N. 50 - Febbraio 2012
(LXXXI)
le origini del taoismo: Laozi e il Daodejing
il dao e virtù del saggio
di Dalia Fortini
“Il
Dao
che
può
essere
definito
non
è il
Dao
costante.
[…]
Senza
nome
è
l’origine
di
tutti
gli
esseri,
aver
nome
è la
madre
di
tutti
gli
esseri”.
Così
tradizionalmente
inizia
il
Daodejing,
classico
del
pensiero
taoista
cinese,
con
una
frase
criptica
che
svela
il
mistero
dell’inizio
dell’esistenza.
Tante
leggende
esistono
su
chi,
anticamente,
si è
seduto,
curvo
e in
solitudine,
con
il
solo
aiuto
della
propria
mente
e
dell’inchiostro,
a
scrivere
questo
libro
in
ideogrammi.
Ideogrammi
che
nell’immaginario
hanno
sempre
avuto
un
fascino
particolare,
forse
perché
in
grado
di
evocare
il
grande
segreto
partecipe
della
vita
dell’uomo
sin
dai
primordi:
chi
o
cosa
ha
dato
origine
all’esistente?
E
come
possiamo
definire
questo
essere
che
sembra
al
di
sopra
di
tutto?
L’uomo
che
chiamano
Laozi,
il
vecchio
maestro,
è
considerato
l’autore
del
primo
classico
taoista;
un
filosofo,
un
uomo
alla
ricerca
della
verità,
che
ha
tentato,
riuscendoci,
di
mettere
per
iscritto
una
tradizione
orale
che
si
perdeva
nei
secoli
precedenti
a
lui.
E
così
si
immagina
questo
saggio,
dal
genio
indiscusso,
dalle
stranezze
evidenti,
camminare
ed
elargire
insegnamenti
in
grado
di
cambiare
la
vita,
archivista
alla
corte
Zhou
nel
V
secolo
a.C.
Probabilmente
questo
libro,
il
Classico
della
Via
e
della
Virtù,
non
è
affatto
in
grado
di
cambiare
la
vita,
ma
certamente
può
far
pensare,
perché
a
questo
mira
il
testo:
ha
lo
scopo
di
far
riflettere
l’uomo
e di
portarlo
vicino
a
ciò
che
non
si
può
dire,
a
ciò
che
è
difficile
da
concepire.
E
proprio
questo
è il
significato
delle
prime
righe
sopra
citate.
Il
Dao
che
si
può
scrivere
attraverso
un
carattere,
di
cui
si
può
parlare,
che
si
cerca
in
ogni
modo
di
definire
per
poterlo
comprendere,
non
è il
Dao
reale.
Ma
che
cos’è
questo
Dao?
Comunemente
definita
come
la
“Via”,
il
Dao
si
presenta
come
una
strada
virtuosa
da
percorrere.
Ma è
anche
primo
principio,
e,
come
Laozi
dice,
è
persino
al
di
là
del
primo
principio,
in
quanto
definirlo
non
può
che
confinarlo
entro
limiti
che
non
possiede.
Sì,
perché
in
questo
ideogramma,
dove
una
testa
e
una
strada
vengono
disegnate
in
modo
stilizzato,
sembra
quasi
che
ci
sia
l’eco
di
una
mente,
una
mente
che
ha
progettato
il
tutto
che
esiste
e di
cui
anche
noi
facciamo
parte.
Quindi
Dao
è
mente,
è
modalità,
è
metodo,
ecco
perché
si
identifica
questo
carattere
nel
significato
odierno
di
“via”.
In
sé
una
via
ha
un
inizio
e ha
una
fine,
ma
non
solo,
ha
un
percorso
tracciato.
Ci
si
chiede
allora
se
il
Dao
ha
un
inizio
e
una
fine,
se
ha
un
percorso,
e ci
si
risponde
che
il
Dao
“è”
inizio,
“è”
fine
ed
“è”
percorso,
perciò
è la
“Via”.
Laozi,
o
chi
ha
scritto
questo
testo,
parla
chiaramente
di
un’origine
a
cui
è
impossibile
dare
un
nome,
perché
non
ha
nome,
in
quando
un
nome
definisce,
un
nome
limita,
un
nome
crea
un
significato
che
ha
confini,
ma
il
Dao
significa
tutto
e
anche
niente,
perché
comprende
in
sé
anche
il
niente,
comprende
in
sé
tutte
le
antinomie.
Una
volta
che
l’uomo
però
dà
un
nome,
un
nome
al
Dao
come
al
resto
delle
cose
che
esistono,
riesce
a
capire,
riesce
a
pensare
e a
descrivere,
ma
sopra
ogni
cosa
diviene
capace
di
comunicare,
perciò
l’autore
parla
di
“madre”
degli
esseri,
perché
è
nel
linguaggio
l’inizio
dell’umanità.
Tutto
questo
discorso
non
può
che
far
rimanere
affascinati
dal
modo
in
cui,
con
semplicità
disarmante,
all’interno
di
un
disegno,
si
possano
evocare
tali
significati,
di
una
profondità
filosofica
così
difficile
a
volte
da
comunicare
a
parole.
Dunque
abbiamo
detto
che
il
Dao
è
inteso
anche
come
un
percorso,
un
percorso
di
virtù.
Il
saggio
che
segue
questa
via,
che
la
fa
propria
e su
cui
basa
la
sua
esistenza,
deve
necessariamente
avere
delle
doti:
l’umiltà,
la
spontaneità,
la
capacità
di
stupirsi
e
l’autoironia.
Se
queste
non
si
hanno
il
Dao
non
può
essere
trovato.
“Non
uscire
dalla
porta
per
conoscere
il
mondo.
Non
guardare
dalla
finestra
per
conoscere
il
Dao
del
Cielo.
Tanto
più
uno
andrà
lontano,
tanto
meno
egli
conoscerà.
Perciò
il
saggio
senza
viaggiare
sa,
senza
vedere
nomina,
senza
agire
compie”.
Queste
parole
sono
alla
base
della
filosofia
taoista
di
vita:
non
si
deve
cercare
di
andare
oltre
un
confine
per
avere
la
saggezza,
non
ci
si
deve
sforzare
di
cambiare
gli
eventi
per
dimostrare
la
propria
virtù:
è il
principio
del
wu
wei,
del
“non
agire”.
Come
il
flusso
di
un
fiume
segue
la
sua
corrente
per
natura,
così
anche
l’essere
umano
deve
cercare
se
stesso
nella
spontaneità,
nella
naturalezza
del
proprio
sé,
stupendosi
del
creato
senza
cercare
di
intervenire
per
cambiarne
l’ordine,
ma
apprezzando
ciò
che
la
stessa
natura
riesce
a
fare
per
giungere
così
alla
conoscenza,
alla
verità.
L’acqua
sembra
così
debole,
eppure
riesce
a
erodere
una
roccia,
a
distruggere
con
impeto,
seguendo
il
suo
irrimediabile
flusso,
aderendo
ciecamente
alla
sua
natura,
allo
stesso
modo
il
saggio
deve
ispirarsi
al
Dao,
alla
semplicità,
all’ordine
naturale,
e
tutto
così
saprà
compiersi
senza
che
intervengano
desideri
o
passioni
in
grado
di
minare
ciò
che
la
sua
natura
vuole
costruire.
“Questo
è
detto
essere
contrario
al
Dao;
chi
è
contrario
al
Dao
presto
morirà”.
Riferimenti
Bibliografici:
L.
Lanciotti
(a
cura
di),
Lao-Tzu
il
libro
della
virtù
e
della
via,
SE,
Milano
1993.