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N. 57 - Settembre 2012 (LXXXVIII)

FINCHé LA BARCA VA...
Derive della LXIX Mostra del Cinema di Venezia

di Leila Tavi.

 

Alla LXIX edizione della Mostra del cinema di Venezia è stata presentata una selezione di film degna di lode: oltre a Pieta del maestro Kim Ki-duk, che ha meritato senza dubbio il Leone d’oro, abbiamo apprezzato l’esordiente georgiana Rusudan Chkonia, alle prese con la sua opera prima, l’originale Keep Smiling, nella sezione “Giornate degli Autori”, e il poetico documentario della regista russa Lyubov Arkus Anton tut ryadom (Anton’s Right Here), nella sezione Orizzonti, di cui avremo modo di parlare nel prossimo numero.

 

Eppure, nonostante le lodi alla nuova direzione di Alberto Barbera, coloro che frequentano la mostra da anni hanno avuto la sensazione di non scendere mai dal vaporetto in questa edizione, di conservare con un moto perpetuo la sensazione di vacillamento di quando ti manca la terra sotto ai piedi anche al Lido.

 

La metafora della barca ben si attaglia a quello che sembra un festival il cui primato è un lontano ricordo. Che Müller abbia abbandonato la nave prima che coli a picco? Che sia stato un po’ lo Schettino della situazione?

 

Venezia sembra un festival da svecchiare, sicuramente nell’accoglienza, se penso a tutti i confort e i diversivi che offre il festival di Roma tra una proiezione e l’altra, allora il discobar che hanno collocato quest’anno davanti al casinò sembrava da lontano una balera riminese, con le luci stroboscopiche un po’ vintage, un po’ retrò, un po’ tristi.

 

Un festival come il nostro governo, tecnocratico e all’insegna dell’austerity; un’atmosfera da Mittelstadt tedesca con tante banche e nient’altro, ma a differenza delle città tedesche non si vede un cestino per la raccolta differenziata.

 

Sarà che ormai il festival di Roma si distingue rispetto a quello veneziano per la sua formula “a impatto zero”: puoi gettare la carta, la plastica e le lattine al loro posto, poi magari è tutto un bluff e l’AMA non smista i rifiuti, ma almeno ti senti la coscienza sollevata; a Venezia per vedere dei cestini di raccolta differenziata sono dovuta arrivare fino alla Biennale d’Architettura, dove con un tema come Common Ground sarebbe stato il colmo avere cestini della spazzatura indifferenziati.

 

Poi non capisco perché ogni giorno si sprechino chili di carta per fare press book che regolarmente sono cestinati dai fortunati colleghi giornalisti che arrivano per primi, o pagano l’accredito on-line in anticipo e hanno diritto alla casella postale. Perché non scaricare un’apposita APP sullo smart phone ed evitare un inutile spreco di carta? Chi ormai non ha un android o un I-phone? Se persino la sovrascritta, che ha tentennato fino all’ultimo per dotarsi di un telefono cellulare ne possiede uno, significa che sarebbe difficile trovare un giornalista in difficoltà nello scaricare sul suo cellulare i file dei press book.

 

Cosa dire del servizio ristorazione? Si mangiano sempre le stesse cose da anni, sempre e solo con i piatti di plastica, senza poter sedere ai tavolini del ristorante, di solito occupati da chi legge il giornale o le ragazze dello staff che aprono i loro portapranzi incuranti, mentre tu devi fare l’equilibrista con il vassoio sulle ginocchia, cercando di usare le posate senza spezzare i dentini della forchetta o rovesciarti il vassoio addosso.

 

A proposito di tavola calda del Movie Village quest’anno mi è successo di stare in fila con una fame irrefrenabile, guardare terminare ogni tipo di pietanza che posso mangiare senza rischiare uno shock anafilattico e proprio quando tiri un sospiro di sollievo perché quando arriva il tuo turno vedi ancora nella teglia davanti ai tuoi occhi l’ultima porzione di verdura e ti rivolgi al primo cameriere libero al di là del bancone e, con un sorriso smagliante, gli chiedi quell’ultima porzione di verdure cotte per sentirti rispondere che serve solo i primi e che devi rivolgerti alla seconda cameriera, che naturalmente è occupata a servire altri clienti… poi mentre aspetti e i minuti corrono e pensi che dovrai ingurgitare assolutamente quell’ultima porzione di verdure come il sauvage di Voltaire, perché la proiezione che t’interessa sta per iniziare senti alle tue spalle una signora ordinare quell’ultima porzione di verdure e vedi il cameriere che paventa di servire i secondi dirigersi verso quell’ultima porzione…

 

Altra sofferenza per chi ha un’indole calmucca come me… quest’anno non è stato servito tè all’interno del Village, perché? Non hanno più lo sponsor per il tè, un nonsense da teatro dell’assurdo..

 

Se il festival dall’esterno è apparso tecnocratico, dietro alle quinte è sembrato più un potentato, dove gli uomini del servizio di sicurezza per l’accesso alle sale si sono comportati con gli accreditati come se fossero stati una banda di minorenni davanti a una discoteca. I poveri accreditati ci sono abituati, sopportano ormai, facendo interminabili file con la consapevolezza che potrebbero non poter entrare anche se la sala è semivuota; anche questo è un segno di sistema che invece di migliorare cerca solo di preservarsi, perché ogni anno la situazione non cambia, anzi peggiora. Sembra di stare ancora nei Paesi a regime socialista con le loro snervanti file davanti ai ristoranti o ai negozi, quando poi all’interno il locale è vuoto. L’очередь (ochered) ha rappresentato negli anni duri del comunismo il potere smisurato e senza controllo che si accaniva contro brave e oneste persone, considerate “strapazzabili” proprio perché in quanto oneste, perciò estranee al sistema.

 

Così come i kafkiani “controllori delle porte” della Mostra del Cinema di Venezia sono lì con la missione di non far entrare e se chi è nuovo dell’ambiente e non sa come “se débrouiller, se démerder” con questo assurdo sistema, perde la pazienza, subisce una sorta d’iniziazione e va bene, si può ancora sopportare, ma spingersi fino a quello che ho visto in questa ultima edizione: un supponente buttafuori con gli occhi che sembravano iniettati di cocaina spintonare un giovane giornalista israeliano, che ha osato chiedere come mai ancora non era stato permesso l’accesso in sala dopo dieci minuti dall’orario previsto per la proiezione del film Hayuta ve Berl; il ragazzo maltrattato, che poi è stato invitato dalla delegazione del film ha entrare in sala insieme a cast e crew, sicuramente non avrà omesso di parlare dell’inospitale trattamento nella sua recensione.

 

Ma questa non è il peggiore scortesia riservata ai giornalisti in questa edizione; il solito patetico show dell’anno ce lo ha concesso il più anziano in ruolo degli addetti alla sorveglianza, quello che si vanta di essere in servizio alla mostra da oltre 27 anni, quello che dovrebbe ormai con nonchalance gestire i momenti di crisi con il sorriso sulle labbra e in modo accogliente e che invece sputa addosso agli accreditati inconsapevolmente una sua personale frustrazione.

 

Quest’anno ho assistito in occasione della proiezione del film Spring Breakers fuori alla sala Darsena, quella che dovrebbe essere riservata solo ai pass della stampa e dell’industria, alla pietosa scena di due povere giornaliste italiane, due persone veramente per bene, con un italiano forbito e perfetto, costrette a scappare dai sedicenti controllori e dalla polizia per rivolgersi in ultima istanza ai carabinieri di pattuglia lì vicino.

 

Che cosa hanno fatto di male le due tranquille signore? Rivendicavano il diritto di entrare per fare il loro lavoro, scrivere una recensione. Nel nostro Paese siamo arrivati a questo? A perseguire delle persone oneste mentre in parlamento siedono pregiudicati e i veri delinquenti sono a piede libero per le strade, indisturbati; per quanto ancora dovremo assistere a scene del genere? Gente che dovrebbe tutelare l’ordine pubblico pronta alla delazione e alla menzogna? Ancora una volta siamo davanti al fatto compiuto che l’Italia è un Paese in via di sottosviluppo e che le vere persone di cultura, non i supponenti opinionisti che urlano negli scadenti programmi d’infotainment televisivi, che passano una media di dodici ore in sala durante la mostra del cinema, dormono quattro ore, mangiano in fretta e male, non sono disturbatori della quiete pubblica, o non si appiccicano alle starlette per un autografo, quelle che dei film scrivono sui blog o sui giornali, debbano essere maltrattate e derise in modo così scostumato?

 

Forse è proprio qui il punto, si tollerano meglio gli urlatori mediatici e i collezionisti di autografi con la loro maleducazione, perché questi ultimi fanno audience, fanno confusione, i poveri giornalisti invece no, stanno in silenzio per ore e ore nelle sale buie e non si accorgono dei divi che passano.

 

O forse è colpa nostra, che perdoniamo pazientemente tutto solo per la gioia di rivedere ancora una volta lo spettacolo di Venezia che si mostra ai nostri occhi in tutto il suo splendore, ogni volta con rinnovato stupore.



 

 

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