N. 44 - Agosto 2011
(LXXV)
Orizzonti di gloria
Memoria della Grande Guerra - Parte II
di Gianluca Seramondi
Al
di
fuori
del
lavoro
di
Alonge,
la
letteratura
critica
su
Paths
of
Glory
non
sembra
aver
posto
la
dovuta
attenzione
alla
Grande
Guerra
come
evento
ripreso
nella
narrazione
non
solo
ai
fini
di
una
ambientazione
storica,
ma
come
obiettivo
primario
del
film.
Il
primo
conflitto
mondiale
è
rimasto
sullo
sfondo,
se
non
è
stato
del
tutto
accantonato
come
orizzonte
di
significazione.
E
anche
in
quei
casi
in
cui
ci
si è
accorti
di
una
concreta
corrispondenza
con
la
storia
del
14-18,
si è
fatto
leva
di
questi
riscontri
per
portare
il
significato
altrove.
Si
potrebbero
suddividere
le
interpretazioni
principali
in
tre
grandi
filoni:
quelle
che
trovano
nel
film
un'analisi
della
guerra
in
generale,
le
letture
che
ne
evidenziano
l'indagine
sociale
e,
infine,
le
posizioni
che
ne
sottolineano
la
portata
riguardo
alla
questione
della
condizione
umana
e
del
male.
Alcuni
critici
hanno
inteso
Paths
of
Glory
come
un
film
sulla
guerra
in
generale
e
sui
suoi
meccanismi.
In
questa
ottica,
il
riferimento
preciso
ad
un
evento
storico
ben
determinato
è
puramente
esemplificativo
e
non
ha
altro
scopo,
al
limite,
di
accentuare
la
portata
dell'analisi
della
guerra
in
generale.
In
questo
filone,
trova
agile
collocazione
Umberto
Mosca,
il
quale,
in
un
interessante
articolo
che
legge
l'opera
di
Kubrick
nella
prospettiva
di
fondo
della
critica
ad
una
progressiva
"decorporizzazione"
dell'uomo
avvenuta
nella
società,
afferma
che:
«In
Orizzonti
di
gloria
Kubrick
omette
volontariamente
i
corpi
dei
nemici
(non
li
mostra
mai)
rivelando
l'assurdità
della
guerra,
fa
muovere
i
soldati
dentro
delle
trincee
che
sono
latrine
a
cielo
aperto,
relega
le
poche
scene
di
combattimento
in
alcuni
avvallamenti
ricolmi
di
acqua
putrida
in
cui
i
soldati
sono
costretti
a
rotolarsi,
e
quando
il
colonnello
Dax
tenta
di
guidare
un
nuovo
attacco,
la
sua
uscita
dal
fossato
viene
subitamente
respinta
dal
corpo
di
un
cadavere
che
gli
ricade
addosso.
Qui
la
sorte
cui
non
si
può
sfuggire
è
quella
di
venire
schiacciati»
(Umberto
Mosca,
1998,
p.
85).
La
guerra
di
Umberto
Mosca,
si
potrebbe
dire,
è
una
guerra
la
quale,
seppure
recante
indicatori
di
un
avvenimento
storico
ben
determinato,
palesa
dinamiche
generalizzabili
a
tutti
i
conflitti,
dinamiche
che
trovano
nell'
"essere
sopraffatti"
il
loro
meccanismo
principale.
Il
lavoro
di
Giacomo
Manzoli,
che
illustra
i
meccanismi
attraverso
cui
Kubrick
opera
la
trasposizione
cinematografica
dei
romanzi
di
riferimento
e
insiste
sulla
centralità
del
fatto
giudiziario
rispetto
alla
vita
in
trincea,
costruisce
una
interpretazione
in
cui
la
guerra
storicamente
determinata
cede
il
passo
ad
una
guerra
astratta,
ad
una
guerra
in
sé,
intesa
come
esempio
lampante
o
delle
perversioni
della
logica
o
del
funzionamento
di
una
logica
perversa.
Rispetto
al
romanzo
di
Cobb
«...la
logica
della
trasposizione
tende
a
comprimere
tutta
la
parte
della
vita
in
trincea
(dominante
nel
libro)
privilegiando
il
lato
giudiziario.
Quello
che
nel
libro
è
solo
l'episodio
culminante,
l'epilogo
inevitabile
di
quell'idiozia
globale
che
fu
la
guerra
di
trincea,
nel
film
diventa
l'evento
attorno
al
quale
far
ruotare
l'intero
film.
Sia
l'opera
letteraria
che
quella
cinematografica
sono
a
tesi.
Per
il
libro
la
tesi
è...la
guerra
è il
sonno
della
ragione
e
come
tale
genera
mostri.
Kubrick
inizia
la
sua
indagine
sui
meccanismi
delle
logiche
perverse
o
delle
perversioni
della
logica»
(Giacomo
Manzoli,
1998,
p.
33).
Il
processo
di
generalizzazione,
e,
quindi,
di
astrazione,
trova
in
Enrico
Ghezzi
il
suo
più
dichiarato
sostenitore.
L'autore,
infatti,
scrive
che:
«Orizzonti
di
gloria
è la
costruzione
della
guerra
e
del
suo
funzionare.
Lo è
proprio
perché
ne
ripete
i
riti
glaciali,
non
perché
mostri
il
nascere
e lo
svilupparsi
del
fenomeno.
Esso
è
infatti
già
dato
nella
scritta
iniziale
...
e
nella
voce
fuori
campo
che
brevemente
puntualizza
la
situazione
del
conflitto
[...]
In
seguito
la
voce
tace,
e
resta
solo
la
situazione
di
guerra,
una
guerra
storicamente
determinata
e
con
tutti
i
particolari
al
posto
giusto,
eppure
guerra
che
pare
astratta,
guerra
in
cui
non
si
vede
un
nemico,
in
cui
non
è
mai
questione
di
un
nemico
«aggressore»
o
ideologicamente
«diverso».
Il
tutto
non
sembra
meno
astratto
della
«selva»
di
Fear
and
Desire,
e il
riferimento
storico
preciso
crea
solo
l'incubo.
In
fondo
K[ubrick]
stesso
lo
dice:
sceglie
la
Prima
Guerra
Mondiale
perché
è
l'esempio
immane
di
un
conflitto
gratuito
...
il
cui
senso
non
è
comunque
maggiore
di
quello
della
guerra
dei
Sette
anni»
(Enrico
Ghezzi,
1977,
pp.
47-48).
Il
secondo
grande
paradigma
interpretativo
è
rappresentato
da
quelle
letture
che
hanno
inteso
Paths
of
Glory
come
una
"metafora"
del
funzionamento
della
società,
dei
conflitti
che
la
attraversano
e
delle
ingiustizie
che
ne
alimentano
lo
sviluppo.
In
questa
prospettiva,
la
Grande
Guerra
funziona
solo
da
lente
per
analizzare
in
primo
luogo
le
dinamiche
che
animano
gli
eserciti
in
conflitto
-
nel
film,
dunque,
assumerebbe
una
centralità
esclusiva
il
processo
- e,
attraverso
queste,
le
leggi
non
scritte
che
regolano
la
vita
delle
società
contemporanee.
Guido
Fink
afferma
che
Paths
of
Glory
condanna
«...un
sistema
diffuso
...
presso
tutti
gli
eserciti
di
tutte
le
nazioni»,
così
che
i
suoi
personaggi
«sono
francesi
per
definizione,
ma
non
hanno
vere
caratteristiche
nazionali:
lo
spirito
che
il
film
combatte
è
quello
del
nazionalismo
retorico,
sanguinario
e
guerrafondaio
di
stile
fascista
e
nazista»
(Guido
Fink,
1969,
p.
13),
e
ricorda
le
simili
ingiustizie
perpetrate
alle
truppe
italiane
in
seguito
alla
sconfitta
di
Caporetto
(Ivi,
p.
25).
Fink,
in
conclusione,
ritiene
che
«Per
Kubrick...
la
guerra
del
'15-'18
è un
"dato",
un
elemento
di
sfondo:
sui
campi
di
battaglia
del
fronte
occidentale
...
è
cresciuta
tanta
erba
che
ha
ricoperto
tutto
[Ma]
Il
cinema
di
Kubrick
è
sempre
un
cinema
al
presente»
(ivi,
p.
47-48).
La
lettura
in
chiave
psicoanalitica
del
film
effettuata
da
Roberto
Lasagna
e
Saverio
Zumbo
può
essere
ricondotta
a
questa
prospettiva
di
ricognizione
sul
funzionamento
delle
strutture
militari
in
generale.
I
due
autori
ritengono,
infatti,
che
l'obiettivo
del
film
sia
l'autolesionismo
dell'esercito
(Roberto
Lasagna,
Saverio
Zumbo,
1997,
p.
88),
dovuto
ad
una
costituzione
interna
nevrotico-rituale-ossessiva
portata
all'eccesso,
e il
cui
fulcro
è la
morte
dell'altro.
Così,
Broulard
e
Mireau
possono
essere
interpretati
psicoanaliticamente
come
nevrotici
la
cui
causa
è
una«...
fissazione
alla
fase
sadico-anale
propria
della
nevrosi
ossessiva»
(Ivi,
p.
84),
mentre
la
contrapposizione
tra
la
giustizia
e la
logica
militare
vede
la
sconfitta
della
prima:
Dax,
infatti,
è
«...al
crocevia
di
due
diversi
riti,
e di
due
diverse
logiche:
quella
legale
e
quella
militare
[che]
col
suo
astratto
rigore
di
morte,
stritolerà
la
prima
coi
suoi
ideali
di
giustizia
e di
verità»
(Ivi,
p.
86).
Nulla
rimane
della
Grande
Guerra
in
questa
posizione.
Davide
D'Altro,
allora,
ha
buon
gioco
quando,
scrivendo
l'introduzione
al
testo
di
Lasagna
e
Zumbo,
dichiara
recisamente
che
in
Paths
of
Glory
«La
Grande
Guerra
resta
una
scena
dipinta
e un
pretesto:
a
campeggiare
in
rilievo
è il
cameo
di
un
anonimo
generale,
che
tutto
azzarda
pur
di
conquistare
l'immortalità»
(Davide
D'Altro,
Tra
l'opaco
e la
luccicanza,
introduzione
a
Roberto
Lasagna
e
Saverio
Zumbo,
1997,
p.
12).
Stabilite
così
le
coordinate
di
fondo
che
definiscono
il
campo
militare,
diventa
legittimo
effettuare
l'inversione
e
indicare
nelle
società
contemporanee
il
vero
obiettivo
del
film.
Così,
Fernaldo
Di
Giammatteo
indica
nella
situazione
politica
e
culturale
degli
Stati
Uniti
degli
anni
Cinquanta
il
vero
obiettivo
di
Paths
of
Glory.
Scrive
Di
Giammatteo
:
«L'antimilitarismo
di
Orizzonti
di
gloria
equivale
alla
condanna
del
denaro
in
Rapina
a
mano
armata.
Nascono
da
un
certo
tipo
di
rapporti
sociali,
che
il
regista
respinge.
Nell'America
che
lo
circonda
vede
la
stratificazione
dei
pregiudizi
borghesi,
che
si
sono
gradualmente
trasformati
in
istituzioni
dannose
per
lo
sviluppo
della
persona
umana.
I
rapporti
di
dominio-sudditanza,
che
l'attuale
fase
dell'economia
capitalistica
impone
alla
società,
accrescono
la
ferocia
di
quella
guerra
senza
quartiere
che
gli
uomini
combattono
tra
loro
da
tempo
immemorabile.
E'
un
classico
schema
marxiano
che
Kubrick,
pur
non
essendo
un
marxista,
implicitamente
adotta.
Singolare
è,
tuttavia,
il
modo
in
cui
l'adotta.
Critico
della
società
della
quale
è
figlio,
il
regista
rivela
(e
soffre)
la
sua
condizione
di
sudditanza
nel
momento
stesso
in
cui
mette
in
dubbio
del
sistema»
(Fernaldo
Di
Giammatteo,
1965,
817-818).
Secondo
Marcello
Walter
Bruno
nulla
vieta
di
porre
al
centro
del
film
proprio
il
primo
conflitto
mondiale
ma
perché
in
tal
modo
Kubrick
«...prosegue
il
suo
studio
sulle
cause
della
violenza
moderna
andando
al
cuore
della
prima
guerra
di
massa...moderna
[e]
imperialista
([in
cui]
l'opposizione
fra
gli
ufficiali
che
ballano
nella
reggia
e i
soldati
che
attendono
la
morte
nella
trincea
è
già
la
messinscena
di
un'opposizione
fra
classi
sociali)...
e,
in
un
certo
qual
modo,
all'origine
tanto
di
movimenti
rivoluzionari
come
la
tedesca
Lega
di
Spartaco
quanto
di
movimenti
reazionari
come
il
Fascismo
italiano»
(Marcello
Walter
Bruno,
2003,
p.
33).
Questa
attenzione,
tuttavia,
ne
nasconderebbe
un'altra,
molto
più
attuale
nel
1956.
Il
processo
contro
i
tre
militari
accusati
di
vigliaccheria
di
fronte
al
nemico
è
infatti
«...truccato
...
come
quelli
imbastiti
dall'HUAC,
la
commissione
per
le
attività
antiamericane,
negli
anni
50
[e,
quindi,]
segnala
un
riferimento
alla
"caccia
alle
streghe"
ancora
in
atto
nel
1956»
(Ivi,
p.
34).
Di
conseguenza,
«...basta
spostare
l'attenzione
dalle
scene
di
trincea
a
quelle
del
processo
per
vedere
che
la
polemica
antimilitarista
ne
contiene
un'altra
che
non
si
riferisce
alla
Francia
del
1914/18
bensì
agli
Stati
Uniti
degli
anni
50.
Insomma,
Orizzonti
è
anche
un
film
sul
maccartismo
e la
"caccia
alle
streghe"
esattamente
come
tante
altre
opere,
occultata
sotto
precise
ma
ingannevoli
etichette
di
genere»
(ivi,
p.
94).
L'interpretazione
di
Bruno
e,
prima,
quella
di
Giammatteo
leggono
il
film
come
la
critica
della
società
americana
e
non
nascondono
che
in
esso
possa
risuonare
un'analisi
delle
dinamiche
sociali,
in
particolar
modo
afferenti
alla
realtà
statunitense,
secondo
un
punto
di
vista
marxista
o ad
esso
avvicinabile.
Da
una
impostazione
siffatta
ad
una
impostazione
che
legge
nella
guerra
il
modello
per
studiare
in
vitro
i
meccanismi
e i
rapporti
sociali
indipendentemente
da
situazioni
storiche
ben
precise,
se
non
forse
quelle
della
società
occidentale
in
senso
lato,
il
passo
è
piuttosto
breve.
La
strada
era
già
stata
battuta,
per
esempio,
da
Guido
Aristarco
(Guido
Arsitarco,
1965,
p.
229-239)
nella
sua
opera
Il
dissolvimento
della
ragione,
e
poi
ribadita
dallo
stesso
autore
in
un
articolo
apparso
su
Cinema
Nuovo
nell'anno
di
uscita
del
film:
«...Kubrick,
presentandoci
una
storia
del
passato,
coniuga
anche
il
presente
[...]
il
fenomeno
che
denuncia
non
è
dato
come
eccezionale,
ne
tantomeno
come
patologico
e
cinico
...
ma
come
tipico
a
una
classe,
a
una
casta
la
cui
condanna
viene
fatta
attraverso
un
personaggio
che
a
essa
dovrebbe
appartenere
e
invece
si
oppone»
(Guido
Aristarco,
1958,
p.
152
e
sgg.).
Anche
Vicent
LoBrutto,
autore
di
una
biografia
del
regista
americano
preziosa
e
ricca
di
dettagli,
riferendosi
alla
diversa
sistemazione
di
ufficiali
e
soldati,
afferma
che:
«Gli
uomini
che
combattevano
vivevano
nel
sottosuolo...gli
ufficiali
nello
splendore
[...]
Orizzonti
di
gloria
trattava
della
distinzione
di
classe»
(Vincent
Lo
Brutto,
1999,
p.149).
Nello
stesso
modo,
la
monografia
su
Kubrick
di
Michel
Ciment,
non
cita
mai
il
primo
conflitto
mondiale
nei
luoghi
in
cui
disanima
Paths
of
Glory,
ma
accennando
alla
Marsigliese
dei
titoli
di
testa
afferma
che
è un
«...canto
rivoluzionario
[che]accompagna
ironicamente
i
titoli
di
testa...ricoprendo
con
il
suo
alibi
repubblicano
le
fucilazioni
dimostrative
di
una
società
di
classi»
(Michel
Ciment,
1999,
p.122).
Ruggero
Eugeni
è
anche
più
deciso
in
questa
conversione
della
guerra
in
paradigma
della
società.
«...il
problema
centrale
del
film
sembra
essere
quello
del
rapporto
tra
individuo
e
società.
La
microstruttura
sociale
dell'esercito
diviene
in
questo
modo
paradigma
dell'intera
macrostruttura
sociale,
che
in
un
momento
particolare
e in
un
ambito
ristretto
può
manifestarsi
con
particolare
emergenza
[...]
Da
una
parte
è
presente
l'isomorfismo
tra
struttura
militare
e
struttura
sociale,
con
una
rigida
divisione
in
gradi
che
corrispondono
alle
divisioni
sociali
in
classi.
Dall'altro,
sono
poste
in
primo
piano
le
interazioni
tra
gli
individui,
in
particolare
all'interno
della
classe
alta
dei
generali,
relazioni
improntate
secondo
regole
di
etichetta
e di
rappresentazione
che
possiedono
la
stessa
rigidità
delle
norme
di
comportamento
che
agiscono
negli
strati
bassi
dell'esercito»
(Ruggero
Eugeni,
1995,
p.
46).
Il
saggio
di
Eugeni
prosegue
poi
la
direzione
del
sociale
verso
l'universalità
della
condizione
umana.
«...il
quadro
kubrickiano
allude
in
senso
più
ampio
alla
condizione
umana
in
generale,
una
condizione
in
cui
impera
l'assurdità.
Il
soggetto,
in
particolare
il
colonnello
Dax,
si
trova
a
far
riferimento
a
quadri
di
comportamento
logici
e
normali
all'interno
di
situazioni
surreali;
esemplare
in
questo
senso
la
sequenza
del
processo»
(Ivi,
p.
50).
Anche
Andrea
Martini
suggerisce
una
interpretazione
del
film
virata
in
vista
della
condizione
umana
:
«La
guerra
assume
la
funzione
aurea
di
luogo
deputato,
perimetro
sacro
per
un
rito
universale
dove
meglio
si
distillano
i
comportamenti
umani
e si
sedimentano
le
emozioni»
(Andrea
Martini,
©1999,
p.
149).
Con
la
guerra,
dunque,
si
possono
«...mettere
in
scena
caratteri
archetipici
e
atteggiamenti
primordiali.
Primo
fra
tutti
la
violenza,
che
Kubrick
concepisce
più
come
modo
di
essere
di
un
intero
gruppo
che
come
inclinazione
del
singolo,
in
perfetta
sintonia
con
l'immagine
junghiana
dell'inconscio
collettivo»
(Ivi,
p.
149-150).
Lo
stesso
Ghezzi
rileva
che
la
rappresentazione
della
guerra
risponde
in
ultima
analisi
alla
volontà
di
rendere
visibili
con
particolare
evidenza
le
logiche
proprie
della
vita.
Nonostante
che
l'autore
avverta
la
precisione
dei
riferimenti
storici
e la
notevole
ricostruzione
dell'esperienza
che
milioni
di
uomini
fecero
di
quell'evento,
Ghezzi
ritiene
innanzitutto,
come
si è
visto,
che
la
Grande
Guerra
è un
pretesto
per
evidenziare
e
rafforzare
il
tema
proprio
della
assurdità
della
guerra
in
generale,
ma,
soprattutto
per
portare
la
guerra,
in
generale,
a
porsi
come
«...metafora
della
vita,
condensato
e
concentrazione
di
essa
[In
guerra]
si
muore
nelle
spire
del
caso
(
come
in
qualsiasi
«vita»)»
(Enrico
Ghezzi,
1977,
passim).
In
questo
terzo
filone
interpretativo
può
essere
inserita
anche
la
lettura
di
Glamber
Rocha,
per
il
quale
il
tema
profondo
di
Paths
of
Glory
è
«...la
disumanità
che
non
ha
storia,
tutto
il
male
innato
nell'uomo
fin
dalle
sue
origini,
che
si
rivela
attraverso
una
guerra
e
l'anima
dei
suoi
ufficiali»
(Glamber
Rocha,
1986,
p.
134).
E
Rondolino
può
scrivere
al
riguardo
dell'intera
opera
di
Kubrick,
che
i
suoi
personaggi,
tra
i
quali
anche
il
colonnello
Dax,
«...paiono
continuamente
e
contemporaneamente
esposti
ai
colpi
del
destino
e ai
conflitti
sociali,
all'affermazione
di
una
propria
individualità
e
allo
scacco
esistenziale...come
frammenti
o
brandelli
di
un'umanità
sofferente
[...]
Come
se i
personaggi
di
Kubrick,
nella
loro
vita
di
relazione,
nel
loro
confrontarsi
con
la
realtà
esterna,
anche
nella
loro
lotta
per
la
sopravvivenza
o
per
l'affermazione
di
una
legalità
sociale,
di
una
moralità
pubblica,
di
una
ragione
da
contrapporre
al
caos,
si
scontrassero
poi,
alla
fine,
con
l'ineluttabilità
del
male»
(Gianni
Rondolino,
Qualche
idea
sull'opera
di
Kubrick,
in
Stanley
Kubrick,
Garage,
n°
12,
p.
150).
Se
le
interpretazioni
sopra
riportate
fossero
lette
quasi
componessero
un
unico
testo,
si
potrebbe
scorgere
che
al
fondo
di
esse
scorre
un
filo
rosso
che
muovendo
da
una
guerra
concreta
passa
alla
guerra
in
generale,
da
qui
alla
guerra
come
metafora
della
società
e
infine
alla
guerra
come
laboratorio
privilegiato
per
mettere
a
nudo
le
articolazioni
della
condizione
umana.
Non
è
d'altronde
difficile
individuare
che
il
corrimano
di
questi
passaggi
è
dato
dal
racconto
del
processo,
il
quale
diventa
l'accesso
principale
al
film,
la
sua
chiave
di
volta,
che
subordina
a sé
l'intero
racconto
e
l'intero
impianto
visivo.
Queste
letture,
affatto
motivate
nella
loro
costruzione
e
quindi
pertinenti
e
rilevanti,
paiono
agire
nel
solco
di
una
rimozione
originaria
che
ha
portato
la
Grande
Guerra
a
dileguarsi
a
poco
a
poco
o
nello
sfondo
ininfluente
di
un'ambientazione,
a
questo
punto,
superflua,
o
nella
posizione
di
un
modello
per
parlare
d'altro,
oppure
nell'inconscio
senz'altro.
Sorge,
infatti,
il
sospetto
che
la
censura
che
colpì
Paths
of
Glory
alla
sua
uscita
in
Francia,
la
quale,
come
è
noto,
non
ha
tollerato
il
sentimento
antifrancese
che
ancora
oggi
si
avverte
nel
film,
e
contro
cui
la
critica
si
levò
in
un
coro
unisono
per
affermare
che
il
film
era
tutt'altro
che
una
polemica
contro
l'esercito
francese,
abbia
alla
fine
agito
come
una
difesa
patologica
la
quale,
colpendo
le
rappresentazioni
inaccettabili,
abbia
relegato
nell'inconscio
anche
quelle
rappresentazioni
che
avrebbero
potuto
essere
perfettamente
e
fruttuosamente
ammesse.
Insomma,
è
come
se
la
censura
francese
avesse
condizionato
le
letture
successive
di
Paths
of
Glory,
"costringendole"
a
sminuire
l'orizzonte
della
Grande
Guerra
per
suffragare
la
tesi
che
il
film
non
fosse
affatto
antifrancese.
È
chiaro,
tuttavia,
che
pur
accettando
la
tesi
di
una
non
"antifrancesità"
del
film,
non
ne
consegue
che
la
Grande
Guerra
non
sia
importante
o,
addirittura,
centrale
ai
fini
di
una
valutazione
e di
una
comprensione
del
film.
Del
resto,
la
stessa
letteratura
critica
–
Alonge
a
parte
di
cui
si è
già
parlato
nell’introduzione
- ha
rilevato
in
più
occasione
che
la
Storia
è
per
Kubrick
un
"interlocutore"
privilegiato,
e
non
un
semplice
sfondo
o un
pretesto.
Per
Barnaba
Maj,
Kubrick
è
«…uno
dei
più
profondi
analisti
[…]
delle
forme
moderne
e
contemporanee
»(
Barnaba
Maj,
2003,
p.
110)
della
guerra.
Lo
stesso
Guido
Fink,
per
esempio,
in
un
saggio
su
Lolita
ebbe
modo
di
rilevare
che
il
discorso
kubrickiano
«...sembra
animato,
fin
dalle
scatole
cinesi
del
flashback
nel
flash
back
di
Killer's
Kiss
(1955),
dall'esigenza
di
tornare
indietro,
di
raggiungere,
procedendo
controcorrente,
il
momento
in
cui
tutto
è
cominciato:
la
prima
guerra
mondiale,
la
prima
rivolta
di
classe
della
storia,
il
primo
- e
ultimo
-
conflitto
nucleare,
l'ormai
lontana
festa
di
capodanno
che
ha
segnato
il
culmine
dell'attività
mondana
all'Hotel
Overlook»
(Guido
Fink,
Senso
antiorario,
ovvero
le
due
immortalità
di
Lolita,
in
Gian
Piero
Brunetta
(a
cura
di),
Stanley
Kubrick,
op.
cit.,
p.
160).
Nello
stesso
modo,
Alberto
Crespi,
a
proposito
di
Barry
Lyndon,
afferma
che
«
...
lo
scrupolo
con
cui
sono
stati
ricostruiti
i
vestiti,
gli
ambienti
e le
suppellettili
dell'epoca
...
è
funzionale
alla
messinscena
di
un
modello
storico
...
in
cui
individuare
(ed
esaminare
all'opera,
nel
vivo
della
ricostruzione),
le
origini,
storiche
e
culturali
della
nostra
civiltà.
Questo
e
non
altro
è il
'700
per
Kubrick»
(Alberto
Crespi,
Spazio
e
tempo
in
«Barry
Lyndon»
: la
quadratura
del
cerchio»,
in
Gian
Piero
Brunetta
(a
cura
di),
Stanley
Kubrick,
op.
cit.,
p.
206).
Vi
è,
insomma,
in
Kubrick
l'esigenza
di
trovare
l'inizio
o,
per
meglio
dire,
gli
inizi.
I
periodi
storici
o
gli
accadimenti
storici
affrontati
nei
suoi
film
sono,
nella
prospettiva
indicata
dagli
autori
sopra
citati,
i
luoghi
in
cui
per
Kubrick
sorge
qualcosa
che
prima
non
c'era,
i
luoghi
in
cui
emerge
qualcosa
di
nuovo
che
"interrompe"
il
continuum
storico.
A
questo
punto,
sarebbe
facile,
e
profondamente
errato,
adagiarsi
sulla
consequenzialità
che
connette
un
qualcosa
di
nuovo
e il
suo
inizio,
inteso
vuoi
come
causa
efficiente
vuoi
come
causa
formale.
Ma
il
movimento
kubrickiano
all'interno
dei
periodi
storici
caratterizzati
dall'essere
"inizio",
è
più
sottile
e
realmente
nichilistico
giacché
il
«rovesciamento
delle
apparenze»
(Sandro
Bernardi,
1990,
pp.
77-78)
che
opera
è a
tutti
gli
effetti
uno
smascheramento
e
una
individuazione
dei
meccanismi
che
hanno
costruito
ed
affermato
la
"maschera".
Oppure,
per
dirla
con
Barnaba
Maj,
Kubrick
ha
sciolto
i
nodi
della
modernità
per
comprenderne
l'intreccio.
Il
discorso
kubrickiano,
in
altri
termini,
assume
a
tutti
gli
effetti
di
una
genealogia.
E
Paths
of
Glory
non
si
sottrae
affatto
a
questo
compito.
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