alla bocca,
da tue furenti lance trapassato.
Ho messo la strada sotto ai piedi
Che il mio bastone scandisce da
finto pellegrino
A migrare a godere soffrendo.
Condannato (l’ora del riscatto non è
suonata).
Oh dirupata, impervia,
sulla fatalità di questa marcia,
stella, sempre più mancabile e
lontana.
Anche questo componimento è stato
pubblicato postumo, si trovava in
un’epistola inoltrata al solito
Vitali. Qui Licini, da una parte
rimane legato al leopardismo delle
operette Morali, proprio sul
concetto dell’uomo-natura, ma
dall’altra si allontana da questo
assumendo un linguaggio poetico
derivante dalle esperienze futuriste
e avanguardiste, linguaggio che si
discosta totalmente dal primo
componimento riportato dedicato alla
luna e che molto richiama il
linguaggio narrativo sviluppato in
Racconti di Bruto. Un linguaggio
aggressivo, violento e pieno di
suono.
Licini fu un intellettuale completo,
che fece molteplici esperienze e
visse attivamente l’arte, dalla
prosa alla pittura, passando per la
critica letteraria e artistica, e la
poesia.
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