N. 51 - Marzo 2012
(LXXXII)
orizzonti di gloria
memoria della grande guerra - parte VII
di Gianluca Seramondi
Paths
of
Glory
ha
deciso
sistematicamente
di
mantenere
nell'invisibilità
tutti
i
fattori
che
contribuiscono
in
un
modo
o
nell'altro
ad
in-formare
la
diegesi:
sia
le
cause
degli
eventi
narrati,
sia
le
condizioni
in
cui
questi
eventi
accadono.
"Mantenere
nell'invisibilità",
tuttavia,
non
ha
affatto
il
significato
di
ignorare
o di
soprassedere.
L'invisibilità,
infatti,
è
richiamata
nell'ambito
del
visibile
ed
in
maniera
ancor
più
pressante
di
quanto
avverrebbe
con
una
sua
piena
ostensione
giacché
quanto
rimane
dietro
il
velo,
quanto
rimane
di
là
dell'inquadratura,
è
portato
alla
presenza
attraverso
un
procedimento
che
ricorre
in
tutte
le
situazioni
sopra
attraversate.
Mi
riferisco
alla
metonimia,
una
figura
retorica
che
fonda
la
propria
azione
su
di
un
rapporto
di
contiguità,
di
prossimità,
tra
il
termine
in
praesentia
e
quello
in
absentia,
una
contiguità
che,
sul
piano
linguistico,
esprime
l'appartenenza
dei
due
termini
ad
uno
stesso
campo
semantico.
In
tal
modo
"...la
metonimia
attua
una
interdipendenza
fra
il
termine
traslato
(termine
in
praesentia)
e
quello
profondo
(in
absentia)"
(Angelo
Marchese,
1995,
p.
191).
Così,
l'aereo
è
parte
della
tecnologia
militare
(che
a
rigore
è
una
sineddoche,
ma
per
Jakobson
quest'ultima
figura
retorica
è
essa
stessa
una
metonimia
poiché
prevale
una
relazione
sintagmatica
tra
i
termini.
Ibidem,
p.
186),
l'ordine
è
effetto
di
un
potere,
la
paura
di
morire
rientra
nel
campo
semantico
delle
armi
utilizzate
in
guerra,
i
rumori
durante
l'attacco
sono
causati
dall'artiglieria.
Visibile
e
invisibile,
dunque,
non
sono
affatto
settori
contrapposti
del
reale,
compongono,
invece,
un
unico
campo
ontologico
e
semantico
al
cui
interno,
tuttavia,
si
situano
secondo
valori
affatto
diversi.
Il
visibile,
infatti,
è e
rimarrà
una
produzione
tout
court
dell'invisibile.
La
strategia
di
Kubrick
è
ora
chiara.
Se
il
titolo
e la
voce
off
garantivano
uno
sfondo
storico
che
porta
verosimiglianza
alla
storia
narrata,
le
sequenze
che
compongono
la
prima
parte
del
film
si
intrecciano
tra
loro
secondo
un
ordine
che,
spostando
in
secondo
piano
la
cronologia
del
primo
conflitto
mondiale
- la
sequenza
di
"fatti"
che
ha
costituito
la
Prima
Guerra
Mondiale
-,
permette
paradossalmente,
di
ricondurre
in
primo
piano
la
Grande
Guerra
stessa
nel
senso
ben
preciso
di
evento
storico
che
ha
strutturato
una
certa
esperienza,
che
ha
prodotto
una
certa
soggettività.
Dal
punto
di
vista
diacronico,
la
torsione
è
stata
raggiunta
attraverso
la
messa
in
sequenza
di
occorrenze
della
morte
che
formavano
una
linea
ben
precisa
che
dall'attivo
del
verbo
uccidere,
preceduto
da
un
discorso
incentrato
sul
valore
della
vita,
in
cui
la
morte,
di
conseguenza,
era
di
fatto
esclusa
perché
sublimata
all'interno
di
una
certa
mitologia
della
morte
in
battaglia,
si
risolveva
infine
nella
forma
passiva
dello
stesso
verbo,
dapprima
solo
a
livello
di
parola,
poi
a
livello
di
realtà,
infine
a
livello
di
esperienza.
Dall'
"uccidere"
all'"essere
ucciso"
vi è
una
modificazione
essenziale:
l'agente
è
dapprima
presente,
mentre
alla
fine
è
assente,
rivelato
solo
dalle
parole
dei
due
soldati.
Dal
punto
di
vista
sincronico,
quindi,
la
torsione
è
stata
ottenuta
essenzialmente
attraverso
il
meccanismo
della
metonimia
che
ha
portato
le
informazioni
della
voce
off
fuori
dell'inquadratura
ma
per
farle
rientrare
nella
diegesi
in
absentia
come
complemento
necessario
e
performante
di
quanto
contemplato
dall'inquadratura
stessa.
La
dissolvenza
al
nero
che
chiude
la
prima
sezione
del
film,
allora,
non
è
gratuita,
non
è
una
interruzione
meramente
formale
del
racconto,
il
cui
fine
è
concedere
un
respiro,
una
pausa.
Essa,
piuttosto,
chiude
realmente
un
movimento,
ne
segna
la
conclusione
e,
dunque,
il
compimento.
E il
movimento
deciso
è
quello
proprio
di
un
passaggio
del
testimone.
Alla
Storia
come
sfondo
verosimile
del
racconto,
il
film
porgerà
d'ora
in
poi
la
direzione
del
proprio
sviluppo.
Il
quale,
se
lo
si
volesse
tradurre
graficamente,
si
conformerà
come
una
spirale
che
dalla
sua
ultima
e
ampia
spira
ritornerà
verso
la
propria
origine.
Unità
e
implosione
dello
spazio.
Gli
effetti
dell'azione
della
Storia
si
paleseranno
già
a
livello
di
spazio
e di
tempo.
Si
ritorni
alla
voce
off.
Ad
una
prima
parte
scandita
da
indicazioni
cronologiche
che
restituiscono
il
procedere
incalzante
degli
avvenimenti,
subentra
un
quadro
in
cui
a
dominare
è la
dimensione
spaziale.
In
questa
seconda
parte,
i
riferimenti
cronologici
-
"1916"
e
"dopo
due
anni"
-
più
che
ridare
il
tempo
come
immagine
del
movimento,
offrono
un
tempo
che,
nel
suo
avanzamento
meccanicamente
cronologico,
si è
staccato
dallo
spazio
e,
soprattutto,
si è
svuotato
di
ogni
contenuto
riconducibile
a
situazioni
umane.
Il
tempo
rimane
al
più
come
forma
pura,
la
quale,
tuttavia,
non
pare
organizzare
alcunché.
I
riferimenti
spaziali,
di
contro,
acquistano
maggiore
importanza:
dal
carattere
zigzagante
della
trincea
a
quelle
vittorie
misurate
in
centinaia
di
metri
e
con
migliaia
di
vite,
in
cui
il
contrasto
tra
la
pochezza
del
territorio
conquistato
e le
migliaia
di
vite
umane
uccise
in
quei
pochi
metri
offre
l'immagine
tattile
della
tragedia
che
si
compieva
sui
fronti
della
Grande
Guerra
nell'ambito
di
una
guerra
di
trincea.
Paths
of
Glory
registra
uno
spazio
che
deve
all'azione
dell'invisibile
i
propri
tratti
dominanti.
È
innanzitutto
uno
spazio
unico
e
concluso,
il
cui
perimetro
è un
limite
invalicabile.
Il
Formicaio
rappresenta
un
termine
all'espansione
dello
spazio.
Non
è
dunque
una
meta,
un
obiettivo,
bensì
un
momento
terminale
che
chiude
l’apprensione
di
ogni
oltre.
Così,
durante
la
sequenza
dell'attacco,
il
punto
di
vista
delle
inquadrature,
che
è
quasi
sempre
schiacciato
al
suolo
o,
comunque,
diretto
al
suolo
-
anche
e
soprattutto,
nella
inquadratura
a
plongee
iniziale
sulla
fuoriuscita
delle
truppe
dalla
trincea
-,
non
apre
mai
al
cielo
e
laddove
incontra
il
Formicaio
lo
innalza
come
un
massiccio
inviolabile.
All'altro
capo,
in
una
presumibile
opposizione
al
Formicaio,
il
castello,
sede
del
quartier
generale
di
Mireau,
dal
canto
suo,
rappresenta
anch'esso
un
termine
ultimo,
così
come
lo è
il
Formicaio.
Non
a
caso,
infatti,
le
inquadrature
del
giardino
antistante
il
castello,
sono
delle
esterne
solo
formalmente
-
letteralmente,
giacché
mai
mostrano
uno
spazio
al
di
fuori
del
giardino,
se
non
in
un
fugace
istante
durante
la
sequenza
d'apertura,
quando
si
intravede
l'automobile
che
condurrà
Broulard
da
Mireau.
Il
castello
da
un
lato
e il
Formicaio
dall'altro
dunque
concludono
lo
spazio
del
racconto
-
della
guerra,
dunque
-
rescindendolo
in
via
definitiva
dallo
spazio
della
vita,
per
così
dire,
laica.
Come
si
diceva
sopra,
tuttavia,
questa
chiusura
dello
spazio
è
causata
anche
dall'azione
dei
fattori
che
compongono
l'invisibile.
In
questa
prospettiva,
il
castello
e il
Formicaio
sono
falsi
confini,
poiché
il
confinamento
è in
realtà
ottenuto
dalla
tensione
delle
forze
che
dirigono
la
vicenda.
Che
la
tecnologia
bellica
sia
la
causa
reale
dell'impossibilità
di
raggiungere
il
Formicaio,
lo
afferma
con
vigore
la
sequenza
dell'attacco
e,
in
particolare,
la
descrizione
dell'avanzamento
dei
fanti
francesi.
Kubrick
narra
l'attacco
utilizzando
spesso
carrelli
laterali,
i
quali,
procedendo
paralleli
all'incedere
dei
soldati,
escludono
dalla
vista
il
fine
della
loro
azione,
a
sottolineare
quella
preclusione
dell'obiettivo
militare
causata
dalla
pressione
esercitata
dall'artiglieria
tedesca.
La
nuova
e
tremenda
tecnologia
bellica,
tuttavia,
non
assurge
a
potenza
metafisica.
In
questa
stessa
sequenza
dell'attacco,
infatti,
il
potere
militare
francese
è
chiaramente
corresponsabile
in
quanto
reo
di
non
aver
compreso
fino
in
fondo
la
realtà
bellica
della
trincea.
Come
si
diceva
là
dove
si
commentava
la
voce
off,
la
storia
narrata
in
Paths
of
Glory,
si
inserisce
tra
due
date
assolutamente
centrali
della
strategia
militare.
Soprattutto
si
inserisce
in
un
momento
storico
in
cui
la
strategia
movimentista
doveva
rovinosamente
cadere
di
fronte
all'immobilità
strutturale
della
guerra
di
trincea.
La
dottrina
militare
francese
è
esposta,
con
una
precisione
notevole,
nella
sequenza
in
cui
Dax
informa
gli
ufficiali
della
tattica
da
seguire
durante
l'attacco:
«Dax:
"L'artiglieria
inizia
alle
5 e
15.
Il
primo
battaglione
inizierà
alle
5 e
30.
Quando
il
gruppo
di
testa
avrà
aperto
un
varco
nel
reticolato
nemico,
uscirà
la
seconda
ondata
formata
dal
secondo
e
dal
terzo
battaglione,
meno
due
compagnie
di
riserva.
In
nessun
caso
dopo
le 5
e
40.
È
tutto
signori.
Nessuna
domanda?.
I
ufficiale:
"15
minuti
di
fuoco
di
copertura
è
quanto
possiamo
sperare?"
Dax:
"Sì,
c'è
la
convinzione
che
più
di
tanto
darebbe
al
nemico
troppo
tempo
per
organizzarsi"
Roget:
"Quali
sono
le
previsioni
del
tempo
per
domani?"
Dax:
"Troppo
buono"
Roget:
"non
si
prevede
pioggia
o
nebbia?"
Dax:
"Si
prevede
una
giornata
di
sole
invece"
III
ufficiale:
"Se,
o
forse
dovrei
dire,
quando
avremo
il
Formicaio
quanto
tempo
dovremo
tenerlo
prima
che
ci
mandino
dei
rinforzi?"
Dax:
"Bé,
il
generale
Mireau
che,
per
inciso,
sovrintenderà
personalmente
l'attacco,
ci
ha
promesso
l'appoggio
del
72esimo
al
tramonto
di
domani,
il
che
significa
che
dovremo
resistere
tutto
il
giorno".
Le
inquadrature
iniziali
dell'attacco,
dove
una
ripresa
dall'alto
e da
dietro
mostra
la
massa
dei
soldati
che
escono
dalla
trincea
in
un
«paesaggio
sonoro"»
dominato
soprattutto
dal
fuoco
dell'artiglieria
nemica,
sono
la
perfetta
trascrizione
visiva
di
quell'assalto
alla
baionetta
e di
sorpresa
- la
richiesta
di
informazioni
sul
tempo
previsto
per
l'indomani,
è
chiara
in
tal
senso
-
in
cui
si
risolveva
la
dottrina
movimentista.
Il
riferimento
all'artiglieria
del
primo
ufficiale
che
chiede
ragguagli,
poi,
è
sintomatico
non
solo
di
una
strategia
che
ne
riduceva
al
minimo
l'intervento,
ma
anche
di
una
situazione
di
reale
inferiorità
della
Francia,
la
composizione
del
cui
esercito
era
la
seguente:
70
per
cento:
fanteria,
30
per
cento
tra
artiglieria,
genio
e
cavalleria
(Jean
François
Sirinelli,
Robert
Vandebussche,
Jean
Vavasseur-Desperriers,
2003,
p.
13.)
nei
confronti
di
una
Germania
ben
dotata
sotto
il
profilo
dell'artiglieria
pesante
(Ivi,
p.
13).
A
questo
riguardo
l'elenco
delle
armi
di
cui
avere
paura,
stilato
dai
due
soldati
nella
sequenza
finale
della
prima
parte
del
film,
non
fa
che
accentuare
l'inadeguatezza
dell'equipaggiamento
francese.
A
questo
proposito
è
felicissimo
nel
dialogo
il
riferimento
all'elmetto:
nei
primi
tempi
di
guerra
le
truppe
francesi
non
solo
erano
costrette
ad
indossare
i
ben
noti
pantaloni
rossi
propri
della
divisa
napoleonica,
ma
non
possedevano
nemmeno
gli
elmetti,
mentre
i
tedeschi
disponevano
di
divise
mimetiche
fin
dall'inizio
del
conflitto
(Ivi,
p.
13).
Inoltre
il
fucile
resta
l'arma
principale
dell’esercito
francese
(Ivi,
p.
13)
-
l'accenno
alla
baionetta
ripetuto
più
volte,
è
sintomatico.
E
purtroppo
realistica
era
la
sottovalutazione
della
reale
portata
della
potenza
di
fuoco
del
nemico
(Ivi,
p.
19).
Ironico,
in
tal
senso,
è il
dialogo
tra
il
generale
Mireau
e
Paris
durante
l'ispezione.
Il
generale
trova
Paris
mentre
è
intento
a
pulire
il
proprio
fucile:
«
Mireau:
Ah!
Fai
manutenzione
al
fucile,
vedo.
Bene,
molto
bene...
è il
tuo
migliore
amico,
abbi
cura
di
lui
e
lui
avrà
sempre
cura
di
te
Paris:
Si,
signore»
Paris
non
fa
in
tempo
a
finire
di
pronunciare
queste
parole,
che
a
pochi
passi
da
loro
esplode
una
bomba
lanciata
dall'artiglieria
nemica.
Mireau
accenna
ad
un
sorriso
quasi
imbarazzato
e
poi
saluta
Paris
augurandogli
«buona
fortuna».
Non
credo
che
la
scena
abbia
bisogno
di
commenti.
La
tecnologia
bellica
e la
scarsa
avvedutezza
della
dirigenza
militare
francese,
generano
così
un
movimento
delle
truppe
durante
l'attacco
che
la
proposizione
filmica
non
può
che
ridare
come
bloccato,
non
solo
e
non
tanto
nella
sua
fisicità,
quanto
nella
sua
intenzionalità.
Un
movimento
realmente
alienato,
in
quanto
reciso
del
suo
fine
e,
di
conseguenza,
rigettato
continuamente
nel
luogo
della
sua
insorgenza.
Da
questo
punto
di
vista,
è
emblematica
la
sequenza
in
cui
Dax
è
ricacciato
nella
trincea
dal
cadavere
di
un
soldato
presumibilmente
ucciso
in
seguito
ad
un'esplosione.
Nello
stesso
modo,
dopo
la
conclusione
del
processo,
Dax
non
riuscirà
a
contattare
telefonicamente
il
quartier
generale.
Padre
Duprex
racconta
di
questo
tentativo
ai
tre
condannati:
«
Padre
Duprex:
Purtroppo
vi
porto
cattive
notizie.
Dovete
prepararvi
al
peggio.
Il
colonnello
Dax
mi
ha
pregato...
Ferol:
Oh
no!
Come
nell’episodio
della
battaglia,
anche
in
questo
caso
Dax
sarà
costretto
nel
luogo
da
cui
la
sua
iniziativa
ha
preso
avvio.
Va
da
sé,
allora,
che
come
le
nuove
armi
chiudono
lo
spazio
che
i
fanti
si
trovano
di
fronte,
così
il
potere
militare
chiude
lo
spazio
alle
loro
spalle.
Si
veda
inoltre
la
sequenza
della
lettera
che
Paris
consegna
a
Padre
Duprex
perché
la
recapiti
alla
sua
famiglia.
Questa
parvenza
di
contatto
è
immediatamente
rovesciata
nella
realtà
dell'impossibilità
di
contatto,
sia
perché
è
necessaria
la
mediazione
di
padre
Duprex,
sia
perché
il
sacerdote
è,
per
così
dire,
effetto
del
potere
esso
stesso,
giacché
la
sua
presenza
è
richiesta
dal
rituale
dell'esecuzione,
come
colui
che,
in
quanto
messaggero
di
vita,
sebbene
eterna,
dovrebbe
porgere
il
conforto
ultimo
al
condannato.
La
costrizione
dello
spazio
causata
dal
gioco
del
potere
trova
nella
battute
iniziali
del
processo
la
sua
più
palese
e
cruda
rappresentazione.
Fin
dal
preambolo,
in
cui
il
giudice
ricapitola
i
capi
di
imputazione,
si
assiste
ad
una
ostentata
riduzione
dei
diritti
degli
accusati.
Il
giudice,
infatti,
non
legge
integralmente
le
imputazioni
ascritte
ai
tre
soldati,
e
motiva
questa
scelta
ricordando
che
il
processo
è un
processo
militare:
"Questa
è
una
corte
marziale
e
pertanto
faremo
a
meno
di
formalità
superflue…
Questi
uomini
sono
accusati
di
codardia
di
fronte
al
nemico,
e
verranno
processati
per
questo
reato…".
E al
richiamo
di
Dax,
che
vorrebbe
letta
l'intera
imputazione,
il
giudice
risponde:
«Per
favore,
non
faccia
perdere
tempo
alla
corte
con
particolari
tecnici.
L'imputazione
è
lunga
e
non
c'è
scopo
a
leggerla».
Con
poche
ma
decise
parole,
il
giudice
separa
lo
spazio
militare
dallo
spazio
civile,
ricordando
che
esso
è
regolato
da
leggi
proprie
contro
di
cui
nessuna
ingerenza
può
essere
tollerata,
tanto
più
che
la
corte
marziale
si
sta
riunendo
in
tempo
di
guerra:
eccessive
"lungaggini",
di
conseguenza,
non
possono
proprio
essere
ammesse.
Il
carattere
concluso
dello
spazio
di
Paths
of
Glory,
in
definitiva,
non
è
dovuto
a
confini
fisici
che
non
sono
oltrepassati,
ma è
determinato
da
forze
magnetiche
intradiegetiche,
pure
invisibili,
che
attraggono
e
chiudono
nel
campo
che
istituiscono
quanto
lo
attraversa.
Questo
tratto
dello
spazio
non
cesserà
di
mancare
ai
diversi
spazi
che
i
film
di
Kubrick
visiteranno:
si
tratti
delle
sale
del
potere
di
Doctor
Strangelove,
oppure
della
navicella
di
2001:
A
Odissey
in
the
Space;
dell'Overlook
Hotel,
oppure
del
palazzo/castello
in
cui
ha
luogo
l'orgia
vissuta/sognata
dal
protagonista
di
Eyes
Wide
Shut.
Se
rifiutarsi
di
mostrare
il
transito
da
un
luogo
all'altro
non
è
essenziale
dal
punto
di
vista
narrativo
- le
lacune
prodotte
da
questo
comportamento
sono,
infatti,
compensate
dalla
competenza
narrativa
dello
spettatore
-,
lo è
però
dal
punto
di
vista
della
esperienza
dello
spazio
che
esso
veicola.
Uno
spazio
costituito
da
luoghi
i
cui
reciproci
rapporti
non
sono
percorsi,
è
uno
spazio
i
cui
settori
sono
tra
loro
irrelati.
Non
è
dato
sapere,
per
esempio,
quale
è la
distanza
tra
il
palazzo
e il
fronte.
Il
loro
rapporto,
infatti,
è
definibile
solo
in
riferimento
al
Formicaio
e in
modo
oltremodo
vago:
il
fronte,
cioè,
è
presumibilmente
interposto
tra
Formicaio
e
palazzo.
Di
più
non
è
lecito
dire.
Nello
stesso
modo
è
difficile
stabilire
in
che
relazione
si
trovano,
per
esempio,
i
ridotti
di
Dax,
Roget,
Arnaud
e
quello
in
cui
avviene
la
presentazione
della
strategia.
Di
essi
si
può
solo
dire
- ma
è
un'evidente
ovvietà
-
che
appartengono
al
sistema
trincea.
Lo
stesso
vale
per
tutti
i
luoghi:
dove
si
trova
la
stalla
che
è
utilizzata
come
prigione
rispetto
al
palazzo?
Dove
si
trova
realmente
la
corte
che
ospita
l'ufficio
di
Dax
e la
locanda
della
sequenza
finale?
Ed
entrando
nel
castello
o
palazzo
che
dir
si
voglia,
dove
si
trovano
la
sala
del
processo,
la
sala
del
ricevimento,
la
biblioteca
(?)
in
cui
ha
luogo
il
colloquio
finale
tra
Dax
e
Broulard,
e
dove
conducono
le
scale
su
cui
si
recita
il
duetto
tra
Dax
e
Mireau,
dopo
la
richiesta
di
processo
nei
confronti
dei
tre
soldati?
Quale
spazio
si
genera
allora
in
Paths
of
Glory?
Da
un
lato
l'azione
dell'invisibile,
che
recide
i
movimenti
della
loro
intenzionalità
e li
relega
nella
loro
origine,
chiude
in
via
definitiva
uno
spazio,
costringendo
e
imprigionando
i
personaggi
al
suo
interno.
Dall'altro
questa
forzata
unità
spaziale,
non
riesce
a
compattare
gli
ambienti
di
cui
è
composta,
i
quali
di
contro
intrattengono
tra
loro
posizioni
indecidibili
seppure
palesemente
interconnesse,
se
non
addirittura
contigue.
Di
uno
spazio
siffatto
non
è
possibile
alcuna
mappatura,
e,
quindi,
alcun
sistema
di
riferimento:
al
suo
interno,
in
definitiva,
non
è
possibile
orientarsi.
Il
labirinto,
inoltre,
si
sviluppa
attraverso
la
ripetizione
di
ambienti
«…uguali
(o
apparentemente
uguali)
a se
stessi
all'infinito»
(Ibidem,
p.
138).
Di
conseguenza,
il
labirinto
è
«spazio
svuotato,
privato
di
punti
di
riferimento»
(Ivi).
La
ripetizione
dell'identico
non
manca
in
Paths
of
Glory
e,
naturalmente,
riguarda
in
maniera
precipua
la
trincea.
Si
pensi
ai
ridotti
dei
soldati:
sono
uno
stesso
modulo
che
si
ripete,
che
si
tratti
del
ridotto
di
Dax,
di
Roget
oppure
del
ridotto
in
cui
si
svolge
la
riunione
tra
gli
ufficiali.
La
trincea,
del
resto,
è
essa
stessa
ripetizione
di
spazi
uguali,
di
corridoi
e
cunicoli
identici
che
si
sviluppano,
dal
punto
di
vista
di
chi
vi è
dentro,
quasi
a
rizoma,
come
suggeriscono
quelle
diramazioni
appena
accennate
durante
l'ispezione
di
Mireau.
L'impossibilità
di
disporre
gli
ambienti
in
un
ordine
piano
e
chiaro,
la
loro
reciproca
"fluttuazione",
si
appaia
negli
effetti
alla
ripetizione
di
moduli
identici,
giacché
anch'essa
nega
ab
ovo
la
possibilità
di
un
sistema
di
orientamento.
Con
Eugeni,
quindi,
il
labirinto
è
"…la
forma
sensibile
che
esprime
la
perdita
di
controllo
del
soggetto…
sullo
spazio:
il
soggetto
non
riesce
più
a
controllare
le
strutture
spaziali…
né
di
conseguenza
a
calcolare
le
proprie
posizioni
e
propri
percorsi
al
loro
interno".
Giova
notare,
a
questo
punto,
due,
per
così
dire,
coincidenze
che
confortano
la
tesi
che
qui
si
va
sostenendo.
Innanzitutto,
lo
storico
Eric
J.
Leed
osserva
che
la
metafora
del
labirinto
ricorre
spesso
nei
resoconti
dei
combattenti
per
la
sua
idoneità
"…a
simboleggiare
la
natura
frammentata,
disintegrata
e
disgiuntiva
del
paesaggio
in
cui
erano
inseriti
i
combattenti
della
guerra
di
trincea"
(Eric
J.
Leed,
1985,
p.
109).
Con
le
parole
di
Charles
Carrington,
in
trincea
"È
impossibile
mantenere
il
senso
dell'orientamento
ed
ogni
passo
costa
una
fatica
immensa.
Quando
poi
il
sistema
di
trincee
è
stato
squassato
dalla
battaglia,
la
confusione
raggiunge
il
suo
grado
massimo
[ e]
un
vecchio
e
tormentato
campo
di
battaglia
come
quello
della
Somme,
diventa
infine
un
labirinto
di
trincea
senza
criterio
alcuno"
(Ibidem,
p.
109).
La
testimonianza
di
Carrington
è
importante
perché
furono
proprio
le
nuove
tecnologie
belliche
che
"…definirono
una
struttura
fisica
- il
sistema
di
trincea
-
che
assunse
le
sembianze
di
un
mondo
labirintico,
in
grado
di
dettare
il
comportamento,
le
relazioni
sociali,
la
coscienza
di
sé
del
combattente"
(Ibidem,
p.
106).
In
secondo
luogo,
si
osservi
che
in
Kubrick
l'esperienza
del
labirinto
-
l'esperienza
dello
spazio
come
labirinto
- è
ottenuta
soprattutto
con
carrelli
a
precedere
o a
seguire,
che,
seppure
già
utilizzati
in
maniera
sporadica
in
The
Killer's
Kiss,
ricevono
una
sistematizzazione
stilistica
e
ideologica
solo
in
Paths
of
Glory,
poiché
solo
in
questo
film
giungeranno
ad
esprimere,
per
dirla
ancora
una
volta
con
Eugeni,
quella
voracità
dello
spazio,
quel
suo
effetto
di
risucchio
della
figura
umana
che
sarà
tratto
dominante
della
spazialità
kubrickiana
(Ruggero
Eugeni,
1995,
p.
142).
La
congiunzione
di
queste
annotazioni
porta
ad
affermare
ancora
una
volta
che
Paths
of
Glory,
in
una
maniera
molto
profonda,
descrive
non
tanto
una
guerra
in
generale,
quanto
l'esperienza
della
guerra
che
si
generò
durante
il
primo
conflitto
mondiale.
Se,
poi,
il
labirinto,
come
figura
sensibile
che
esprime
l'esperienza
di
perdita
di
controllo
sullo
spazio,
marcherà
ogni
film
del
regista
statunitense,
fino
alla
sua
celebrazione
in
Shining
-
dove
il
labirinto
non
è
ovviamente
solo
il
gioco
approntato
per
gli
avventori
dell’Overlook
Hotel,
ma è
lo
sviluppo
dell’albergo
stesso
e
dei
corridoi
percorsi
da
Danny
- e
Full
metal
Jacket
con
i
prefabbricati
che
costituiscono
i
quartieri
attraversati
dai
marines,
significa
che
per
Kubrick
questa
topos
esprime
qualcosa
che
tocca
la
modernità
nel
profondo,
è,
quindi,
a
tutti
gli
effetti,
una
struttura
della
soggettività
moderna.
David
Harvey
osserva
che
la
cartografia
rinascimentale
deve
la
sua
espansione
alla
griglia
tolemaica.
Infatti
"…l'importazione
della
mappa
tolemaica
da
Alessandria
a
Firenze
intorno
al
1440
sembra
aver
avuto
un
ruolo
fondamentale
nella
scoperta
e
nell'uso
della
prospettiva
da
parte
del
Rinascimento
[…]
nell'ideare
la
griglia
in
cui
situare
i
luoghi,
Tolomeo
aveva
immaginato
come
il
mondo
sarebbe
apparso
a un
occhio
umano
che
lo
vedesse
dall'esterno"
(David
Harvey,
2002,
p.
302).
La
griglia
tolemaica
"…poneva
un'immediata
unità
matematica.
I
luoghi
più
lontani
potevano
essere
messi
in
relazione
uno
con
l'altro
per
mezzo
di
coordinate
immutabili,
di
modo
che
risultassero
evidenti
la
loro
distanza
e i
loro
rapporti
direzionali"
(Ivi).
Due
sono
le
implicazioni:
"In
primo
luogo,
la
capacità
di
vedere
il
globo
come
totalità
conoscibile
[ In
secondo
luogo,]
si
potevano
applicare
principi
matematici
all'intero
problema
della
rappresentazione
del
globo
su
una
superficie
piana.
Di
conseguenza,
sembrava
che
lo
spazio,
per
quanto
infinito,
fosse
conquistabile
e
limitabile
ai
fini
dell'occupazione
e
dell'azione
umana"
(Ivi).
Nella
concezione
illuministica
dello
spazio,
condizionata
dalla
meccanica
newtoniana,
la
mappa
diviene,
nella
critica
di
de
Certau,
uno
"strumento
totalizzante»
[…]
La
mappa
è in
effetti
una
forma
di
omogeneizzazione
e di
reificazione
della
ricca
diversità
degli
itinerari
spaziali
e
delle
storie
spaziali"
(Ibidem,
p.
309).
Difatti,
"La
prospettiva
e la
cartografia
basata
su
principi
matematici
...
ritenevano
che
lo
spazio
fosse
astratto,
omogeneo
e
universale
nelle
sue
qualità,
un
quadro
di
riferimento
stabile
e
conoscibile
per
il
pensiero
e
l'azione
[qualcosa
di]
utilizzabile,
di
malleabile
e...
dominabile
per
mezzo
dell'azione
dell'uomo"
(Ibidem,
pp.
310-
311).
Ne è
un
esempio
lampante
la
griglia
a
scacchiera
che
suddivide
la
Francia
rivoluzionaria
per
determinare
i
dipartimenti
della
rappresentanza
politica
(Ibidem,
p.
312
sgg.).
È
precisamente
questa
perfetta
dominazione
del
mondo
che
viene
polemicamente
richiamata
dalla
mappa
del
territorio
su
cui
si
erge
il
Formicaio.
Soprattutto
è la
testarda
vigenza
di
questa
modalità
rappresentativa
che
contribuirà
a
generare
l’esperienza
labirintica
dello
spazio
fornendovi,
perlomeno
l’idea
di
una
unità.
Vi
è,
inoltre,
un
altro
orizzonte
che,
seppure
virato
sulla
dimensione
della
temporalità,
contribuisce
alla
creazione
dell'esperienza
labirintica
dello
spazio.
Come
dimostra
Stephen
Kern,
nel
valico
tra
l'Ottocento
e il
Novecento,
le
dimensioni
temporali
subirono
una
importante
modificazione.
Fu
soprattutto
il
presente
ad
uscirne
profondamente
modificato,
giacché
costruito
secondo
i
vettori
della
simultaneità
da
un
lato
e
del
"presente
addensato"
(Stephen
Kern,
©1988,
pp.
87-115)
dall'altro.
Se
con
"presente
addensato",
Kern
intende
affermare
che
nella
riflessione
di
inizio
Novecento
il
presente
era
avvertito
come
composto
sia
dalle
percezioni
immediate
sia
dalle
ritenzioni
dei
momenti
appena
trascorsi
e
dalle
protensioni
dei
momenti
a-venire
(Ibidem,
pp.
106-107),
in
una
dilatazione
del
presente
da
rendere
difficile
la
sua
limitazione,
con
la
nozione
di
simultaneità
lo
storico
afferma
l'emergere
di
un
"presente
spazialmente
dilatato".
I
due
vettori
del
presente
si
congiungono
nel
seguente
effetto:
"Mentre
la
simultaneità
estendeva
spazialmente
il
presente,
furono
compiuti
altri
tentativi
di
allargare
temporalmente
il
tradizionale
presente
filiforme,
per
includervi
parte
del
passato
e
del
futuro
immediati"
(Ibidem,
p.
104).
Con
il
presente
addensato,
quindi,
si
va
nella
direzione
di
un
presente
che,
almeno
nella
sua
vocazione,
aspirerebbe
ad
appaiarsi
al
presente
infinito
divino
"…in
cui
tutto
ciò
che
ci
appare
come
sequenza
è un
tutto
immutabile"
(Ibidem,
p.
109).
Non
è
inutile
richiamare
l'esperienza
di
The
killing.
Il
film,
girato
nel
1956,
racconta
la
storia
del
progetto,
della
realizzazione
e
del
fallimento
di
una
rapina
all'ippodromo.
Come
è
noto,
la
narrazione
non
segue
linearmente
la
vicenda,
ma
si
sviluppa
in
un
continuo
andirivieni
temporale,
che
trova
la
sua
massima
elaborazione
nel
racconto
del
giorno
della
rapina,
dove
il
film
segue
la
messa
in
atto
del
piano
da
parte
di
ciascun
partecipante
e,
così,
torna
ogni
volta
indietro
nel
tempo
rispetto
al
punto
di
non
ritorno
stabilito
dalla
settima
corsa
che
parte
alle
16.23.
Quello
che
Kubrick
mette
in
scena
non
è
solo
una
riflessione
metalinguistica
sul
cinema
come
arte
del
tempo.
Anche
se,
lo
si
dica
a
margine,
il
cinema
stesso
ha
contribuito
a
creare
quella
egemonia
del
presente
sulle
altre
dimensioni
temporali.
Da
questo
punto
di
vista,
The
Killing
è a
dir
poco
illuminante
giacché
espone
in
maniera
sistematica
la
possibilità
per
la
modernità
di
percorrere
il
tempo
in
tutte
le
sue
direzioni,
di
riassemblarne
i
momenti
a
proprio
piacimento.
The
Killing
è
inoltre
la
denuncia
di
un
sovvertimento
della
struttura
temporale
stessa.
La
possibilità
di
muoversi
lungo
le
linee
temporali,
quindi
lungo
il
passato
e il
futuro,
spinge
fuori
del
movimento
del
tempo
il
presente
del
narratore,
che
assurge
così
a
unico
signore
del
tempo.
E il
presente
di
The
Killing
è
innanzitutto
la
voce
off,
la
voce
della
visione
registica,
della
quale
non
si
può
affatto
dire
che
«…non
ha
del
tempo
e
del
mondo
una
visione
rettilinea:
ne
ha
una
spezzata,
al
tempo
stesso
caotica
e
regolata»
(Bruno
Fornara,
1998,
p.
101).
La
voce
della
visione
registica,
di
contro,
ha
del
tempo
moderno,
del
tempo
che
si è
affacciato
nel
Novecento
una
visione
assolutamente
chiara,
piana,
lineare,
disincantata:
il
tempo,
l'unico
tempo,
è il
presente,
ormai
dilatato
oltre
ogni
misura
fino
a
dominare
il
passato
e il
futuro,
sui
quali
può
scorrere
quasi
danzando.
Con
la
nozione
di
simultaneità,
invece,
si
va
nella
direzione
in
cui
nel
presente
i
molteplici
luoghi
che
compongono
il
mondo
si
danno
in
una
abolizione
delle
distanze
o,
con
le
parole
di
David
Harvey,
in
una
compressione
spazio-temporale
(David
Harvey,
2002,
p.
310
e
sgg).
Ma
questa
chiamata
a
raccolta
dei
diversi
spazi
non
si
traduce
in
una
loro
apprensione
totale:
sperimentare
eventi
lontani
attraverso
la
radiotelegrafia,
per
esempio,
non
garantisce
una
loro
appropriata
ubicazione.
Si
crea
uno
scollamento
tra
l'esperienza
delle
distanze
e
dei
rapporti
mediata
dalla
tecnologia
e
l'esperienza
personale
immancabilmente
situata
e
quindi
prospettica.
Da
questo
punto
di
vista,
l'aereo
abbattuto
di
Paths
of
Glory,
i
cui
resti
fumanti
sono
mostrati
durante
la
sequenza
della
ricognizione
nella
Terra
di
nessuno,
ha
un
valore
assolutamente
ironico.
Eric
J.Leed
rileva
come
«Uno
dei
miti
più
significativi
[della
Grande
Guerra]
fu
la
prospettiva
aerea
-
quella
che
veniva
attribuita
all'aviatore.
La
necessità
di
questo
mito
risiede
precisamente
nella
frammentazione
delle
percezioni
e
delle
finalità
del
soldato
di
linea
[...]Una
veduta
aerea
avrebbe
ordinato
gli
angoli
e le
giravolte
del
labirinto
in
un
tutto
organico»
(Eric
J.
Leed,
1979
,
p.
179).
L'aereo
kubrickiano,
un
aereo
militare
distrutto
durante
la
guerra
che
lo
innalzò
a
protagonista,
ha
un
aspetto
che
ricorda
l'affondamento
del
Titanic,
avvenuto
il
14
aprile
del
1912
fra
i
banchi
di
ghiaccio
del
nord
Atlantico
(Stephen
Kern,
©1988,
p.
87).
Come
il
Titanic
affonda
quando
avrebbe
dovuto
radicare
con
forza
le
coordinate
del
nuovo
mondo,
vale
a
dire:
la
simultaneità
raggiungibile
anche
con
la
velocità,
che
fu
anche
la
causa
del
naufragio
(Ibidem,
p.
142),
così
l'aereo
kubrickiano
è un
resto
fumante
proprio
quando
avrebbe
dovuto
portare
al
suo
splendore
l'abbattimento
delle
distanze
attraverso
l'apprensione
a
plongeé
del
mondo:
da
un
punto
di
vista
che
metaforicamente
annullerebbe
ogni
prospettiva.
Se
questo
è
l'orizzonte
richiamato,
si
comprende
perché
il
labirinto,
secondo
Ruggero
Eugeni,
«...
è la
forma
sensibile
che
esprime
la
perdita
di
controllo
del
soggetto
sul
tempo
e lo
spazio
[Esso
è]
spazio
svuotato,
privato
di
punti
di
riferimento»
(Ruggero
Eugeni,
1995,
p.
138).
Il
labirinto,
in
questa
prospettiva,
non
è
più
solamente
una
concezione
dello
spazio
che
si
affianca
e,
forse,
sostituisce
la
concezione
illuministica.
Esso,
piuttosto,
esprime
l'angoscia
che
attanaglia
il
soggetto
quando
un'organizzazione
spaziale
del
mondo,
supposta
vera
fino
ad
allora,
cade,
deflagra,
rovina.
Soprattutto,
mi
sembra,
lo
spazio/labirinto
è la
migliore
categoria
-
concetto
nello
stesso
tempo
logico
e
ontologico
-
per
comprendere
a
fondo
il
rapporto
inscindibile
tra
il
soggetto
e la
nuova
spazialità
che
andava
ad
imporsi
senza
che
gli
riuscisse
di
fronteggiarla
e di
dominarla
adeguatamente.
Riferimenti bibliografici:
David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell, 1990, trad. it. di Maurizio Viezzi, La crisi della modernità, Milano, Net, 2002.
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