N. 52 - Aprile 2012
(LXXXIII)
Orizzonti di gloria
Memoria della Grande Guerra - Parte VIII
di Gianluca Seramondi
Ora,
si
potrebbe
leggere
il
modo
in
cui
Kubrick
raffigura
i
soldati
anche
alla
luce
di
quanto
qui
detto
a
proposito
dello
spazio.
Come
ricorda
Roberto
Campari,
il
film
deve
«...
presentare
tutto
e
subito
il
suo
personaggio,
cioè...
dargli
una
serie
di
caratteri
fondamentali
fin
dall’inizio
[...]
che
restano
come
un
discorso
fatto
una
volta
e
soltanto
corretto,
o
precisato,
in
seguito»
(Roberto
Campari,
1993,
pp.
72-73),
di
conseguenza,
«...
assumerà
importanza
determinante...
il
momento
dell’entrata
in
scena»
(Ibidem,
p.
79).
Ne
consegue
ovviamente
che
lo
spazio
avrà
un
valore
determinante
nella
prima
presentazione
di
uno
o
più
personaggi.
Non
solo
e
non
tanto
l’ambiente:
il
suo
arredamento,
il
suo
decoro;
quanto
la
spazializzazione
del
personaggio,
il
modo
in
cui
il
regista
inserisce
il
personaggio
nello
spazio.
In
questa
prospettiva,
non
può
sfuggire
come
i
soldati
siano
perlopiù
ripresi
con
primi
o
primissimi
piani,
fin
dalla
loro
prima
comparsa
come
personaggi,
precisamente
durante
la
sequenza
dell’ispezione.
L’angustia
degli
spazi
nelle
trincee
può
benissimo
giustificare
una
scelta
stilistica
così
importante.
Ad
una
più
attenta
analisi,
tuttavia,
questa
scelta
è
motivata
da
un’intenzione
differente.
Se,
generalmente,
il
primo
e il
primissimo
piano
del
volto
favoriscono
una
più
intensa
identificazione
del
personaggio
a
livello
affettivo,
psicologico
ed
esistenziale,
giacché
la
raffigurazione
ravvicinata
del
volto
lo
ritaglia
dal
tessuto
delle
relazioni
che
lo
legano
con
l’ambiente
circostante,
trasformando
il
volto
stesso
in
un
paesaggio,
un
territorio
tra
le
cui
trame
fa
capolino
un
mondo
interiore
vasto
e
non
completamente
addomesticato
- si
pensi,
per
fare
esempi
noti,
ai
primi
piani
di
Michelangelo
Antonioni,
oppure
alla
successione
dei
primi
piani
che
costituiscono
La
passion
de
Jeanne
d’Arc
(1928)
di
Carl
Theodor
Dreyer
-,
in
Kubrick
l’uso
dei
primi
piani
del
volto
dei
soldati
ha
un
diverso
valore,
di
appiattimento
e “stereopatizzazione”.
È
esemplare,
a
questo
riguardo,
il
volto
del
soldato
colpito
da
shock
da
bomba.
In
quel
volto
la
ricchezza
discorsiva
della
follia,
e
dell’esperienza
bellica
che
ne è
stata
la
condizione,
si
irretisce
nella
ripetizione
inesausta
di
una
disperazione
bloccata.
I
primi
piani
dei
soldati
non
sono
paesaggi
da
penetrare,
percorrere,
interrogare.
Sono
piuttosto
cartografie,
appaiabili
alla
mappa
del
Formicaio
appesa
ad
una
parete
del
ridotto
di
Dax.
Sono,
dunque,
ricostruzioni,
astrazioni,
che
dissolvono
le
differenze
tra
i
volti
nell’identità
della
loro
rappresentazione.
La
successione
dei
volti
di
Ferol,
Arnaud
e
Paris
durante
il
processo
è a
questo
proposito
emblematica.
Appaiandosi
con
la
successione
dei
loro
stessi
volti
durante
la
visita
di
Mireau
alle
trincee,
e
con
quella
dei
volti
dei
soldati
nella
locanda,
quella
successione
rimanda
ad
un’iconografia
del
diseredato
stabilita
con
grazia
insuperata
nei
dipinti
di
Giacomo
Ceruti,
detto
il
Pitocchetto.
Come
i
volti
e le
figure
dei
pitocchi
di
Ceruti,
anche
i
volti
dei
tre
imputati
di
Kubrick
sono
quasi
sospesi
su
di
uno
sfondo
che,
proprio
perché
ingigantito
e
allontanato
dall’uso
del
grandangolare,
non
intrattiene
con
essi
alcuna
relazione.
Tra
i
volti
e lo
sfondo
non
vi è
alcuna
dialettica.
I
volti
e,
con
essi,
i
soldati
sono
appiccicati
su
quello
sfondo
come
ritagli
di
un
collage
sgraziato
e
ingenuo.
Il
ricorso
ai
campi
lunghi
e
lunghissimi
con
cui
Kubrick
riprende
i
soldati
in
alternativa
al
primo
piano,
avvalora,
e
non
smentisce,
questa
impostazione,
quasi
in
una
dimostrazione
per
negazione.
In
Paths
of
Glory,
infatti,
i
soldati
sono
ripresi
in
figura
intera
in
quei
luoghi
in
cui
la
loro
identificazione
è
fattore
secondario,
e
prevale
di
contro
uno
schiacciamento
della
figura
sullo
spazio,
una
sua
indifferenziazione
da
questo.
Si
pensi
alle
figure
dei
soldati
nelle
trincee.
Solitamente
sono
aggrappati
alle
pareti
della
trincea,
fino
al
punto
di
confondersi
con
esse
durante
la
sequenza
del
passaggio
di
Dax
nei
momenti
che
precedono
l’attacco.
Si
pensi,
ancora,
al
campo
lungo
a
plongé
che
inquadra
l’ingresso
dei
tre
soldati
nell’aula
del
processo.
Il
tratto
che
unisce
le
raffigurazioni
in
figura
intera
dei
soldati
è la
loro
indifferenziazione
dallo
spazio,
una
modalità
di
relazionarsi
con
lo
spazio
che
annulla
ogni
ipotesi
di
usabilità
dello
stesso
da
parte
dei
soldati.
In
altri
termini,
i
soldati
sono
confusi
nello
spazio
che
attraversano.
Non
lo
abitano.
Si
aggrappano
ai
suoi
limiti.
Si
potrebbe
dire
che
essi
contribuiscono
a
creare
il
moderno
spazio
labirintico,
il
suo
effetto
spaesante,
proprio
con
l’atto
di
aggrapparsi
alle
pareti
delle
trincee,
fino
a
confondersi
con
esse
al
fine
di
sfuggire
alla
devastante
potenza
dell’artiglieria
nemica.
La
sequenza
che
precede
l’attacco,
quando
Dax
percorre
le
trincee,
è a
tal
proposito
significativa:
i
soldati
sembrano
emergere
dalle
pareti
della
trincea
come
le
figure
emergono
dai
bassorilievi
funebri
medievali.
Nei
confronti
dello
spazio,
i
soldati
si
rapportano
dunque
o
secondo
l’indifferenza
confusiva
oppure
secondo
l’apposizione
forzata.
Ecco,
allora,
la
necessità
delle
riprese
ravvicinate
dei
volti:
il
primo
piano
è
necessario
per
sollevare
il
soldato
da
uno
spazio
che
lo
inghiotte,
lo
assorbe.
Questo
sollevamento,
tuttavia,
non
permette
affatto
una
individualizzazione
del
personaggio,
bensì
un
più
schiacciante
dominio
della
gerarchia
militare
sui
destini
individuali.
Si
noti,
infatti,
che
il
ricorso
ai
primi
piani
si
ha
in
via
primaria
quando
i
soldati
sono
o in
un
contatto
diretto
con
la
gerarchia
militare:
durante
l’ispezione
di
Mireau,
durante
il
processo;
o in
una
distanza
dalla
gerarchia
che
ne
afferma
una
volta
di
più
l’efficacia:
il
dialogo
furtivo
tra
Paris
e
Lejeune
fuori
del
ridotto
di
Roget,
la
sequenza
del
carcere,
i
volti
della
locanda.
Come
l’ispezione
di
Mireau
esemplifica
in
maniera
mirabile,
la
gerarchia
militare
si
rivolge
ai
sottoposti
con
una
stessa
e
identica
formula,
con
una
domanda
che
non
conduce
ad
una
alterità
fino
ad
allora
sconosciuta,
ma
che
nega
forzatamente
l’alterità
stessa.
Come
se
la
gerarchia
militare
traducesse
sul
piano
dei
rapporti
individuali
una
verità
storica
della
guerra
mondiale,
la
quale,
«…
non
risponde
ad
un
principio
di
individuazione,
produce
un’oscura
frattura
epocale,
né
ha
per
protagonisti
individui
ma
enormi
masse
di
uomini
anonimi
(namenlos)»
(Barnaba
Maj,
2003,
114).
Urge
a
questo
punto
affrontare
la
questione
del
mostro
da
cui
la
figura
del
labirinto
è
indissociabile.
Come
ricorda
Pierre
Giuliani,
«Non
c’è
labirinto
senza
abitante
mostruoso
[…]
Minotauro,
quindi,
dal
momento
che
c’è
labirinto.
La
presenza
del
Minotauro
rende
autentica
la
natura
labirintica
dei
«luoghi»
nella
stessa
misura
in
cui
questi
ultimi
assegnano
a
chi
li
frequenta
alcuni
attributi
della
mostruosità
ibrida»
(Pierre
Giuliani,
©
1996,
p.
46).
Gli
ufficiali
dello
stato
maggiore
francese
sono
personificazioni/variazioni
del
Minotauro
perché
sono
portatori
di
una
«violenza
estrema»
propria
della
mostruosità
ibrida
(Ibidem,
p.
48-49);
perché,
si
“cibano”
si
carne
umana
proprio
come
il
Minotauro:
la
loro
sopravvivenza
è
dunque
legata
al
sacrificio
di
vittime
umane;
perché
partecipano
alla
costruzione
dello
spazio/labirinto
insieme
alla
tecnologia
bellica;
perché,
infine,
si
muovono
nello
spazio
del
labirinto
con
una
familiarità
inconsueta.
Si
torni
alle
sequenze
che
aprono
il
film.
Prima
ancora
del
dialogo
tra
Mireau
e
Broulard,
le
cui
battute
iniziali
invitano
a
soffermarsi
sul
salone-ufficio,
è
proprio
il
salone
stesso
a
parlare
dei
due
generali,
a
rivelarne
la
condizione
sociale,
l’aderenza
al
bon
ton,
l’osservanza
di
quelle
regole
che,
sotto
il
nome
di
“etichetta”,
concretano
uno
spazio
sociale
condiviso.
Il
salone,
improntato
ad
una
ricercatezza
erudita,
raffinata
e
ben
attenta
al
gioco
dei
pieni
e
dei
vuoti,
dell’illuminazione,
dei
decori
e
dei
dipinti
fra
loro
e
con
l’ambiente
che
li
ospita,
sottolinea
la
familiarità
che
i
due
generali
mostrano
nei
confronti
di
questi
locali,
e
che
non
deriva
certo
dalla
loro
posizione
di
militari
occupanti.
Come
ricorda
Paolo
Cherchi
Usai,
in
architettura
«La
decorazione
valorizza,
con
il
materiale,
il
lavoro
dell’uomo
e lo
rende
padrone
dello
spazio,
consentendogli
non
solo
di
vivere
nell’edificio,
ma
di
conoscerne
l’articolazione
mediante
punti
di
riferimento
visivi
[...]
L’assenza
di
decorazione
acquista,
da
parte
sua,
rilievo
nelle
forme
legate
a
esigenze
primarie
di
sopravvivenza
[Non
a
caso]
L’architettura
militare
è il
simbolo
dello
spazio
concepito
come
«vuoto»
contenitore
di
azione
[...]
negli
edifici
espressamente
progettati
per
la
guerra
«convenzionale»...
la
linea
retta
domina
sulla
curva,
la
forma
si
identifica
con
la
funzione,
e si
imprime
nella
mentalità
degli
ingegneri
al
punto
da
condizionare,
per
più
di
un
millennio,
l’assetto
in
battaglia»
(Paolo
Cherchi
Usai,
1999
p.
270).
Si
pensi
a
Parris
Island
di
Full
Metal
Jacket.
Sotto
questo
profilo,
il
salone-ufficio
di
Mireau
non
è
affatto
uno
spazio
militare,
ma
è, a
tutti
gli
effetti,
uno
spazio
abitato,
uno
spazio,
in
altri
termini,
che
i
due
generali
già
da
prima
-
già
da
sempre,
verrebbe
da
dire,
-
percorrono
confidenzialmente.
Si
segua
il
movimento
di
Mireau
e
Broulard
durante
tutto
il
dialogo.
Ad
un
primo
tempo
in
cui
i
due
generali
sono
seduti
l’uno
di
fronte
all’altro,
segue
un
secondo
tempo
in
movimento,
durante
il
quale
i
generali,
e in
particolare
Mireau,
“illustrano”
il
salone,
quasi
danzando
attorno
ai
suoi
arredi.
La
disinvoltura
dei
loro
gesti
e
dei
loro
passi
testimonia
una
consumata
familiarità
con
lo
spazio
rococò
del
salone,
una
competenza
spaziale
che
permette
a
Kubrick
di
ritrarli
spesso
e
volentieri
in
figura
intera.
In
questo
caso,
la
distanza
della
macchina
da
presa
dal
suo
soggetto
non
ne
preclude
la
piena
identificazione:
Kubrick,
infatti,
non
utilizza
campi
lunghi
o
lunghissimi.
L’inserimento
dei
due
generali
nell’ambiente
non
ne
offende
la
distinzione.
Semmai
è
vero
il
contrario.
È
proprio
il
tessuto
spaziale,
il
quale,
in
queste
modalità
di
ripresa,
parrebbe
assorbire
il
personaggio
fino
ad
annullarlo
nella
propria
trama,
a
conferirgli
quello
spessore
e
quella
piena,
corporea
e
densa
individuazione.
Grazie
a
questa
determinazione
spaziale,
Mireau
e
Broulard
si
presentano
come
due
gentlemen,
che
possono
discutere
alla
pari
(ci
si
ricordi,
en
passant,
che
il
Minotauro
è
figlio
regale,
di
Pasifae
moglie
di
Minosse
e il
prefisso
Minos
significa
infatti
re).
Il
proseguimento
del
colloquio
correggerà,
senza
annullarlo,
questo
«format»
iniziale,
perché
mostrerà
quali
siano
i
reali
rapporti
tra
i
due
generali
all’interno
della
struttura
verticistica
dell’esercito.
Broulard
si
rivelerà
in
una
posizione
decisionale
sicuramente
più
rilevante
di
quella
di
Mireau.
Il
colloquio,
inoltre,
paleserà
la
diversa
caratura
intellettuale
e
psicologica
dei
due
generali.
Mireau
non
tralascia
di
esprimersi
con
facile
paternalismo
nei
confronti
delle
sue
truppe,
e
concederà,
subito
dopo,
la
loro
immolazione
per
il
raggiungimento
dei
propri
ambiziosi
obiettivi
di
carriera.
Una
ambizione,
del
resto,
affatto
motivata
e
sostenuta
da
una
passione
per
il
«lavoro
sul
campo»,
di
cui
la
cicatrice
che
lo
segna
nel
volto
è
segno
più
che
eloquente
(L’attore
che
interpreta
Mireau,
cioè
George
MacReady
(1899-1973),
riportò
la
cicatrice
in
seguito
ad
un
incidente
d’auto.
Kubrick
volle
che
il
trucco
la
sottolineasse
ancor
più
marcatamente.
in
Gene
D.
Phillips
-
Rodney
Hill,
The
Encyclopedia
of
Stanley
Kubrick,
New
York,
Facts
on
File,
©2002,
pp.227-230).
La
cicatrice,
però,
consegna
il
generale
alla
tradizione
cinematografica
del
noir
e,
in
particolare,
del
ganster
movie.
Per
quello
sfregio,
su
Mireau
si
addensano
le
caratteristiche
proprie
degli
antieroi
del
ganster
movie.
Penso,
in
particolare,
a
Scarface,
Shame
of a
Nation
(1932)
di
Howard
Hawks,
ma,
soprattutto,
a
Little
Caesar
(1930)
di
Mervin
LeRoy,
con
il
cui
protagonista,
Cesare
Rico
Bandello,
Mireau
condivide
una
cieca
e
irrefrenabile
ambizione,
un
egocentrismo
sfrenato,
il
desiderio
di
accedere
nella
cerchia
più
elevata
del
potere,
l’indifferenza
dei
mezzi
attraverso
cui
realizzare
i
suoi
obiettivi,
il
disprezzo
per
la
dignità
umana,
la
violenza,
che
in
Mireau
è
innanzitutto
verbale,
e,
infine,
una
miserrima
e
ignobile
fine.
Ma a
differenza
del
«piccolo
Cesare»,
Mireau
non
presenta
tracce
di
quella
crudeltà
che
affascina
propria
degli
antieroi
del
ganster
movie.
La
sua
malvagità
non
è
mai
veramente
radicale.
È
meschina,
pusillanime
e,
soprattutto
incapace
di
servirsi
con
efficacia
dei
mezzi
che
il
suo
ruolo
gli
offre.
Si
pensi
alla
vigliacca
vergogna
che
lo
coglie
quando
Rousseau,
colpevole
di
non
aver
sparato
sulle
proprie
truppe
in
mancanza
di
un
ordine
scritto,
si
presenta
a
rapporto
da
Mireau
mentre
questi
si
sta
avviando,
dopo
aver
deciso
l’uccisione
di
tre
soldati,
a un
delizioso
pranzo
in
compagnia
di
Broulard.
Di
tutta
altra
fattura
è il
personaggio
di
Broulard,
del
quale,
giustamente,
Gene
D.
Phillps
ebbe
a
dire
che
«...
is
one
of
the
most
subtle
portraits
of
evil
in
all
of
cinema»
(Gene
D.
Phillips,
1977,
p.
74).
Un’altra
«maschera»,
dunque,
una
figura
classica
di
«intrigante»,
secondo
Barnaba
Maj
(Barnaba
Maj,
2003,
p.
111),
costruita
su
di
una
tradizione
più
che
lusinghiera,
della
quale
Yago
è
indubbiamente
il
rappresentante
più
noto.
Broulard
sa
imporre
a
Mireau
l’attacco
al
Formicaio
non
tanto
facendo
leva
sulla
propria
posizione
militare,
quanto
su
di
un
attento
discernimento
dei
moventi
psicologici
più
profondi
di
Mireau.
Broulard
possiede
competenze
di
indagine
psicologica
e di
sottile
persuasione
che
gli
permettono
di
apprezzare
la
pungente
e
sagace
intelligenza
di
Dax
a
dispetto
della
arrogante
irruenza
di
Mireau.
Broulard
si
muove
tra
gli
imprevisti
che
occorrono
al
suo
mandato
- il
fallimento
dell’attacco,
la
richiesta
di
punizione
nei
confronti
delle
truppe,
la
rivelazione
del
comportamento
di
Mireau
durante
l’attacco
-
con
rara
abilità
diplomatica.
Conosce
i
limiti
che
deve
imporre
al
suo
raggio
d’azione
per
impedirsi
un
coinvolgimento
che
potrebbe,
alla
fine,
rivelarsi
colposo,
se
non
doloso.
In
tal
senso
è
maestro
nell’arte
del
colpo
al
cerchio
e
alla
botte.
Così,
se
da
un
lato
non
può
che
accondiscendere
alle
esagitate
richieste
punitive
di
Mireau,
pur
imponendone
una
riduzione,
dall’altro
può
concedere,
con
ammirata
benevolenza,
la
difesa
dei
tre
imputati
a
Dax.
In
seguito
alle
rivelazioni
di
Dax
circa
il
comportamento
di
Mireau
durante
l’attacco,
Broulard
riuscirà
sia
a
non
retrocedere
dalla
decisione
di
condannare
a
morte
i
tre
soldati,
sia
a
non
permettere
a
Mireau
di
rimanere
ad
occupare
la
sua
posizione
di
generale.
È
interessante
notare
come
Broulard
dia
il
benservito
a
Mireau:
né
con
una
comunicazione
formale,
né
con
una
plateale
entrata
in
scena
di
soldati
per
arrestarlo,
né
con
uno
scontro
frontale
tanto
appassionato
quanto
retorico
a
difesa
dei
valori
fondanti
l’esercito.
Broulard
preferisce
liquidare
Mireau
durante
una
preziosa
colazione,
in
cui
si
può
amabilmente
parlare
di
«estetica
della
morte»,
e
alla
quale
convocare
Dax
per
il
confronto
finale
con
Mireau.
In
questa
sequenza,
Broulard
mostra
tutta
la
sua
abilità
di
intrigante
nei
confronti
dei
suoi
sottoposti
e si
manifesta
appieno
non
solo
in
quanto
accorto
manager
di
una
unità
produttiva
ma
soprattutto
come
il
potere
stesso
nel
suo
puro,
cristallino
funzionamento.
Difatti,
Broulard
non
si
lascia
invischiare
nelle
pastoie
dell’ambizione
di
Mireau
rivestita
da
patriottico
paternalismo
e
nemmeno
aderisce
all’accorato
appello
alla
Giustizia
che
muove
il
colonnello
Dax.
Broulard
è il
potere
stesso,
l’unica
sua
preoccupazione
è la
scorrevolezza
del
proprio
esercizio,
la
fluidità
del
proprio
operato.
Da
buon
manager
le
motivazioni
che
agitano
gli
animi
dei
suo
sottoposti
sono
valutate
solo
in
relazione
all’azione
del
dominio.
Non
è un
caso
se
la
stima
nutrita
nei
confronti
di
Dax
crollerà
nel
momento
in
cui
il
colonnello
dichiarerà
di
non
essere
interessato
a
ottenere
il
ruolo
di
Mireau.
È
per
questo
ragione
che
tra
Broulard
e
Mireau
si
apre
una
distanza
fondamentale
e
incommensurabile.
A
differenza
di
quello
di
Broulard,
il
comportamento
di
Mireau
è
alimentato
dai
valori
(il
patriottismo,
il
coraggio
e
così
via)
di
cui
si
nutre
l’ideologia
militare.
Con
Slavoj
Žižek
infatti
bisogna
ricordare
che
«...
un
edificio
ideologico
può
essere
minato
da
un’identificazione
troppo
letterale
[con
esso],
poiché
il
suo
buon
funzionamento
richiede
un
minimo
di
distanza
dalle
sue
regole
esplicite»
(Slavoj
Žižek,
2001,
p.
72).
La
«…
identificazione
ideologica
esercita
su
di
noi
una
reale
presa
proprio
se
manteniamo
la
consapevolezza
che
non
siamo
completamente
identici
ad
essa,
che
al
di
sotto
si
nasconde
un’autentica
persona
umana:
“non
tutto
è
ideologia,
sotto
la
maschera
ideologica
sono
anche
una
persona
umana”
è la
vera
forma
dell’ideologia,
della
sua
“efficacia
pratica”
[...]
in
ogni
edificio
ideologico
c’è
una
sorta
di
nocciolo
“transideologico”,
dal
momento
che,
se
un’ideologia
deve
diventare
operativa
e
“impadronirsi”
efficacemente
degli
individui,
deve
parassitare
e
manipolare
una
qualche
visione
“transideologica”,
che
non
si
può
ridurre
a
puro
strumento
di
legittimazione
delle
pretese
di
potere.
[corsivo
mio]
[È]
solo
il
riferimento
a
tale
nocciolo
transideologico
a
rendere
un’ideologia
“funzionante”».
Durante
il
primo
colloquio
con
Dax
Mireau
si
produrrà
in
una
accorata,
e
per
nulla
insincera
difesa
del
patriottismo.
Il
sentimento
del
generale
è
realmente
turbato
dall’ironia
del
colonnello.
La
sua
reazione
è
veramente
la
reazione
di
uomo
toccato
nel
vivo
della
sua
anima.
Di
conseguenza,
la
condizione
di
possibilità
del
funzionamento
di
una
struttura
ideologica
come
quella
militare
è la
distanza
dall’ideologia,
anzi
«...proprio
questa
distanza
è
ideologia».
Si
pensi
a
Palla
di
Lardo
di
Full
Metal
Jacket:
proprio
la
sua
totale
e
incondizionata
adesione
ai
dettami
del
sergente
Hartmann
lo
porterà
all’omicidio/suicidio
che
chiude
la
prima
parte
di
film
e
che
sancisce
il
fallimento
dell’operazione
di
educazione/formazione/creazione
dell’uomo-macchina.
Il
comportamento
di
Mireau
contravviene
alla
legge
di
funzionamento
dell’ideologia,
poiché
fin
dalle
prime
battute
Mireau
non
nasconde
affatto
che
il
nocciolo
transideologico
che
lo
anima
rischia
di
ridursi
a
puro
strumento
di
legittimazione
delle
pretese
di
potere.
E il
potere
non
può
tollerare
che
questa
contravvenzione
conduca
infine
ad
una
messa
in
questione
del
potere
stesso,
perché
significherebbe
il
suo
smasceramento.
Per
questa
fondamentale
ragione
Mireau
deve
essere
punito
e
allontanato
dal
comando.
In
questa
prospettiva
va
letta
infine
la
simpatia
e la
stima
che
Broulard
ripone
in
Dax.
Nel
colonnello
non
vi è
dubbio
che
agisca
quella
distanza
che
secondo
Žižek
è
l’ideologia
nella
sua
logica
interiore.
Poco
importa,
poi,
se
il
nocciolo
transideologico
cui
aderisce
il
colonnello
è
antitetico
a
quello
cui
si
attiene
Mireau.
Poco
importa
se i
valori
di
giustizia
e
umanità
cui
si
richiama
Dax,
e
che,
a
suo
dire,
reggono
la
nazione
Francia,
non
sono
certo
il
patriottismo
infine
ipocrita
di
Mireau.
Dal
punto
di
vista
dell’esercito
(dal
punto
di
vista
del
potere
sornione
di
Broulard)
sono
entrambe
convinzioni
transideologiche
e
personali
che
possono
benissimo
sorreggere
e
muovere
la
propria
anima.
A
questo
livello
di
analisi,
dal
punto
di
vista
dell’esercito
Dax
e
Mireau
sono
posizioni
intercambiabili.
Ma
ciò
che
in
Dax
sortisce
la
captatio
benevolentiae
di
Broulard
è il
fatto
che
i
valori
cui
si
appella
mai
sono
richiamati
per
agganciare
il
potere.
È
chiaro
ora
che
agli
occhi
del
potere
militare
Dax
funziona
meglio
di
Mireau.
Soprattutto
è
più
funzionale
di
Mireau
ai
fini
della
presa
che
l’esercito
deve
necessariamente
avere
nei
confronti
dei
soldati.
L’ascendente
che
Dax
mostra
nei
confronti
dei
suoi
sottoposti
e la
fiducia
che
questi
gli
manifestano,
sono
una
cattura
psicologica
di
estrema
importanza
funzionale
per
il
buon
funzionamento
della
macchina
militare.
Broulard
si
avvede
di
tutto
questo
e,
nella
consapevolezza
che
un
simile
trait
d’union
tra
la
dirigenza
militare
e la
truppa
tornerebbe
tutta
a
vantaggio
dell’esercito
stesso,
non
può
che
proporre
a
Dax
il
posto
che
fu
di
Mireau.
A
conferma
dialettica
di
ciò,
si
badi
che
il
rifiuto
di
Dax
non
sembra
incrinare
l’ideologia
militare
-
arrabbiatura
di
Broulard
a
parte,
deluso
di
aver
investito
così
tanto
su
Dax.
L’umano
colonnello,
infatti,
tornerà
a
dirigere
le
truppe
al
fronte.
Tornerà,
in
altri
termini,
a
funzionare
da
legame
tra
dirigenza
e
truppe
nel
campo
ristretto
di
un
battaglione
e
non
già
in
quello
più
esteso
di
un
reggimento.
Nonostante
che
la
figura
di
Dax
susciti
la
simpatia
dello
spettatore,
e
nonostante
che
risvegli,
negandone
tuttavia
validità,
tutte
le
figure
di
eroi
di
cui
i
film
di
guerra
sono
prodighi,
il
colonnello
non
riesce
a
sfuggire
al
proprio
destino
di
motore
esso
stesso
della
macchina
militare.
Potrebbe
porsi,
anzi,
a
paradigma
di
tutti
i
fallimentari
«eroi»
kubrickiani:
il
fallimento
è
determinato
dal
fatto
che
la
loro
rivolta
non
nega
bensì
conferma
e
rafforza
le
strutture
sovraindividuali
che
vorrebbero
contrastare.
Come
mostra
energicamente
Arancia
meccanica,
l’ultraviolenza
di
Alex
è
perfettamente
funzionale
ai
fini
di
un
controllo
repressivo
esercitato
dalla
polizia
di
stato.
Nello
stesso
modo
Dax
fallisce
perché
mai
riesce
a
uscire
veramente
dalla
ideologia
che
muove
la
macchina
militare.
È,
quindi,
necessario
abbandonare
la
psicologia
dei
personaggi
al
fine
di
comprendere
quali
leggi,
secondo
Kubrick,
regolano
il
funzionamento
dell’esercito
e,
con
esso,
le
stesse
psicologie
dei
personaggi.
Luogo
chiave
è,
naturalmente,
il
processo,
di
cui
già
ho
avuto
modo
di
far
notare
il
preambolo
della
corte
e di
cui,
ora,
sarà
opportuno
analizzare
anche
il
la
conduzione
degli
interrogatori
da
parte
dell’accusa.
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